OGGETTO: Il futuro dei conservatori dopo Trump
DATA: 16 Luglio 2024
SEZIONE: Ritratti
FORMATO: Visioni
J.D. Vance è stato scelto come candidato alla vicepresidenza. Un nome che è un'indicazione netta sul futuro del Partito Repubblicano voluto da Donald Trump. Vance, salito alla ribalta come rappresentante delle battaglie di una classe media indebolita e paranoica, ha in realtà in Peter Thiel uno dei padri politici, quanto di più lontano dalla sua storia personale, al netto delle posizioni conservatrici che li accomunano. È per questo che se dovesse entrare alla Casa Bianca sarebbe più una vittoria per i venture capitalist californiani che non per la Rust Belt.
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La scelta di J.D. Vance come vice di Donald Trump non è sicuramente la notizia più importante degli ultimi giorni, ma rischia di essere quella con le conseguenze più incisive a lungo termine. Fra i momenti memorabili dell’avventura politica del tycoon newyorkese rimarrà quel Fight pronunciato tre volte dopo il tentato assassinio ad opera di Thomas Matthew Crooks, solitario ventenne conservatore nato e cresciuto a Bethel Park, Pennsylvania. Fight cantato poi dal pubblico della Republican National Convention tenutasi a Milwaukee questo lunedì 15 luglio, che ha definitivamente incoronato il suo leader, presentatosi con la benda all’orecchio segno della sua battaglia politica. Una contrapposizione netta con le difficoltà che invece l’attuale Presidente incontra, sempre più messo in discussione, ma saldo nel ruolo di candidato per mancanza di pretendenti capaci di andare contro la personificazione del partito democratico stesso. Che sarà pure un po’ acciaccata, ma più lucida della follia che sta dall’altra parte.

Ma il futuro è già qui e ha le sembianze di J.D. Vance, perfetto rappresentante ciò che Trump vorrebbe che il suo Partito Repubblicano diventasse. Se per tanto tempo – come David A. Graham sottolinea in un editoriale pubblicato su The Atlantic – gli analisti si sono chiesti cosa ne sarebbe stato della famiglia politica dopo il commiato dell’uomo che ne ha monopolizzato gli ultimi dieci anni, la risposta è ora servita: “Populista ma illiberale, semi-isolazionista, capace di entrare in contatto sia con la classe operaia che con i circoli d’élite”. Vance arriva dalla Deep America, quella che ha ritratto nel suo romanzo, Elegia Americana. Un Paese sofferente, la cui classe media è condannata a rivivere i traumi dei propri genitori, senza possibilità di elevare la propria condizione e per questo preda della paranoia, ovvero del pensiero costante e latente che la causa delle proprie disgrazie derivi dallo sfruttamento esercitato su di essa da altri uomini, più ricchi e senza scrupoli. Non è un caso che Vance dialoghi più facilmente con la sinistra radicale di Bernie Sanders piuttosto che con i moderati centristi: entrambi sono accomunati da motivazioni e desideri simili.

Ed è sempre per questo che in un primo momento l’attuale candidato Vice-Presidente si dichiarasse un never trumper, arrivando a descrivere il tycoon come una sorta di Hitler american style, lucido nell’approfittarsi dei problemi di una fetta di società a lui completamente aliena. Sempre sul The Atlantic Vance scriveva: “La grande tragedia è che molti dei problemi identificati da Trump sono reali e che molte delle ferite che egli sfrutta richiedono una riflessione seria e un’azione misurata – da parte dei governi, sì, ma anche dei leader delle comunità e dei singoli. Tuttavia, finché le persone si affidano a questo rapido sballo, finché i lupi puntano il dito contro tutti tranne che contro loro stessi, la nazione ritarda la necessaria resa dei conti. Non c’è auto-riflessione nel bel mezzo di una falsa euforia. Trump è eroina culturale. Fa sentire meglio alcuni per un po’. Ma non può curare ciò che li affligge e un giorno se ne renderanno conto.”

Le cose sono cambiate in fretta, forse per opportunismo politico o per una rivalutazione della figura politica. Sta di fatto che, specie da quando è stato eletto Senatore per l’Ohio, Vance si è trasformato nel difensore più strenuo delle parole e delle azioni di Trump, arrivando a considerare l’attentato di Butler come conseguenza di alcune dichiarazioni di Joe Biden. La sua campagna è stata finanziata con dieci milioni di dollari da Peter Thiel, miliardario conservatore della Silicon Valley che più volte ha espresso dubbi sulla possibilità che libertà, democrazia ed efficienza possano coesistere in questo secolo. Un personaggio a sua volta alieno a J.D Vance: guru tech, gay con figli, prodotto di un’America distante fisicamente e mentalmente dalla Rust Belt. Eppure, come riporta Greg McKenna su Fortune, sembra che sia stato proprio Thiel ad accompagnare Vance a Mar-a-Lago nel 2021, al fine di chiedere, con successo, un endorsement per il proprio protégé. Oggi i rapporti fra Trump e Thiel sono più freddi, con il primo che ha definito il secondo un fucking scumbag per aver rifiutato di finanziare il partito repubblicano in vista delle elezioni ormai prossime.

Vance è dunque molto più una vittoria per i venture capitalist californiani di quanto non lo sia per la classe media con cui si è sempre identificato. La sua nomina, oltre che una prova provata dell’influenza che il settore tech avrà nell’immediato futuro, è una conferma della fertilità di quell’humus culturale noto come dark enlightment di cui Curtis Yarvin (più volte identificato come ispirazione di Vance) e Nick Land sono stati ideologi. Sembra così che il probabile prossimo Vice-Presidente degli Stati Uniti rassomigli sempre più alla rappresentazione che egli stesso forniva di Trump qualche anno fa: un cavallo di troia per mutare verso forme più autoritarie di democrazia, con il benestare inconsapevole della medesima Deep America incantata dai ritratti nostalgici di un mondo che vorrebbero indietro, ma nei fatti sfruttata da uomini più ricchi e senza scrupoli.

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