Recita un vecchio adagio che vi siano decenni in cui non avviene nulla, e settimane in cui avvengono decenni. Di solito attribuita a Lenin, la sagace osservazione — ad onor del vero di paternità ignota — vale a riassumere tante tra le innumerevoli analisi con cui s’è cercato di trovare la quadra del (dis)ordine mondiale inaugurato dall’invasione russa dell’Ucraina: da ormai tre anni a questa parte è tutto un susseguirsi vorticoso di eventi, diversi per natura e portata ma identici nel loro segnalare, se non il dipanarsi di un’epoca nuova, certamente il termine della precedente. Ci sono, appunto, momenti in cui d’un tratto le età e le illusioni che le accompagnano si esauriscono. E c’è motivo di pensare, lo diciamo qui ed ora, che il primo mese del presidente prodigo Donald Trump alla Casa Bianca sia tra questi. Prima la boutade sul Canada, elevato dai generosi vicini al rango di Puerto Rico con le renne; poi i rimpalli su Groenlandia e Panama ed il piano, poco importa se a metà tra il comico ed il criminale, per la pacificazione della martoriata Striscia di Gaza; nel mezzo una montagna di dazi, somministrati ad amici e nemici alla pari.
Lo slogan MAGA assume un significato inedito, quel Great una concreta connotazione territoriale. Perché limitarsi a controllare un solo continente, quando le circostanze permettono di acquistarne un secondo in saldo con tanto di accessori? Facile, di fronte a questo mercimonio sinceramente un po’ triste, richiamare un’altra massima socialista, quella sulla Storia che si presenta dapprima come tragedia e poi come farsa; ma il disegno trumpiano è serissimo e affatto irrazionale. La tattica, un’opera di pressione aperta e costante nei teatri d’interesse finalizzata ad ottenere oggi concessioni e vantaggi, serve la strategia, con cui gli USA intendono assicurarsi domani linee di comunicazione ed avamposti essenziali in vista del faccia a faccia col duo revisionista sino-russo. Il quale rappresenta una possibilità sempre più vicina: parola di Marco Rubio, che alla sua audizione al Senato per la nomina a Segretario di Stato prende atto in via ufficiale del multipolarismo incipiente e, quindi, del concludersi del periodo d’indiscussa egemonia globale americana che perdurava, tra alti e bassi, dal 1989.
Motu in fine velocior: giunto al tramonto il relativo idillio del dopo-Guerra Fredda, per restare all’apice della catena alimentare Washington deve correre. Ecco dunque che si spiegano il turbinio di ordini esecutivi promulgati in questi giorni, la carrellata di riforme-lampo, ed i veri e propri colpi d’ascia portati al bilancio monstre del governo federale, assai più immediati (e più vistosi, il che non guasta mai) del minuzioso programma di revisione della spesa che ci si sarebbe aspettati da un’amministrazione ortodossa. Il messaggio, chiarissimo, è che l’America non ha un minuto da perdere; tantomeno, poi, per badare alle apparenze. Al lessico obliquo della diplomazia subentra allora quello diretto degli affari: gli agreements diventano deals, gli understandings si trasformano in settlements. La retorica melliflua sulla cooperazione orizzontale tra partner finisce bruscamente soppiantata dalla cruda realtà di interazioni verticali, gerarchiche, tra un leader e la galassia sconnessa dei suoi gregari. Via i fronzoli, giù la maschera: da implicito il potere a stelle e strisce si fa esplicito, da morbido diventa duro.
Più che una linea politica pare uno spasmo involontario, la conseguenza pressoché automatica dello shock di non essere più padroni del pianeta; ed è legittimo intravedere in questo repentino irrigidimento della postura statunitense un indice di declino, l’ennesimo dopo i disastri di Bush ed Obama, la cesura traumatica del primo mandato Trump e la presidenza-fantasma di Biden. La sottile schadenfreude insita in tale lettura — non a caso alquanto popolare su questo versante dell’Atlantico, dove molte autoproclamate consorti stanno loro malgrado scoprendosi semplici concubine — rischia tuttavia d’inquinare la disamina di una situazione meno fluida di quanto alcuni avrebbero a sperare. Bisogna sempre tenere a mente che lo status di un Paese in seno alla comunità internazionale è relativo: seppur ridimensionato, quello di una superpotenza rimane complessivamente sostanziale, spesso per generazioni. Così la messa in discussione della primazia americana non equivale appunto alla sua scomparsa; anzi che, al momento, la presa degli USA sul loro impero si direbbe per assurdo non essere mai stata tanto salda.
La scommessa ucraina sta dando i suoi (sanguinosissimi) frutti: con il legame fedifrago tra Berlino e Mosca spezzato dalla distruzione del gasdotto NordStream II e la fronda anti-NATO della Francia neogollista ridotta ad una confusa spinta per l’autonomia strategica UE — da raggiungere, obviously, grazie all’aiuto provvidenziale dell’industria bellica d’oltreoceano — i tempi sono maturi perché i lillipuziani del Vecchio Continente liberino lo Zio Sam dal gravoso fardello della loro difesa, portando infine a compimento quel processo di weight shifting che non a torto D.C. considera indispensabile per contrastare efficacemente le ambizioni della Cina. Ancora, la conclamata supremazia politica e militare d’Israele sul Medio Oriente consente allo Studio Ovale di guardare alla regione senza troppe preoccupazioni; stornata dall’agenda la questione della statualità palestinese, non resta che far ingoiare ai pochi indecisi il rospo della definitiva normalizzazione araba con Tel Aviv per chiudere con un insperato successo l’altrimenti rovinosa partita in Asia Minore iniziata oltre vent’anni addietro, per giunta nel silenzio impotente degli Ayatollah.
Soprattutto, però, gli States conservano pressoché inalterato il loro strapotere culturale. I problemi non mancano: la Russia avanza in Africa, Pechino espande la sua flotta da guerra nell’Indo-Pacifico, entrambi intendono sfidare, e sfidano, gli USA tradizionalmente intesi come entità politica e geografica. Ma né l’una né l’altra sono davvero in grado di diminuire l’attrattiva dell’America come idea ed ideologia. Anche ora, nella fase calante della stessa globalizzazione che ne ha veicolato l’ascesa durante l’ultimo trentennio, l’americanismo continua ad essere la cornice subconscia entro cui si svolge la vita della vastissima maggioranza degli abitanti della Terra; ogni giorno otto miliardi di persone si vestono, mangiano, comprano, comunicano, pensano come fossero nel Nebraska. Perfino questo articolo è nel suo piccolo un esempio di ciò: scritto con un dispositivo di marca americana, compare su un sito che si appoggia ad infrastrutture digitali americane, e verrà diffuso tramite piattaforme di social media americane. It’s an American world, si usa ironizzare da quelle parti — you’re just living in it.
In questo sta la vera, immensa forza degli Stati Uniti: non nelle atomiche o nelle basi fuori area, ma nella capacità di proiettare sé stessi anche negli aspetti più banali delle nostre esistenze. Quello a stelle e strisce rappresenta dunque non soltanto l’unico progetto ecumenico mondiale di successo dai tempi dell’antica Roma, ma a tutti gli effetti il primo impero totale, che si spande dappertutto e di cui tutti siamo — consapevoli o inconsapevoli, volenti o nolenti — cittadini. Naturalmente, così come il mastodontico apparato militare facente capo al Pentagono ha un costo, altrettanto lo ha un esercizio d’influenza di una simile portata: aldilà dell’immenso esborso finanziario (basti pensare che l’attuale budget del Dipartimento della Difesa è pari a quasi un terzo dell’intero debito pubblico italiano), il prezzo da pagare per l’americanizzazione del mondo è appunto l’erosione dell’originaria dimensione demografica, geografica e valoriale del Paese. Se ciascun abitante del globo è un americano, allora per sillogismo non lo è nessuno; se l’America è ovunque, allora non è da nessuna parte.
All’espandersi dell’impero corrisponde il contrarsi della nazione, secondo una dinamica cui punto d’arrivo inevitabile è la scomparsa di quest’ultima in favore di uno snodo economico-amministrativo centrale scevro di qualsivoglia identità definita. Una post-America fluida, statunitense solo di nome, in contrapposizione alla quale la rivolta populista trumpiana — non a caso animata dai WASP, suoi più convinti sostenitori fin dal principio — ha preso inizialmente le mosse e che adesso pretende in politica estera l’applicazione di un realismo concepito (sovente in modo scorretto) come muscolare ed unilateralista. Da qui discendono lo smantellamento di USAID, agenzia-cornucopia per la cooperazione internazionale finita sbranata dai mastini dell’austerity di Elon Musk, e l’accennato sganciamento dall’Europa, in attesa che anche alla prediletta Taiwan venga chiesto di fare il suo nella deterrenza contro il grande vicino. Si tratta, beninteso, anzitutto di regolamenti di conti con l’establishment progressista sconfitto; e che nondimeno assecondano quei settantasette milioni di elettori che hanno chiesto a Trump di ribaltare il rapporto tra loro ed il resto del mondo.
Il trumpismo pare insomma aver individuato un punto di equilibrio tra l’onnipresente tentazione di ritirarsi nel retrenchment e quella, uguale e contraria, di continuare ad indossare i panni dello sceriffo globale. Una sintesi tra le due anime della superpotenza americana che si manifesta in un imperialismo snello, diretto ed acuminato. Lungi dal sancire, come vorrebbe una certa vulgata, la morte del decantato rules-based international order, questa transizione da un impero invisibile ad uno visibile ne è al contrario l’espressione più pura; le regole riflettono i rapporti di potere tra coloro cui si applicano, e col potere si può quindi piegarle. Lo sanno bene i russi, che dal recentissimo summit per la pace di Riyadh rientrano impenitenti nel giro che conta, e lo intuiscono sempre di più i cinesi, impegnati con una mano a gettare sassi nell’immenso stagno del Pacifico mentre con l’altra stringono beffardi quelle dei loro nemici. Quanto agli americani, non se lo sono mai davvero dimenticato.