No, non è stato J.D. Vance l’ultimo interlocutore ufficiale di Papa Francesco. Non lo diciamo per pedanteria — sebbene sia vero che il triste onore spetterebbe al premier croato Andrej Plenković — né tantomeno in virtù di qualche tacita simpatia nei confronti dell’enfant prodige del populismo a stelle e strisce, oggetto in queste settimane di un’ondata di macabra ironia sul tempismo a dir poco infelice della sua udienza presso il Vescovo di Roma; il fatto è semplicemente che in Vaticano J.D. Vance non ci ha mai neanche messo piede. Piuttosto, le mura leonine le ha varcate il Vicepresidente degli Stati Uniti: una carica prima che un uomo, un politico prima che un devoto, un funzionario in missione prima che un fedele in pellegrinaggio. Fatti salvi i pur senz’altro genuini scopi religiosi (battezzato protestante evangelico, Vance si è convertito al cattolicesimo nel 2019) la trasferta del veep celava infatti l’intento assai più mondano di tastare il polso alla Chiesa, nella malcelata speranza di coglierne una palpitazione trumpiana.
Forse complice l’improvvisa vacanza, il soglio di Pietro si è però rivelato avaro di miracoli. I toni cordiali del colloquio tra il numero due dell’amministrazione statunitense e Monsignor Parolin, vero momento clou del viaggio, non sono bastati a nascondere il fastidio della Curia rispetto alle impacciate avances di questa Casa Bianca, la cui agenda non può che essere agli antipodi dell’esplicita impostazione progressista del pontificato appena conclusosi. Valga da prova la clamorosa lettera inviata da Bergoglio agli ordinari americani in febbraio: una stroncatura plateale della tesi, promossa dallo stesso Vance sulla scia della dissident right online, secondo cui la linea muscolare dello Studio Ovale in materia d’immigrazione sarebbe compatibile con la gerarchia della carità cristiana così come illustrata nell’ordo amoris agostiniano. È il segno concreto che a separare D.C. e il Vaticano non sono più solo le distinte posizioni ideologiche — comunque mai tanto distanti quanto ora — sui temi caldi dell’attualità, ma due concezioni diametralmente opposte della fede cattolica e del suo rapporto con la politica.
Da un lato l’aperturismo globale, extra-europeo e dai (tenui, certo) toni arcobaleno del defunto Vicario di Cristo, dall’altro il ritorno al periodo preconciliare propugnato dalla destra d’Oltreoceano e non. In mezzo un gregge da cinquantatré milioni di anime, che negli States sempre più secolarizzati va via via scoprendosi portatore di un’influenza senza precedenti. I cattolici USA, circa il 20% della popolazione ed in rapida crescita, sono a tutti gli effetti l’ago invisibile della bilancia politica del Paese; e quell’ago, almeno al momento, propende chiaramente in favore di Donald Trump. Merito su tutto dell’autentico trionfo pro-life incassato nel 2021 con la cassazione della famigerata sentenza Roe v. Wade, figlio a sua volta di una raffica di nomine alla Corte Suprema targate DJT che insieme a diversi altri provvedimenti testimoniano la sensibilità — se sincera o interessata poco importa — del tycoon per le istanze dei seguaci della Santa Sede aldilà dell’Atlantico. I quali ringraziano e ricambiano a suon di voti: sono i MAGA Catholics, e sognano il Conclave.
Con la morte di Francesco viene a mancare uno dei più formidabili avversari di Trump; un argine alle velleità spesso eccessive del presidente-rockstar e dei suoi sostenitori, che da par loro sono entusiasti di poter indirizzare la nomina del prossimo Papa. Così, mentre The Donald si dice sicuro di essere in cima alla classifica dei papabili e diffonde immagini di sé in abito talare e mitra, da dietro le quinte l’inossidabile Steve Bannon — pure lui cattolico, ad ulteriore dimostrazione dello stretto legame dei romani con l’esecutivo — mobilita la sua rete in vista di quello che si preannuncia il progetto di una vita. Per l’ex arci-consigliere non si tratta semplicemente di dar e una forma tangibile alle pulsioni reazionarie che da sempre attraversano l’intero arco del cristianesimo americano, e neanche di assicurarsi un alleato sul cui immenso prestigio far leva nell’incipiente contesto internazionale multipolare; unendo trono ed altare il trumpismo punta a travalicare i limiti naturali della democrazia, per sopravvivere al suo creatore e preparare il terreno in vista dell’inevitabile successione.
Deciso l’attacco, occorre che qualcuno si metta alla testa della carica. Tra le figure che scaldano i cuori dei catto-repubblicani spicca indubbiamente Raymond Burke: settantasei anni, canonista di ferro e teologo rigoroso, il cardinale — natìo del Wisconsin, un altro dato a favore — è sempre stato un feroce critico delle posizioni assunte da Francesco in merito a questioni come l’omosessualità, i divorziati risposati e l’antica liturgia latina. Il suo strenuo contrasto al percepito mondialismo dell’episcopato bergogliano gli ha guadagnato gli affetti degli ambienti religiosi ultra-tradizionalisti, incluso un certo numero di importanti mecenati; ma lo ha parimenti allontanato dal Pontefice, notoriamente assai duro con i propri detrattori, e dagli altri porporati. In Burke le eminenze intravedono un elemento polemico e divisivo, inadatto a guidare un’istituzione la cui millenaria vocazione universalista fa oggi il paio con il bisogno esistenziale di raccogliere consensi al di fuori dei confini ideali di un’Occidente che pare averla rigettata.
Tocca allora ripiegare su Robert Sarah. Da molti considerato un confidente intimo di Benedetto XVI (con cui avrebbe redatto un controverso pamphlet in difesa del celibato ecclesiastico), nel corso dell’ultimo decennio si è imposto come inedito punto di riferimento intellettuale per un’ampia fetta del fronte conservatore transnazionale facente capo a Trump, che ne apprezza in particolare la retorica anti-immigrazionista ed anti-Islam e le ponderate critiche rivolte allo zeitgeist moderno. Le sue origini africane attribuiscono inoltre a Sarah un profilo maggiormente in linea con la strategia missionaria — se non addirittura terzomondista — della Chiesa contemporanea, in funzione della quale il Continente rappresenta un teatro di assoluto rilievo e che l’arrivo di un Papa nero andrebbe a consolidare in via pressoché definitiva. E qui sta d’altronde l’intoppo: riesce difficile pensare che questa direzione, di fatto analoga a quella corrente, incontri l’approvazione dell’insulare galassia MAGA, desiderosa com’è di un (implausibile) dietrofront USA-centrico.
La prospettata fronda passatista di Bannon e soci si ritrova dunque già priva di campioni da contrapporre agli oltre cento prelati elettori messa insieme da Francesco durante il suo papato. Una vera e propria armata di lealisti, tutti pronti a fare quadrato intorno al lascito di Bergoglio — che si conferma per distacco il pontefice più espressamente e spietatamente politico degli ultimi cent’anni. Chiunque lo avvicendi dovrà seguire il solco da lui tracciato, volente o nolente, e al pari di lui dovrà barcamenarsi tra il trascendentale ed il mondano. Inutile sperare in un rovescio: sotto il Cupolone le logiche della democrazia di massa, accartocciata dentro i suoi angusti orizzonti temporali, non hanno alcun valore. La continuità tanto agognata dai trumpiani esige uno sguardo molto più lungo di un quadriennio, capace di vedere ed attraversare i secoli restando stabile, fisso in avanti. Roma lo sa, ed è per questo che non tollera le rivoluzioni, men che meno quando indossano l’abito della tradizione; dai giansenisti ai lefebvriani, chi sfida il Papa finisce ai margini.
Insomma, in Vaticano non c’è populismo che tenga. Il Conclave è un rituale chiuso nel proprio mistero, governato da un’élite che opera secondo dinamiche avulse alle pressioni esterne; i conservatori americani, con le loro campagne su X e le donazioni ai media cattolici, possono nella migliore delle ipotesi influenzare il dibattito su di esso, ma non determinarne l’esito. In ultima analisi, il sogno di un Papa MAGA dice più sull’America che sulla Santa Sede. In un’epoca di polarizzazione crescente, il partito dell’elefante cerca appoggi ovunque, anche in un’istituzione che non sono davvero in grado di controllare. La visita di Vance, come le speculazioni su Burke o Sarah, è un sintomo di questa ansia: il bisogno di legittimare il trumpismo con una benedizione urbi et orbi. Ma San Pietro non è Capitol Hill, e la Chiesa, eterno baluardo di un conservatorismo ontologico e pre-politico, non è una cassa di risonanza per le battaglie politiche e culturali made in USA.