Economia e potenza sono cose diverse. Nonostante la maggior parte dell’opinione pubblica italiana sia convinta proprio del contrario, un Paese può essere ricco e non essere una potenza e viceversa. Inoltre, una politica di potenza non implica necessariamente che il leader che la mette in atto detenga un consenso interno assoluto: questo è proprio il caso di Recep Tayyip Erdoğan. “Sultano”, “islamista”, “autocrate”. “dittatore”: questi sono alcuni dei termini più ricorrenti nel dibattito pubblico rivolti alla figura del premier turco. Al di là del fatto che oggi sia meglio parlare di panturchismo invece che di neo-ottomanesimo, anche l’accusa lanciata pochi giorni fa da Mario Draghi non coincide con l’assenza di un consenso interno assoluto (accusa che ha un significato geopolitico ben preciso e rivolto a Washington). Anzi, molto spesso, i “dittatori” (nel senso moderno del termine) esasperano la loro presa dura sul potere proprio a causa di divisioni e debolezza interna. Erdoğan, che appare come un leader monolitico e sembra incarnare una volontà politico-popolare quasi rousseauiana, cioè priva di contraddizioni interne, in realtà, ha contro molti dei principali esponenti dei più importanti apparati dello Stato e si trova schiacciato dalla sua stessa creatura geopolitica: cioè dalla nuova agenda di politica estera che consiste nell’unione delle dottrine “La Patria Blu” (Mavi Vatan) dell’ammiraglio Cem Gürdeniz e “Zero Problemi con i Vicini” (ZPN, Zero Problem with Neighbors) dell’ex ministro degli esteri Ahmet Davutoglu.
A dire la verità, questa dottrina non è propriamente figlia di Erdoğan, ma del suo ministro degli esteri Mevlut Cavusoglu. Quest’ultimo è infatti riuscito a unire una dottrina come “Mavi Vatan” partorita da ambienti kemalisti vicini al nazionalismo di sinistra e all’euroasianismo di Doğu Perinçek con l’agenda politica e i disegni del presidente Erdoğan. Zero problemi con i vicini, difesa dei propri confini marittimi ad ogni costo, insistenza sulla identità turcica come legittimizzazione del proprio espansionismo: questi sono i capisaldi della nuova politica estera turca. Nonostante alcune delle differenze sostanziali di tutte le posizioni confluite in questa nuova dottrina geopolitica rimangano abbastanza evidenti, soprattutto nel caso del nazionalismo, cioè se debba essere islamico (come vuole Erdoğan) o laico (come vogliono i già citati Cem Gürdeniz e Doğu Perinçek), bisogna riconoscere che dal punto di vista della politica estera questa dottrina è riuscita a metter tutti d’accordo. Le divisioni che rimangono emergono quindi a livello interno e sono lontane dal venire meno: l’obbiettivo naturale contro il quale esse si rivoltano è naturalmente l’uomo forte per eccellenza, cioè Erdoğan.
Notizia di pochi giorni fa che testimonia splendidamente questa dinamica è l’arresto di dieci ammiragli in pensione rei di aver firmato una lettera contro la costruzione del canale artificiale “Bosforo II” nel Mar Nero. Questo canale permetterebbe alle navi militari statunitensi di sostare nel Mar Nero per più di 21 giorni a differenza di quanto accade ora con la Convenzione di Montreux del ‘36. Il tutto, naturalmente, in funzione antirussa. Questa scelta è da leggere come il tentativo politico da parte di Erdoğan di personalizzare una dottrina geopolitica che potrebbe benissimo fare a meno di lui. La visione di una Turchia come potenza, non relegata al territorio della penisola anatolica, ma forte anche nei mari, ha portato a questa reazione dei più alti ranghi kemalisti dell’esercito. A detta dell’ammiraglio in pensione Cem Gürdeniz la Turchia, essendo oggi una potenza, non si può permettere di rimanere relegata nei suoi confini territoriali e deve difendere a tutti i costi gli spazi che le spettano nei mari. La politica “Mavi Vatan” e l’utilizzo della diplomazia del cannoniere, a detta del suo ideatore, costituiscono una politica meramente difensiva. Al di là di quanto sia difensiva o meno una politica del genere, ogni potenza da sempre tende a definire “difensive” azioni politiche volte ad una forte espansione, è indubbiamente vero che la scelta di Erdoğan di costruire il canale artificiale “Bosforo II” e di modificare la convenzione di Montreux non poteva non destare reazioni di questo tipo. Se da un lato la costruzione di questo canale darà un’ulteriore allentata al controllo americano sull’operato turco in altri scacchieri per lei fondamentali come la Libia, è anche vero che una più stretta collaborazione, da “guardiano del Causcaso”, determinerà la presenza massiccia degli USA nel Mar Nero e ciò non può che limitare la libertà d’azione della Turchia in quest’area.
Con questa scelta Erdoğan vuole affermare la propria personalità su una dottrina geopolitica che unendo le varie anime dell’esercito turco in materia di politica estera e ottenendo notevoli successi sui principali scacchieri strategici ha messo un po’ da parte il ruolo del presidente forte e la sua funzione di salvatore della patria. L’efficacia del progetto panturco elaborato da Mevlut Cavusoglu, per eterogenesi dei fini, ha limitato e messo in secondo piano la necessità della personalizzazione “erdogania” dell’agenda politica turca: a fronte di un disegno geopolitico ben definito, l’azione di Erdoğan non può che limitarsi a metterlo in atto, ad eseguire un piano già esistente. Con ciò non si intende dire che il potere reale di Erdoğan è stato limitato. Per il momento il presidente ha ancora una grandissima libertà d’azione e ciò è ben dimostrato dalla scelta di costruire il canale “Bosforo II” che dieci anni fa fu da lui stesso definito un “folle progetto”. Parlare di un venire meno della necessità della personalizzazione erdoğaniana dell’agenda politica turca non significa affermare che il potere di Erdoğan sia diventato “morbido”. Il premier turco, infatti, applica una politica con il pugno di ferro sia internamente, sia a livello esterno. Se in questo ultimo caso c’è un accordo corale sui disegni espansionistici territoriali e marittimi che la Turchia deve realizzare, internamente le fratture rimangono e “il Sultano” deve essere sempre in grado di gestire ogni questione e prevedere le reazioni interne di dissenso (soprattutto di matrice kemalista).
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