Senz’anima, senza idee, senza nomi. La politica italiana è letteralmente senza bussola. Per adesso l’unico ad aver mostrato di aver avuto una strategia è stato Silvio Berlusconi, il quale per settimane si è preparato alla guerra, ha alzato la posta, si è preso la scena, per poi ritirarsi il giorno prima delle votazioni, lasciando i suoi alleati di centro-destra senza proposte. E nel mentre negoziava (e negozia tuttora) sotto banco la tregua, nonché una pace postuma e duratura, con “la generazione del ‘92”, quella che non lo ha mai accreditato al potere. È il grande limite dei Paesi a democrazia limitata, fondati su clan e capitribù, privi di una visione del mondo. Giocano una partita che è tutta condominiale, e quando occorre prendere decisioni strategiche, senza un “spin” internazionale, non hanno nulla da dire.
A creare maggiore confusione, sotto il Colle, è stata la divisione delle centrali angloamericane – giornali e banche di investimento – divise tra Mario Draghi al Quirinale o Mario Draghi a Palazzo Chigi. Se il Financial Times, The Economist, il New York Times, spingevano per la prima opzione, con la complicità di Ferdinando Giugliano, media advisor del Primo Ministro nonché ex editorialista del FT; i report di Goldman Sachs e JP Morgan auspicavano invece che quest’ultimo rimanesse al suo posto per portare avanti il piano del Pnrr. Improvvisamente poi, a rompere questo schema – dunque ad aggiungere confusione alla confusione – è stato un articolo dell’Economist intitolato: “Il tentativo di Mario Draghi di diventare presidente è negativo per l’Italia e l’Europa”. Si legge sul settimanale che «dopo 12 mesi di inusuale quiete e unità nella politica italiana ed europea il passaggio al Quirinale potrebbe mettere tutto questo a rischio». A Palazzo Chigi da qualche giorno era maturata la consapevolezza di non volersi ritrovare nei prossimi mesi a fare da mediatore con i leader al governo e al contempo in campagna elettorale, così è scattata, un po’ controvoglia, l’ipotesi dello switch. Ma la strategia di portare Mario Draghi al Quirinale da parte del suo inner circle adesso si è scontrata con la realtà internazionale, tanto che lo stesso premier è costretto in questi giorni di votazione a levarsi la maschera da “The Young Pope”, e dover interloquire con i leader che significa scendere a patti con il Palazzo e le sue manovre, di calarsi nella politica, che “è sangue e merda”, come diceva il craxiano Rino Formica. Segretari che stimano Mario Draghi, parlamentari che lo detestano, altri che lo adorano, Mario Draghi che ha preso a ceffoni, per mesi, i partiti, e adesso deve negoziare con loro, per incassare i loro voti. Servivano una mano e una scossa, per uscire dal pantano, e le mani e le scosse sono arrivate.
“La crisi orientale in Europa è un grande gioco delle parti. Aumenterà nelle prossime settimane per poi scemare”, ci dice una nostra fonte dentro la Nato. Insomma, se gli analisti di politica internazionali che disegnano scenari di guerra in Ucraina restano degli ingenui; per i ragazzi che lavorano qui, finalmente è arrivata la guerra di cui c’era bisogno. La stessa guerra, che 64 giorni fa, il 22 novembre del 2021, sembrava per esplodere, e invece non è mai successo nulla. Non si può decidere il vento, ma si può sfruttarlo. Per cambiare direzione, decostruire e ricostruire un piano, calmare e smuovere nuovamente le acque. Il Partito Democratico, l’unico partito in Italia che parla il linguaggio del potere, non ha messo veti sulle proposte del centro-destra, tranne uno: Franco Frattini, attuale presidente del Consiglio di Stato, considerato troppo filo-russo per via delle sue posizioni sulle sanzioni. Tutto questo nel giorno in cui Vladimir Putin partecipa da remoto a una conferenza con il meglio dell’imprenditoria italiana (ci saranno di capi di Eni, Enel, Snam, poi Marco Tronchetti Provera di Pirelli, Andrea Orcel di Unicredit, Guido Barilla presidente del gruppo omonimo). Politica, finanza, relazioni e affari non sono la stessa cosa. Lo sa bene Mario Draghi, che agisce in un quadro istituzionale prima ancora che politico; lo sa bene anche Luigi Di Maio, attuale ministro degli Esteri, che in Farnesina si è occupato più di export che di geopolitica. Ora dall’Europa Orientale si è aperta una finestra, guarda all’Italia, e vede affacciarsi Mario Draghi dal Quirinale, e Luigi Di Maio da Palazzo Chigi. Potrebbe semplicemente essere uno spiraglio, oppure una voragine, in cui finirebbero Giuseppe Conte, il Movimento 5 Stelle, e tutti coloro che erano piccoli principi che si credevano Re.