OGGETTO: Panturchia
DATA: 13 Aprile 2021
SEZIONE: inEvidenza
Il vero salto in avanti di Erdogan è l'Asia Centrale (e non il ritorno al neo Ottomanesimo).
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A proposito della Turchia e delle sue mire espansionistiche si parla e scrive molto. Sicuramente per un Paese post-storico come l’Italia è molto difficile capire una realtà come quella turca, i principali ostacoli per un’analisi oggettiva sono due: in primo luogo l’opinione pubblica italiana (ed europea) non è più disposta a sopportare i sacrifici necessari per essere una potenza e, in secondo luogo, si fatica a capire che economia e potenza sono due cose ben diverse. Il nocciolo del problema è l’idea imperiale che la Turchia ha di sé e le strategie che conseguentemente adotta per realizzare i suoi piani espansionistici. Laddove il governo di Ankara non può realizzare questo progetto attraverso la tipica strategia di fornitura di servizi essenziali sul territorio o l’inserimento in questo settore (si pensi rispettivamente alle infrastrutture costruite in Libia e alla scelta del governo albanese di affidare l’addestramento e l’ammodernamento delle proprie forze armate ad Ankara), questo insiste sulla comune appartenenza storico-culturale al mondo panturco. Soprattutto in territori dove militarmente o statualmente non ha mai esercitato la propria influenza: è il caso dell’Asia centrale.

Pista di slancio per questa apparentemente rocambolesca avventura geopolitica è l’Azerbaigian, forte del successo militare nel conflitto del Nagorno-Karabakh. Lo strumento geopolitico utilizzato è il Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni (CCTS). I dibattiti e i vertici volti all’istituzione di questa organizzazione sono iniziati nel 1992, la sua realizzazione è avvenuta solo nel 2009 con la firma dell’accordo di Naxçıvan da parte di Turchia, Azerbaigian, Kazakistan e Kirghizistan (su forte pressione kazaka). Questa organizzazione è il metro di tutto il lavoro umanistico-culturale intrapreso da Erdoğan: il fine è quello di creare, sulla base di una comunanza storico-culturale reale, il collante ideologico che giustifichi le mai sopite mire panturciche di Ankara; in altre parole, il fine è quello di giustificare l’influenza e il ruolo di guida della Turchia così come nei Balcani, così in Medio Oriente e in Asia Centrale.

I progetti di Erdoğan sono lontani dall’essere conclusi. Infatti, se da un lato la Turchia, a fronte della capitolazione armena, ha la possibilità di intensificare la cooperazione nel settore della logistica e della vendita di armi (soprattutto di droni autopilotati, come i droni Bayraktar TB2 venduti al governo ucraino nel 2019) grazie ad accordi corali e bilaterali con i Paesi del Consiglio, è anche vero che da un punto di vista strettamente militare ha un po’ le mani legate: un’eventuale intensificazione di esercitazioni e operazioni militari in Asia Centrale porterebbe ad peggioramento dei rapporti con la Russia, principale attore in quell’aria (in questo momento la Turchia non se lo può permettere). Ciò, infatti, complicherebbe la situazione dei fronti mediorientali che sono prioritari. Al momento le relazioni con la Russia sono relativamente buone: nemmeno la sconfitta dell’Armenia è riuscita a scalfirle. La Russia, tra l’altro, gode di ottime relazioni con l’Azerbaigian. In questo momento eventuali crisi diplomatiche non gioverebbero a nessuno. Un altro settore in cui la strategia turca ha riscosso notevoli successi è quello energetico. L’Azerbaigian può fungere da pista di slancio non solo per collaborazioni logistiche e vendita di armi, ma anche per nuovi progetti in ambito energetico. In questa area geografica la Turchia ha già portato a termini progetti di notevole importanza strategica: si pensi agli oleodotti Baku-Tbilisi- Ceyhan e Baku-Tbilisi-Erzurum. Tornando al lavoro culturale dell’ “umanista” Erdoğan, il Consiglio della cooperazione dei paesi turcofoni offre un esempio lampante delle difficoltà a cui un disegno del genere, forte comunque di una comunanza storico-culturale innegabile, va incontro.

Se è vero che storicamente lo spazio turco si estende a nord-est fino alla regione del Xinjiang (cioè del Turkestan) e a nord-ovest fino alla Repubblica Federale russa dell’Altaj, l’Asia centrale è un contesto geopolitico molto diversificato e complesso. Infatti, non tutti i Paesi dell’area appartengono al Consiglio di cooperazione dei Paesi turcofoni; il grande assente è il Tagikistan. Quest’ultimo è l’emblema delle difficoltà ideologiche-culturali alle quali Erdoğan deve rispondere con un lavoro umanistico non da poco. Il problema consiste nel fatto che i tagiki, dal punto di vista etnico, sono persiani ma, culturalmente e religiosamente, turchi. Il Tagikistan sbatte sul tavolo del progetto geopolitico panturco di Ankara la necessità di riconoscere all’influenza persiana un ruolo propositivo nell’espansione della civiltà turca in quell’aria: in altre parole, Dušanbe è l’esempio storico-culturale della stretta correlazione plurisecolare fra civiltà turca e persiana; parlare oggi di cultura turca significa includere a chiare lettere, nella fattispecie dell’Asia centrale, il ruolo fondamentale ricoperto dall’impero persiano. La vicinanza storica con la Russia da questo punto di vista non sembra creare grossi problemi: il caso del Tagikistan verte esclusivamente su questioni “intra-turciche”. Dal punto di vista culturale l’influenza storica della Russia è visibile soprattutto nel caso dell’ortografia di tutti questi paesi. Alfabeto latino, cirillico e arabo-persiano adattato alla fonetica turcica delle lingue locali in alcuni paesi convivono abbastanza pacificamente (si pensi al Kirghizistan), mentre in altri si alternano senza sosta (si pensi alla scelta del governo kazako di rendere obbligatoria l’ortografia latina a scapito di quella cirillica entro il 2025). A complicare si aggiunge il fatto che anche il Turkmenistan non fa parte del Consiglio di cooperazione dei paesi turcofoni. A differenza del Tagikistan però ciò è spiegabile con ragioni strettamente politiche: il Turkmenistan mira ad essere un attore politico indipendente in quella regione. Per il momento il governo turkmeno non è intenzionato a aderire a progetti politici condivisi da più Paesi. Anche se di primo acchito la fede islamica sembra essere un’ottima soluzione al problema identitario, le cose in realtà non stanno esattamente così. Bisogna sempre tenere presente che l’Arzerbaigian, a differenza degli altri paesi membri, è fortemente sciita. L’attuazione della “Medeniyetsel Jeopolitik” (geopolitica civilizzatrice) turca dipende dalla risoluzione di questo problema ideologico-identitario. Se da un punto di vista geopolitico la Turchia ha ottenuto notevoli risultati su più fronti, il processo di costruzione di un’identità che congiunga Tirana e Samarcanda è ancora lontano dall’essere concluso.


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