“Le logiche di carriera contano al Fmi e non ci si afferma nelle gerarchie discostandosi dal dettato ufficiale”, racconta Lara Merling, ricercatrice del Global Developement Policy Center a Le Monde Diplomatique. È un concentrato delle migliori scuole, università e think tank del mondo quello che muove gli ingranaggi e percorre i corridoi di un enorme edificio dall’architettura vagamente brutalista situato a Washington, un edificio che, negli intenti maturati nel corso della Guerra Fredda, avrebbe dovuto fungere da faro dell’ortodossia neoliberista. Un tempio del Washington Consensus che ha assistito, già con il nuovo millennio, all’inizio di una crisi di credibilità internazionale e al progressivo screditamento, soprattutto nella dialettica politica e nelle opinioni pubbliche dei paesi in via di sviluppo, del paradigma economico di marca liberal-capitalista.
Emblematica del rapporto di dipendenza che permane tra Nord e Sud del mondo, ovvero tra centro e periferia globali, è la lingua parlata correntemente negli uffici del Fondo monetario internazionale. Incardinata su espressioni idiomatiche e termini specialistici di derivazione anglosassone, è una lingua accessibile quasi soltanto agli addetti ai lavori, agli analisti e agli alti quadri delle istituzioni finanziarie internazionali: stakeholders, best practice ed externalities sono alcune delle formule utilizzate di consueto per presentare in maniera edulcorata processi e soluzioni ispirati ai concetti di privatizzazione, deregolamentazione e austerità. Nel suo One Economics, Many Recipes: Globalization, Institutions, and Economic Growth, Dani Rodrik fu probabilmente una delle voci più autorevoli a metter in guardia dalle storture della “ricetta neoliberista”. Ma, da allora, poco sembra essere cambiato.
«Un visitatore può aspettarsi di dover decifrare frasi come: “La MD a évoqué l’IV sur les CFM/MPM avec les CSO” (“La direttrice generale ha discusso con le organizzazioni non governative la nuova posizione dell’istituzione sui controlli di capitale e le misure macroprudenziali). Google Translate non gli sarà di alcuna utilità…»
Renaud Lambert, Fmi, les trois lettres les plus détestées du monde, Le Monde Diplomatique, febbraio 2022
Certo, non si può negare che il dibattito sulla teoria e la prassi economica sia progredito e proposte di miglioramento dei meccanismi di intervento del Fmi siano state avanzate nelle arene di confronto internazionali e sulle riviste scientifiche. Resta, però, il fatto che, nonostante sia oggi anche più sfumata la linea di demarcazione tra sistema integrato delle economie avanzate e Terzo Mondo, in particolar modo per la variabile BRICS, si è cristallizzata nell’immaginario collettivo dei popoli “del centro” da un lato e “delle periferie” dall’altro la consapevolezza del perdurare di relazioni economiche e finanziarie prive di parità formale. A tal proposito, nel 2007, il ricercatore americano James Raymond Vreeland iniziava così il proprio saggio The International Monetary Fund. Politics of Conditional Lending: «Il Fmi è ben noto al Terzo Mondo (…) ma è molto meno familiare ai cittadini del mondo sviluppato.»
Nei paesi in cui con maggiore pervasività è intervenuta l’istituzione finanziaria con sede a Washington, la percezione è che la misura sia colma e un cambio di paradigma sia più urgente che mai. Ne è un indice significativo uno dei bersagli delle campagne elettorali della candidata alla presidenza argentina Cristina Fernández de Kirchner: «Costruire un mondo in cui i vostri figli e i loro figli non sapranno cosa sia il Fmi». Dopo una fase di allentamento dell’attivismo a livello internazionale negli anni 2003-2007, l’organizzazione non soltanto è tornata sotto i riflettori dei media di tutto il mondo, ma ha assunto un ruolo di primo piano nel far fronte alle ripercussioni della crisi finanziaria globale del 2008-2009 e della successiva crisi del debito sovrano sulle fragili economie dell’Europa meridionale. Vigilare e assistere erano stati fino a quel momento e sarebbero rimasti i due imperativi dell’operato del Fmi.
Nel quadro della vigilanza periodica dell’istituzione finanziaria, l’art. IV degli accordi istitutivi prevede una collaborazione costante tra Fmi e governi nazionali, che consta di una missione del Fondo a cadenza annuale in tutti i paesi membri. «Nella maggior parte dei casi, le nostre missioni sono ricevute direttamente dal Ministro delle Finanze e dal Governatore della Banca Centrale», spiega a Le Monde Diplomatique l’economista Christoph Rosenberg, direttore aggiunto del dipartimento per la comunicazione al Fmi. Dal rapporto scritto emerso nel gennaio 2022 dal confronto tra Fondo monetario e autorità francesi si possono trarre, per esempio, alcune raccomandazioni sulla controversa réforme des retraites e sull’esigenza di un consolidamento fiscale e di una liberalizzazione del mercato dei servizi non commerciabili. Eppure, la vigilanza si svolge in maniera ben più invasiva in molti paesi africani, dove restano evidenti le tracce del vecchio colonialismo.
«“Nell’ambito delle mie missioni di assistenza in Africa, a volte ho dovuto impartire lezioni di inglese ad alti funzionari”, spiega un dipendente del Fmi. “A volte si arriva in certi paesi e si scopre che la contabilità nazionale si gestisce con Excel. Altri non hanno nemmeno il computer. Finiamo per scrivere per loro le relazioni annuali”, conclude con una smorfia di amarezza.»
Renaud Lambert, Fmi, les trois lettres les plus détestées du monde, Le Monde Diplomatique, febbraio 2022
Oltre a prestare assistenza tecnica, l’organizzazione può erogare prestiti in determinate circostanze e a certe condizionalità. A rivolgersi a tal fine al Fmi sono Paesi con grossi squilibri della bilancia dei pagamenti, con problemi di sostenibilità del debito o forte dipendenza dalle importazioni di beni di prima necessità (ed è questo il caso di stringente attualità dello Sri Lanka). Ma non è una richiesta che le classi dirigenti effettuano a cuor leggero, «poiché il Fmi concede prestiti solo sulla base di un programma di aggiustamento che affronti i problemi che hanno causato la situazione di crisi.» (Renaud Lambert, idem) Il Sole24Ore ha evidenziato, riportando le stime del Fmi, che il 60% delle economie a basso reddito sopporta un debito già oggi insostenibile o prossimo a diventarlo a breve termine. Nel novero dei paesi a basso reddito nell’una o nell’altra condizione si possono menzionare 22 Stati africani, secondo un’indagine realizzata dal Chatham House.
«Nel 2019, il Fondo monetario internazionale consacrava l’ascesa del Ghana, l’economia “a più rapida crescita del mondo”. Nel dicembre 2022, con tre anni di pandemia alle spalle, Accra si è ritrovata su un podio meno lusinghiero: terzo paese africano finito in default dall’inizio dell’emergenza Covid, accodandosi allo Zambia nel 2020 e al Mali nello stesso 2022.»
Alberto Magnani, La bomba del debito in Africa; uno stato su due a rischio default, Il Sole24Ore, gennaio 2023
Le famigerate condizionalità, condensate, a titolo esemplificativo, in un accordo di sole due pagine con il Perù nel 1954 e in un accordo di ben 63 pagine con la Grecia nel 2010, vengono descritte con una formula efficace da Michel Camdessus, ex direttore dell’istituzione finanziaria dal 1987 al 2000: «misure estremamente severe, senza grandi possibilità di anestesia; in breve, un intervento chirurgico di guerra.» Dopo essersi confrontata con le autorità nazionali, la delegazione del Fmi procede generalmente con la redazione di una lettera d’intenti con le autorità locali, che viene poi trasmessa all’istituzione con sede a Washington. Si tratta di una sorta di contratto stipulato secondo modalità condivise. Pur tuttavia, le dinamiche fin qui descritte non corrispondono sempre allo svolgimento dei negoziati. Commentando una foto in cui compaiono l’allora direttore del Fondo Camdessus e il presidente indonesiano Suharto, Joseph Stiglitz afferma: «Quest’ultimo [Suharto, ndr], impotente, è costretto a cedere la sovranità economica del suo paese al Fmi in cambio degli aiuti di cui ha bisogno.» Ciò che importa al Fondo è che non vi sia un accordo internazionale a tutti gli effetti, dato che, in tal caso, dovrebbe essere sottoposto all’esame del Parlamento.
Gli equilibri del Consiglio di amministrazione del Fmi hanno riflettuto a lungo gli assetti di potenza del secondo dopoguerra, per cui la riforma del 2010 che provvedeva ad aggiornare le percentuali dei diritti di voto a favore di Cina e India rappresentava un passo necessario. Secondo un direttore esecutivo del Fondo, la rinegoziazione dei diritti di voto nel Fmi faceva parte di un accordo globale proposto da Washington a Pechino: la promessa di costituire un G2, un forum per il coordinamento tra i due colossi economici mondiali; la promozione del renminbi (o yuan) al rango di riserva internazionale; la riduzione delle disuguaglianze nel Fmi. «Ma si trattava di far accettare alla Cina uno status di subalternità». Con la finestra di opportunità per i negoziati chiusa dalla postura muscolare dell’amministrazione Trump, hanno preso avvio importanti iniziative volte alla creazione di nuovi organismi monetari, come la Banca asiatica per gli investimenti infrastrutturali, ricalcando, in buona sostanza, struttura e funzioni del Fmi, ma abbandonando le condizionalità.
Sono temi, quelli di eventuali interventi di ristrutturazione del debito nei paesi a basso reddito e della riforma dei diritti di voto negli organi del Fmi, che tornano alla ribalta per via delle nubi che si addensano sulle economie più fragili del Sud globale. Il rallentamento della crescita a seguito dello scoppio della pandemia, l’impatto della guerra su inflazione e prezzi energetici e alimentari, la stretta monetaria della Federal Reserve e le conseguenze sui tassi di cambio che rendono più difficile finanziarsi sui mercati per i Paesi il cui debito è denominato per lo più in dollari: sono tutti fattori da considerare nelle valutazioni sulla tenuta del sistema finanziario internazionale ai possibili shock del prossimo futuro. Sotto osservazione vengono tenuti paesi già sottoposti a forti pressioni demografiche, sociali e ambientali, come Egitto, Nigeria e Kenya, senza dimenticare il caso clamoroso del Libano.
A quanto detto si aggiungono gli scricchiolii del dominio di “re dollaro” causati da mosse più o meno efficaci delle grandi potenze economiche in ascesa: basti pensare all’accordo sino-saudita per il pagamento delle consegne su nave di greggio in yuan o alla decisione indiana di pagare il greggio russo in rupie. Ma quel che è certo è che, se veramente si manifesterà una volontà diffusa di riforma dei meccanismi di governo del sistema finanziario e monetario internazionale, non si potrà fare se non con un tavolo negoziale che veda dialogare alla pari almeno tutti gli attuali Stati membri del Consiglio d’amministrazione del Fmi.
La partita è di chiaro interesse geopolitico, e non puramente economico-finanziario, perché la Cina ha in mano più della metà del debito pubblico contratto dai paesi a basso reddito e sa usare le giuste leve nelle organizzazioni internazionali, come dimostra la stretta collaborazione tra il governo di Pechino, la Banca Mondiale e il Fmi. Al punto che la “Cina sarebbe pronta a sedersi al tavolo del Fondo monetario internazionale, per discutere la ristrutturazione dei debiti sovrani accumulati dai paesi in via di sviluppo” (G. Zapponini, Tempo di ristrutturazioni. Pechino pronta a rinegoziare i debiti sovrani, Formiche.net, 15 febbraio 2023). La chiave di lettura, avvalorata dalle parole dell’ex dirigente del Fmi e del Tesoro americano, Mark Sobel, è debt relief. Ma il tempo corre e molte economie del Sud del mondo, dipendenti principalmente dall’esportazione di commodities, sono troppo esposte ai rischi di una recessione per poter attendere. Il vecchio Consensus muore e il nuovo stenta a nascere.