Si nasconde nell’oscurità, tra le correnti gelide, a qualche chilometro dall’isola di Re William, sotto i ghiacci spessi dell’Inferno bianco. Gli Inuit del posto raccontano che ogni anno, durante quella manciata di giorni tra luglio ed agosto, spunti la cima della prua dell’HMS Erebus, perfettamente conservata a 15 metri di profondità in posizione verticale, tra le tenebre delle acque polari, sin dal 1845, quando s’incagliò tra i banchi di ghiaccio, sotto il comando di John Franklin, noto capitano e mitomane pioniere di acque ignote al soldo di sua Maestà il denaro d’Inghilterra. Morirono in 129 nel tentativo di tornare a piedi, a casa, verso Sud. A quasi 170 anni dall’incidente, nel 2014 un team di ricerca di National Geographic è riuscito a recuperarne la campana; così nel 2018 spunta su Netflix, una produzione tutta americana, The Terror, che tratta proprio di questa vicenda, in omaggio ai caduti in quel lontano pianeta di ghiaccio che separa Stati Uniti e Russia, dove queste si sfiorano con un dito sulla cima del mondo: l’Artico. I ghiacci, però, si stanno via via assottigliando, si dice a causa del riscaldamento climatico, oppure a causa dell’innalzarsi della temperatura e delle tensioni che corrono fra i tre giganti, i quali non staranno ad aspettare che il ghiaccio torni acqua per portarsi avanti in quel teatro geopolitico, ormai affollato di attori sempre più in competizione, chi nell’economia, chi militarmente e chi in entrambi i casi.
La spettacolare emersione da sotto i ghiacci dei tre sottomarini a propulsione nucleare serie Akula-II ad opera di Nikolaj Evmenov, ammiraglio della possente Flotta del Nord, è stata ripresa da appositi droni da più angolazioni. Una dimostrazione di forza degna di una colonna sonora fatta di bassi sintetici, bordate solenni e minacciose tipiche delle composizioni di Hans Zimmer. Il messaggio che lancia Mosca è cristallino: giù le mani dall’Artico. Era d’altronde prevedibile; la Russia da centinaia di anni prigioniera della sua sconfinata geografia ed in cerca di uno sbocco su un qualsiasi mare navigabile, ha oggi davanti a sé l’occasione di navigare per la prima volta delle acque che da secoli sono rimaste ghiacciate e impraticabili, quelle che dal Mare di Barents si addossano alla costa russa sino allo stretto di Bering, per poi tuffarsi nel pacifico e giungere sino alla Cina. Peccato che quello stretto sia un Bosforo polare conteso nel diritto internazionale del Concilio Artico. Se solo Alessandro II fosse stato un po’ più lungimirante, avrà pensato Vladimir Putin il 30 marzo, anniversario della cessione dell’Alaska agli Usa, avvenuto nel 1867. La Convenzione ONU sul diritto del mare (UNCLOS) sancisce che i Paesi firmatari hanno diritto allo sfruttamento esclusivo delle risorse comprese entro le 200 miglia marine dai propri confini terrestri, definendola ZEE. In certi casi, su base scientifica appurata su una delle proprie piattaforme continentali, uno Stato può chiedere l’estensione a 350 miglia marine dalle sue coste. Inutile dire che la ZEE russa e quella Usa si sovrappongono clamorosamente presso lo stretto di Bering. La zona produce circa il 15% del Pil nazionale, l’80% del Gnl russo e quasi 50 miliardi di barili di petrolio, oltre ad essere ricchissima di diamanti, nichel e terre rare. La fusione di questi ghiacci è però un paradosso ecologico, in quanto al crescere del traffico in questo canale, aumenterà anche l’inquinamento agli occhi di un Occidente ormai sempre pronto a sfruttare l’ecologia come arma ostruzionistica ove convenga. Basti pensare che nei primi 10 mesi del 2020 26,4 mln di tonnellate di merci sono passate da Nord-Est, ossia il 2,9% in più rispetto all’anno prima. Dati alla mano, si prevede per il 2035 lo sfiorarsi dei 130 milioni di tonnellate di merci in transito, il che è un qualcosa di assolutamente nuovo per la Russia, ormai pronta ad un’estate sia ambientale che economica. Per questo Putin sembra volersi preparare all’inaugurazione di questa nuova epoca, presentando la tratta Nord-Est come un progetto assolutamente eco-sostenibile, in quanto si servirà proprio della Flotta del Nord insieme con Rosatom per ripulire i fondali dai residui nucleari della Guerra Fredda, quegli stessi fondali dove continua ad ondeggiare la bandiera russa in titanio, a 4261 metri di profondità, così da ricordare in ogni caso che quella tratta sarà sotto il suo controllo militare.
Il passaggio a Nord-Est è naturalmente funzionale anche alla Cina, socio di maggioranza nella relazione bilaterale con Mosca. L’apertura di questo varco potrebbe cambiare totalmente le carte in tavola, anche in seguito alla sempre più evidente fragilità logistica del Canale di Suez, attraverso il quale il Gnl russo, per giungere in Cina impiega circa 30 giorni. Attraverso la tratta artica ci vorrebbe la metà del tempo. È chiaro che questo rappresenterebbe un vantaggio anche per le potenze europee ed atlantiche che fossero allettate da questa possibilità, come ad esempio l’Inghilterra post-Brexit di Boris Johnson, ben consapevole della necessità di riassumere una posizione di rilevanza nel mercato globale ora che è fuori dall’Unione Europea. Bisognerà però verificare se effettivamente questa tratta possa rappresentare un vero e proprio successo logistico, perché come fanno notare gli analisti di Osservatorio Artico, esisterebbe almeno per il momento uno sbilancio commerciale– attraverso questa via polare della seta – tra Cina ed Europa, in quanto detto in parole povere, senza scendere nei dettagli della disciplina logistica, quando quattro navi giungono in Europa (dalla Cina), solo due ritornano piene. Ciò non solo non è efficace ma rischia di essere contro producente; la costa settentrionale della Russia è assai desolata e non offre le stesse potenzialità, in questi termini, delle stime demografiche che s’incontrano passando per Suez. In ogni caso, la necessità per l’Inghilterra di un dialogo di natura win-win con Xi Jinping porterà probabilmente Londra a riconoscere il fatto che le rivendicazioni russe nell’Artico siano in fondo una strategia di difesa avanzata, legittima e lontana da un qualsiasi fine offensivo. Forse un problema potrebbe riguardare la rivendicazione che Putin ha mosso verso le isole Svanbald – appartenenti alla Norvegia secondo tutti gli stati del Concilio Artico – nelle cui miniere di carbone si sono trasferiti ormai molti minatori russi, sino a divenire maggioranza etnica (condizione sempre molto utile in contese di questo genere). L’Inghilterra dovrà, in ogni caso, tenere bene a mente del ruolo fondamentale che svolge come sentinella di ferro sul varco di GIUK insieme con Norvegia, Svezia, Finlandia, ma soprattutto la Danimarca.
La pervasività economica cinese è troppo forte per la Casa Bianca. Il progetto della Polar Silk Road, il cui documento ufficiale è stato pubblicato nel 2018, vanta già l’attivo sviluppo di infrastrutture portuali e aeroportuali e cavi sottomarini tra i ghiacci del Polo, la commissione di due rompighiaccio a limitata manovrabilità (Xuelong e X2) – sicuramente non all’altezza di quelle della Flotta del Nord – ma valide a competere con quelle statunitensi. Inoltre, la vasta presenza diplomatica e gli enormi investimenti in Groenlandia, hanno portato gli Usa a temere che in un futuro sempre meno lontano, questi verranno sfruttati per accedere all’estrazione delle ricchezze minerarie abbondanti in quell’area. Proprio per questo motivo il governo danese si è visto costretto ad aumentare sensibilmente e con evidente sofferenza lo stanziamento di risorse per l’area, nel timore condiviso con l’amministrazione Biden, di un’eventuale spinta indipendentista da parte del continente bianco. L’Islanda, che dalle precedenti amministrazioni era stata abbandonata dai militari americani, risulta ora essere assediata da numerose stazioni di ricerca cinesi. È così che si delinea un tavolo estremamente affollato presso la sede del Concilio Artico, dalla quale non si sa bene per quanto la Cina resterà fuori, ormai con tutti e due i piedi nelle nevi soffici pronte a liquefarsi nel secolo. Se la presenza economica di Pechino nell’Artico non è coperta militarmente, il vantaggio militare e tecnologico che la Russia vanta per tradizione risulterà assai utile a Xi Jinping per giungere nel cuore dell’economia europea, della Groenlandia e Islanda. Resta però l’incognita della prova di forza sempre più rischiosa – anche in relazione alle altissime temperatura tra Usa e Russia nel Donbass – presso lo Stretto di Bering, che potrebbe essere il teatro di un potenziale confronto tra Usa e Russia. Joe Biden marca stretto Vladimir Putin dall’Alaska facendo volare i suoi F-22 ed F-35 e sconfinando spesso nello spazio aereo russo. Putin dal canto suo nell’esercitazione del 2014 aveva coinvolto 155000 uomini e migliaia di carri armati, caccia e navi, simulando di dover respingere una potenza straniera di nome Missouri ed una non specificata potenza asiatica ad essa alleata, sbarcata in Cutotka, Kamchatka, nelle isole Curili e a Sachalin. Resta il dato di fatto che mentre i Russi nell’Artide hanno ormai grandi città, gli americani hanno solo villaggi.
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