È nei panni del supplice che Volodymir Zelensky va aggirandosi — virtualmente — per le cancellerie di mezzo mondo: pretende, domanda, implora che i suoi alleati, spesso prodighi soltanto di buone parole, diano all’Ucraina sotto assedio quanto necessario per respingere gli invasori russi che la occupano da quasi un anno. Difendersi non basta più, né a lui né alla gente di quel martoriato Paese; vogliamo e possiamo vincere, ripete ogni volta il numero uno di Kiev, ma ci serve il vostro aiuto. Meglio, servono i vostri carri armati, qualche centinaio per opporsi alle migliaia di mezzi omologhi operati da Mosca, sfondare le linee avversarie e cogliere l’agognata vittoria. La primavera si avvicina, il tempo stringe, ma il blocco atlantico non riesce a trovare un accordo: da un lato i falchi, Polonia in testa, dall’altro le colombe, capeggiate da una Germania isolata, tutto mentre Washington prova, invano, a mediare.
Questa l’immagine di assoluta impasse che restituiva il vertice di Ramstein appena la settimana scorsa; sembrava davvero che la politica fosse avviata a replicare lo stallo del campo di battaglia, congelato dalla stagione fredda dopo le grandi manovre dello scorso autunno. Poi, l’improvviso cambio di rotta. Zelensky avrà i suoi carri, e insieme ad essi gli altrettanto richiesti blindati con cui supportare le prossime azioni terrestri: tanto assicurano Francia e Regno Unito. Ci aveva già pensato l’istrionico Emmanuel Macron a rompere gli indugi sulla vexata quaestio degli MBT occidentali, promettendo di far arrivare in prima linea un numero non meglio precisato di carri leggeri AMX-10 RC; non il massimo (i vertici ucraini si aspettavano i Leclerc, gioiello della difesa d’Oltralpe), ma abbastanza da smuovere la controparte britannica Rishi Sunak. Con un tempismo affatto casuale — recenti sondaggi danno il partito laburista in vantaggio sui Tories di ben 21 punti percentuali — l’inquilino del 10 di Downing Street ha infatti deciso di donare uno squadrone di Challenger II, quattordici mezzi in totale più munizioni e pezzi di ricambio.
Sono però i Leopard 2 il vero pomo della discordia. Potenti, veloci, e soprattutto numerosi, i carri teutonici sono apparsi fin da subito come la soluzione ideale per soddisfare i bisogni di Kiev, costretta a fare affidamento su materiale sovietico obsolescente. Tuttavia, l’ultima parola sulla loro destinazione spetta a Berlino: vale anche per i veicoli esportati all’estero, sui quali il governo federale mantiene per contratto uno strettissimo controllo. Le reiterate richieste di diversi Paesi di trasferire al fronte dei Leopard erano finora cadute nel vuoto, complice la malcelata volontà del cancelliere Olaf Scholz di preservare i lucrosi rapporti commerciali tra la Germania e la Federazione Russa; da qui la fronda di Polonia e Olanda, che a margine del citato summit di Ramstein hanno minacciato di ignorare le rimostranze tedesche e procedere da sé alla spedizione dei tank. Alla fine Scholz, pesantemente criticato dall’opinione pubblica internazionale per la sua persistente indecisione, ha dovuto cedere: diciassette Leopard 2A6 lasceranno i depositi della Bundeswehr.
Li seguirà per il momento un’altra cinquantina di esemplari (buona parte dei quali nelle vecchie configurazioni A4 e A5) provenienti da Europa e Canada, per un numero complessivo inferiore a cento corazzati, Challenger inclusi. Decisamente troppo pochi per montare un’offensiva di successo: ne è convinto il generale Valerii Zaluzhny, capo di stato maggiore dell’esercito ucraino, secondo cui ne servirebbero almeno trecento. Inutile sperare che a fornirli siano i partner UE di Kiev; i mezzi in inventario sono a malapena sufficienti ad assicurare la prontezza operativa delle forze dell’Unione, e le aziende del settore non sono in grado di rimpiazzare quelli diretti ad Est entro delle tempistiche apprezzabili. La produzione militare rappresenta per l’alleanza atlantica un problema sempre più pressante. Mentre Varsavia medita di costruire un gigantesco impianto per la manifattura di munizioni d’artiglieria, gli Stati Uniti paiono ben felici di colmare il vuoto lasciato dal conflitto negli arsenali del Vecchio Continente, a cominciare appunto dai carri: dall’inizio delle ostilità le vendite dei celebri M1 hanno subìto un’impennata senza precedenti.
Alcuni ipotizzano allora che l’invio a sorpresa di trentuno piattaforme Abrams in Ucraina abbia (anche) lo scopo di stabilire nel Paese una testa di ponte per la florida industria bellica americana, a tutto discapito della concorrenza straniera. Ad ogni modo, la quantità di mezzi moderni a disposizione di Kiev rimane pericolosamente esigua. Nonostante l’alto livello di protezione attiva e passiva e gli avanzati sensori in dotazione, i carri NATO non sono indistruttibili: i Leopard 2 impiegati dalla Turchia nel teatro siriano sono stati decimati in diverse occasioni, e i ribelli Houthi yemeniti continuano a fare strage degli M1A2 in uso all’Arabia Saudita. Sebbene episodi del genere siano da ascrivere in primo luogo a grossolani errori di natura tattica — sovente i corazzati sono stati schierati in aree edificate senza un complemento di fanteria d’appoggio che potesse rispondere alle minacce presenti — il fatto che formazioni irregolari siano ripetutamente riuscite a neutralizzare dei veicoli così sofisticati dovrebbe mettere un freno ai facili entusiasmi che hanno accompagnato gli ultimi sviluppi.
I Leopard e i Challenger, finora utilizzati esclusivamente nell’ambito di attività controinsurrezionali o di peacekeeping, sono estranei ad un contesto come quello ucraino, che da subito si è contraddistinto per il fortissimo attrito; anche la reputazione eccellente degli Abrams per quel che concerne gli ingaggi convenzionali, eredità di Desert Storm, si deve in una certa misura alla discutibile preparazione delle unità irachene intervenute all’epoca per cercare di fermare la fulminea avanzata della Coalizione nel Golfo Persico. È proprio l’addestramento una delle principali incognite della questione: l’istruzione accelerata impartita agli equipaggi di Kiev e la loro inesperienza con le nuove macchine rischiano di nullificare i vantaggi da esse offerti in termini di robustezza e situational awareness. L’abbondanza di sistemi anticarro, la pur sporadica presenza di assetti aerei nemici e la proliferazione dei droni sollevano poi ulteriori dubbi sul reale impatto di un’iniziativa che si preannuncia laboriosa e, in definitiva, inadeguata agli scopi che si propone di realizzare.
Non è un segreto che la NATO voglia chiudere la partita con il Cremlino entro il 2023. Bruxelles sa di non potersi permettere una dilatazione ad infinitum della crisi attuale, che ne pregiudicherebbe il potenziale (e forse la stessa tenuta interna) lasciando campo libero alla Cina nel Pacifico; ne è la riprova il dibattito apertosi in questi giorni sul possibile invio di caccia F16 ed Eurofighter. Ciò nondimeno, questa apparente presa di coscienza fatica ancora a trovare un concreto riscontro nell’atteggiamento delle classi dirigenti occidentali. Aldilà di qualunque considerazione politica, la posizione adottata dalla compagine euro-atlantica denota una fondamentale incomprensione rispetto al tipo di guerra che si sta combattendo in Ucraina. L’insistenza sull’aspetto qualitativo del sostegno accordato a Kiev — sintomo di una vera e propria “sindrome delle wunderwaffen” ormai endemica presso la stampa ed il pubblico nostrani e non — ed il contestuale disinteresse per le sue criticità sul lungo periodo fanno intendere che ci si sta approcciando alla lotta in corso come ad un conflitto a bassa intensità, non dissimile da quelli che ci hanno visti coinvolti nel ventennio passato.
Una prospettiva che, quando raffrontata con l’enorme carneficina della quale siamo testimoni, risulta a dir poco anacronistica. L’assalto russo ha riportato alla ribalta la dimensione di massa delle contese fra Stati, non soltanto da un punto di vista militare: la guerra è tornata ad essere un affare totale e totalizzante, il cui esito si decide a partire dai numeri. Ostinarsi ad applicare gli schemi limitati appartenuti alla Global War On Terror è indice, se non di un’atrofia del pensiero strategico, certamente di una reticenza ad accettare il cambiamento avvenuto in seno all’arena internazionale. A prescindere da chi sarà a prevalere, il ribaltamento dei paradigmi geopolitici post-89 è con ogni probabilità un processo irreversibile, e come tale impone una seria riflessione sulla nostra effettiva capacità di affrontare le sfide che già vanno profilandosi all’orizzonte. Si tratta di un’opera difficile, ma necessaria: o l’Ovest si adatta, o muore.