Il terrorismo rappresenta un fenomeno antico che si ripresenta ciclicamente durante la storia, da sempre strategia utilizzata da determinati attori per giungere a determinati obiettivi politici. Valentine Lomellini, storica del terrorismo presso l’Università di Padova e già autrice de “Il Lodo Moro” ha pubblicato un nuovo libro, “La Diplomazia del Terrore”, edito da Laterza e nelle librerie dal 17 febbraio. Si tratta di un interessante studio che va a colmare una precisa lacuna storiografica, ovvero quella delle relazioni internazionali dei Paesi europei tra 1967 e 1989 attraverso il punto di vista del terrorismo arabo-palestinese, ripercorrendo la storia del Club di Berna e del Trevi, formato sviluppato con l’obiettivo di ricondurre sotto una gestione più comunitaria l’analisi e la prevenzione del fenomeno in questione. Il libro offre un punto di vista inedito, grazie anche alla declassificazione dei documenti di diversi archivi nazionali, incluso quello italiano, sull’attentato di Monaco del 1972 e su molti altri eventi ad esso collegati. Il volume in questione inoltre batte sui tempi il rapporto sul 2022 del SISR, anticipando alcuni dei temi presenti nel report annuale dell’intelligence nostrana. Abbiamo voluto dunque interpellare l’autrice sia sul suo studio che sul presente.
-Professoressa Lomellini, la guerra in Ucraina ha fatto sbiadire nella memoria dei Paesi europei il ricordo dell’attacco alle Torri Gemelle. Nel Vecchio Continente, questo evento, soprattutto nelle sue ricorrenze ha avuto sino ad oggi un rilievo superiore rispetto a quello riservato alle vittime provocate dal terrorismo arabo-palestinese e poi islamico. Come mai i Paesi europei non sono riusciti ad elaborare un approccio veramente comunitario al terrorismo?
A mio avviso ci sono riusciti, ma in tempi abbastanza recenti, ovvero dopo il 2015. Gli attentati del novembre di quell’anno in Francia, a livello europeo, hanno rappresentato un punto di svolta forse equiparabile all’undici settembre. Forse perché in quel momento è venuta meno la pregiudiziale principale, ovvero quella francese. La Francia durante tutta la guerra fredda ha sempre partecipato ai network della sicurezza per la prevenzione del terrorismo, ma in realtà poi ha sempre mantenuto una posizione estremamente indipendente, che andava a sommarsi alle posizioni in ordine sparso dei Paesi europei. È questo secondo me il punto di svolta, insieme con il processo di mediatizzazione e anche di sovraesposizione mediatica, di cui siamo testimoni da diversi anni, e che è caratterizzato dalla rapidità nell’evoluzione dell’agenda mediatica globale. Mi pare molto interessante il fatto che oggi sia la Russia di Putin, sia l’Ucraina di Zelensky, abbiano molto spesso accusato la controparte di terrorismo, facendo in realtà un uso abbastanza improprio del termine, rivelando e confermando che quest’etichetta – “terrorista” – viene utilizzata in modo strumentale per conferire una valutazione etica negativa ad un fenomeno e quindi di produrre un impatto immediatamente significativo ed emotivo nell’opinione pubblica.
–Quanto lei espone nel libro sembrerebbe confermare anche quanto accade oggi, dove il bipolarismo ideologico rischia di generare un’interpretazione sbagliata del fenomeno terroristico, portando anche a delle inefficienze nell’analisi e nello studio. Nella Guerra Fredda, ad esempio, quali sono stati i principali eventi vittima di questo problema?
Senz’altro quello che va dalla fine degli anni Sessanta sino all’inizio Settanta è stato il periodo in cui più si è manifestata questa incomprensione del fenomeno terroristico arabo-palestinese. Era tuttavia un fenomeno molto nuovo e quindi gli osservatori coevi faticavano concretamente a comprendere questa nuova dimensione, per ragioni legate al fatto che la guerra fredda, sostanzialmente, compenetrava la lettura di questo fenomeno. Si trattava di un fatto transnazionale, ma che si muoveva in una logica bipolare e che appariva dunque come elemento estraneo alla situazione esistente. Poi c’è ovviamente da considerare l’elemento della sua strumentalizzazione. Non diversamente da oggi, alcune forze politiche hanno iper-valorizzato l’esistenza di un terrorismo di matrice marxista leninista o dei collegamenti di quest’ultimo con altri terrorismi, come quello arabo palestinese. A detta di questi osservatori (anche rappresentanti dei Paesi europei), si riteneva che le reti del terrorismo arabo-palestinese avessero delle connessioni molto strette e viscerali con l’Unione Sovietica. Ciò non era completamente estraneo alla realtà ma tale valutazione andava certamente ridimensionata nei termini.
Certo è che questa incomprensione, come spiego nel volume, ha provocato, alcuni deficit in materia di prevenzione, come è accaduto per l’attentato di Monaco del 1972 o quello contro la Forza Multinazionale in Libano nel 1983, ad oggi considerato come momento di svolta della genesi del terrorismo religioso e la sua grande vittoria. Il ritiro del soggetto militare in questione dai territori libanesi, in realtà, non viene letto in questi termini all’epoca, anzi, tutto il contrario. Si tratta di un fenomeno molto complesso che all’epoca era molto poco compreso.
–Sempre riguardo gli effetti collaterali del bipolarismo internazionale, ritiene che oggi vi sia ancora una tendenza a considerare come plausibile la tesi di un “grande vecchio” capace di coordinare in maniera unitaria terrorismo islamico e politico, come ad esempio quello anarchico?
La situazione è molto cambiata. I terrorismi di matrice nazionalista sono in larga parte sopiti in Europa, e anche quelli di matrice marxista-leninista. Anche se va considerato che le recenti dimostrazioni di forza avvenute in Italia da parte della Federazione anarchica informale, nonostante non abbiano provocato vittime, dimostrano che tutto sommato questo fermento continua ad esistere, seppur ridotto nei termini.
Il divario, però, rispetto a quello islamista è evidente, assordante. Il terrorismo arabo-palestinese era un terrorismo senz’altro nazionalista, ma in alcune sue frange dichiaratamente marxista-leninista, quindi, evidentemente, l’accostamento all’Unione sovietica e ai movimenti rivoluzionari era più scontata agli occhi dell’opinione pubblica, ma anche nella mente degli addetti alla sicurezza.
Oggi vedo meno la possibilità di comprendere il terrorismo come un unico fenomeno. Bisogna tuttavia precisare che la tentazione dietrologica è sempre dietro l’angolo: spesso si preferiscono delle spiegazioni che non sono “semplici”, ma che sono molto “semplicistiche” e che quindi tendono ad individuare delle linee di comprensione più banali, ma più facilmente digeribili dal grande pubblico e soprattutto più affascinanti.
–Su questo argomento vorrei tornare a ragionare con lei in seguito. Ora, tornando sull’attentato di Monaco, quale fu il motivo dell’esclusione di Israele dalla partecipazione alla seconda riunione informale di Berna prima del 1972?
Nel volume ci sono diverse evidenze che dimostrano una forte diffidenza dei servizi di informazione occidentali verso quelli israeliani. È qualcosa che si ripresenta più e più volte e questo ovviamente ha inficiato le capacità di previsione del fenomeno terroristico e dunque di reazione. Le informative provenienti da Israele sono la fonte principale sulla quale si basano le informazioni e le analisi dei Paesi europei, rispetto alla possibilità di attentati, allo sviluppo di organizzazioni, al passaggio di terroristi. Israele aveva e ha un ruolo cruciale nell’informare le intelligence europee. Non sempre ciò è stato compreso e valorizzato.
–A proposito di Israele, lei crede che oggi, data l’accresciuta assertività di Tel Aviv in Palestina, possa esservi una recrudescenza del fenomeno del terrorismo in Europa, mai veramente sopito, soprattutto in Francia dove continua a trascinarsi?
Credo siano fenomeni in larga parte diversi, anche se qualche punto di contatto probabilmente c’è. Detto ciò è vero che abbiamo assistito ad attentati terroristici in Europa, però con modalità e capacità molto diverse a quelli degli anni precedenti. È evidente che negli ultimi anni ha prevalso il fenomeno dei lupi solitari rispetto ad un organizzazione più strutturata come ad esempio quella di al Qaida. Vi è stato un cambiamento nella soggettività del fenomeno terroristico, anche probabilmente di fronte alle accresciute capacità di collaborazione e prevenzione non solo degli attentati terroristici, ma anche della radicalizzazione. Ci troviamo in un momento in cui questi episodi sono più isolati rispetto al passato. È anche vero che la nostra percezione è condizionata dal fatto che vi siano state due grandi emergenze: il Covid e la Guerra in Ucraina; quindi certe notizie che in passato avrebbero riempito le pagine dei giornali, oggi vengono passate un po’ più sotto traccia. Quanto alla possibilità di un’effettiva recrudescenza del terrorismo islamista in Europa, mi pare che si vada più nella direzione di un terrorismo che potremmo definire “autoctono”, ovvero prodotto dalle seconde generazioni, per quanto in maniera residuale. Ritengo che la strategia terroristica di Daesh e dei suoi affiliati si sia spostata al di fuori dal quadrante europeo ed occidentale e dunque le sue azioni fanno meno notizia. Bisogna considerare che il terrorismo è uno strumento utilizzato razionalmente, la strategia terroristica è appunto una strategia con obiettivo politico, dunque non vedo le precondizioni per un’altra massiccia ondata terroristica arabo palestinese in Europa. Il terrorismo è uno strumento politico (eticamente molto condannabile) che alcuni Stati od organizzazioni utilizzano in maniera interscambiabile alla diplomazia in senso classico. Per questo il volume si chiama la Diplomazia del Terrore. Esiste un doppio volto della politica di alcuni Stati che si sono resi responsabili di aver fomentato il terrorismo internazionale, promuovendo lo sviluppo di una diplomazia coercitiva attraverso l’uso del terrorismo. Il terrorismo in realtà è in realtà un archetipo che si ripropone negli anni, dunque il suo studio anche nel breve periodo deve tenere conto anche del lungo periodo, onde evitare un effetto boomerang, come è accaduto nel passaggio dal terrorismo arabo-palestinese a quello islamico.
–Lei nel volume approfondisce anche il tema dell’approccio intergovernativo dei Paesi europei alla gestione mediatica degli attacchi terroristici. Ritiene che oggi il problema sia risolto oppure no?
Già negli anni Settanta il problema dell’uso che i terroristi fanno dei media è un problema che emerge e il primo a porlo è Paul Wilkinson, all’epoca ricercatore ad Aberdeen, che addirittura tenta di fondare un centro di ricerca su questo tema, molto sentito, soprattutto dopo la strage di Monaco, quando è evidente che i terroristi acquisiscono una certa consapevolezza dell’uso dei media. I fatti di metà anni Settanta sono molto interessanti. Vi sono alcuni attentati terroristici nei quali tra le richieste degli attentatori vi è quella di ripetere il proprio claim ogni mezz’ora sulla televisione di Stato. Qui si vede, letteralmente, una vera e propria presa di consapevolezza dei gruppi terroristici. Il tentativo di gestione è in questo caso abbastanza virtuoso. La tendenza nel Club di Berna prima e nel network di Trevi poi (che nasce nella seconda metà degli anni settanta), è quello di stabilire un legame abbastanza solido con la stampa – non nella fase di attacco terroristico, ma preventivamente – in modo tale che si costituisca un rapporto reciproco di fiducia atto a facilitare la gestione mediatica della crisi, qualora si concretizzi, ed è un modello sostanzialmente importato dalla Gran Bretagna. Oggi, leggendo tra le righe, possiamo ravvisare questo metodo nelle crisi. Il problema, oggi, non è tanto la stampa, ma i social networks, ove questa regola-accordo di attenzione che ha lo scopo di salvare gli ostaggi, viene “bypassato” dal fatto che spuntino su internet video – come quanto accaduto per il caso Bataclan – che andrebbero mantenuti, almeno momentaneamente, riservati.
–I rapporti tra Italia e Libia rappresentano un caso decisamente sui generis per quanto riguarda l’approccio al terrorismo. Perché?
La Libia è uno tra i primissimi Paesi ad essere sospettato, insieme all’Iraq, di essere sponsor del terrorismo internazionale. La Libia viene bombardata per questa ragione dagli Stati Uniti nel 1986, ma la storia di questo sospetto, piuttosto fondato, data dal 1973, quando avvenne l’attentato di Fiumicino. Da quel momento in poi l’atteggiamento italiano è di estrema cautela e circospezione nei confronti della Libia, per tante ragioni che secondo me non vanno banalizzate. Spesso si dice “abbiamo venduto i nostri cittadini per del petrolio”. In parte è così, nel senso che la ragione del petrolio è una tra quelle che ha spinto il governo italiano nel corso della storia della Prima Repubblica ad avere questo atteggiamento morbido nei confronti della Libia. Ma ebbero senz’altro un peso la collocazione geografica e geopolitica del Paese; ad esso si aggiunge l’idea costante dell’Italia di essere mediatrice tra Occidente e Mediterraneo. La celeberrima e costante idea per cui l’Italia possa fungere da ponte tra queste due sponde è un’idea che viene accarezzata e sviluppata in modo continuativo nella Prima Repubblica e non solo, mi verrebbe da dire, perché consente all’Italia di ridefinire il proprio ruolo internazionale e di ottenere uno status che date le sue condizioni non potrebbe ottenere altrimenti. L’atteggiamento morbido dell’Italia verso la Libia, infine, si spiega razionalmente sotto questo profilo. Esistono, ad ogni modo, anche delle alternative. All’inizio degli anni settanta anche la Gran Bretagna sviluppò contatti con la Libia, ma nel corso dei colloqui, avendo la certezza che Tripoli vendesse armi all’IRA, affrontò con essa la questione frontalmente. Gli italiani con i libici invece non parlano dell’attentato di Fiumicino e quando lo fanno, ne parlano con una grandissima cautela e circospezione, a mio avviso eccessiva rispetto a quanto possa volere la ragion di Stato.
–È interessante come nel libro lei evidenzi quanto la Libia, nonostante sia stata sino ad un certo anno un importante alleato nel Mediterraneo – e dovrebbe esserlo ancora oggi non fosse così frammentato e conteso da altre potenze –, sia stato un soggetto abbastanza insidioso per certi versi. Basti pensare alle dichiarazioni di supporto agli atti terroristici in Italia da parte di Gheddafi, che da certa saggistica viene condannato a prescindere come tiranno sanguinario, in altra descritto in maniera benevola tralasciando però gli aspetti più controversi delle relazioni internazionali da questo condotte non solo con l’Italia, ma anche la Francia. Come ha influito l’intervento militare in Libia del 1986 sugli interessi francesi?
I rapporti della Libia con la Francia sono abbastanza ondivaghi. Nel corso degli anni Settanta la Francia e la Libia si confrontano sulla questione del Ciad e sull’ipotesi che la Francia di d’Estaing abbia fornito sostegno al tentativo di assassinio contro Gheddafi.
Sono rapporti piuttosto complicati e che a mio avviso offrono un elemento convincente per spiegare come mai la Francia, nel corso di tutti gli anni settanta, sia l’unico Paese europeo che continua a subire attacchi terroristici di matrice arabo-palestinese. Come racconto ne “La diplomazia del terrore”, la Francia nel 1975 subisce nell’arco di dieci giorni due attentati consecutivi contro l’aeroporto di Orly.
–Per concludere, vorrei tornare con lei a ragionare sulla vicenda anarchica, ed in particolare sul caso Alfredo Cospito. Può darci qualche suo commento al riguardo? Ritiene sia un pericolo, quello del terrorismo anarchico, da non sottovalutare?
Mi ha abbastanza stupito soprattutto la gestione mediatica della vicenda, non tanto riguardo il caso Cospito in sé ed il suo sciopero della fame, ma riguardo la lettura che è stata data, da parte di alcuni commentatori, a questo movimento anarchico. Ho sentito alcune personalità dire che il movimento in questione, essendo anarchico, debba per forza essere “acefalo”, e che quindi non vi sia organizzazione dietro di esso. Io trovo che si tratti di una prova di forza, del lancio di un guanto di sfida, anche se ci troviamo di fronte ad attentati più dimostrativi che altro, e che non hanno provocato vittime, probabilmente non a caso. Questi fatti comunque dimostrano che il coordinamento c’è. Gli obiettivi di queste azioni, per altro, sono stati davvero tipici e tradizionali per chi studia la storia del terrorismo internazionale. La classe diplomatica è uno dei grandi archetipi del terrorismo arabo-palestinese, ma anche armeno, degli anni Settanta. Mi ha un po’ sorpreso l’appiattimento e la banalità con cui queste vicende sono state trattate dalla stampa. Quando si parla di gruppi terroristici ovviamente, non si parla mai di migliaia di persone. Sono sempre decine, al massimo centinaia di persone, poi dipende dalla tipologia di organizzazione terroristica. Vi sono inoltre vari gradi coinvolgimento. Coloro che entrano in clandestinità sono sempre un numero estremamente sparuto ed essenzialmente sono loro i responsabili della violenza. Poi c’è l’area dei fiancheggiatori, l’area grigia, infine l’area dell’indifferenza. Non è un fenomeno così appiattito, ma è molto più complesso. Io non voglio iper-enfatizzare il fenomeno attuale, sia chiaro, però, forse sarebbe bene ricordarsi che a cavallo tra XIX e XX secolo è esistito un movimento anarchico internazionale, composto da un gruppo non sparuto, ma sparutissimo di attivisti e terroristi, e che ha avuto come obiettivo il regicidio, cioè l’assassinio dei più alti esponenti politici dei vari Stati, e ci sono riusciti. Il Presidente degli Stati Uniti viene assassinato, il Re Umberto I viene assassinato, la Principessa Sissi viene assassinata. Quando si fanno certi commenti forse bisognerebbe avere un po’ in mente il pregresso – e ripeto, non per iper-enfatizzare questi attentati che sono solo dimostrativi, dunque di una tipologia completamente diversa – però l’argomento dell’esiguità dei partecipanti, non è un’argomentazione. Vi è un elemento catalizzatore che attira degli ambienti insoddisfatti e che periodicamente avvallano l’utilizzo della violenza. Ripeto, un’organizzazione non è sempre “terroristica”, ma il terrorismo è uno strumento che può da questa essere utilizzato per raggiungere uno scopo politico ben preciso. È un fenomeno, una strategia che si ripropone ciclicamente nella Storia a partire dagli Zeloti, quindi non andrebbe banalizzato.