OGGETTO: Il Club degli offesi
DATA: 28 Aprile 2021
SEZIONE: Società
FORMATO: Letture
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Chi non ha vissuto nel 1997, non può neanche immaginare cosa sia l’ipocrisia. Più o meno così scriveva Philip Roth ne La Macchia Umana, riferendosi allo scandalo Lewinsky che travolse l’allora presidente americano Bill Clinton. Ma quell’identico parossismo calcolato dello spirito di persecuzione, e quell’estasi dell’ipocrisia, la più antica, sovversiva, sleale, passione americana, ha corso con la velocità del virtuale, e si è imposta (e trasformata) in un gioco che oggi va molto di moda: chi si offende di più? Non è un caso che la biografia di Roth sia stata repentinamente bloccata proprio in questo periodo dacché il suo autore, P.R. Blake Bailey, è stato accusato di molestie da parte di studentesse del college dove insegnava trent’anni fa.

D’altronde, su questi temi, esasperando la spina provocatoria, Bret Easton Ellis ha scritto un saggio che gli è valso molti nemici: Bianco. Marasma motivato da un sentimento che, insieme all’odio, nella crociata della censura dei sentimenti, verrebbe per l’appunto censurato: la rabbia. Questo l’incipit: “A un certo punto nel corso degli ultimissimi anni – e non saprei indicare con esattezza quando – un vago eppure quasi opprimente e irrazionale fastidio ha preso a straziarmi fino a una decina di volte al giorno”. La storia oggi non la scrivono i grandi che sbagliano in grande, come ha detto qualcuno, ma le vittime che non sbagliano mai. Lo status quo di “eterna vittima d’un sopruso” è divenuto il passpartout della credibilità intellettuale. Il j’accuse oggi cinguetta, e basta un hashtag per mozzare teste. Chi la pensa diversamente viene, nel migliore dei casi, delegittimato, nel peggiore, cancellato. La cancel culture se la prende con i morti e con i vivi, con coltellacci affilati pretende di rifare tutto dal principio imponendo, da principianti, la morale corrente. Talvolta travisa battute, interpreta male, chiude un occhio su sentenze giudiziarie, non si cura del contesto, ma passa oltre convinta di fare il Bene, piangendo.

Qualcuno avrà già storto il naso, ma per offendersi senza remore, o banalmente scandalizzarsi, il consiglio non richiesto è quello di leggere L’era della suscettibilità (Marsilio, 2021) di Guia Soncini. Un libro che parte dalla consapevolezza che l’America non è poi così lontana, che non è, come cantava Dalla, dall’altra parte della luna. I suoi usi e costumi sanno attraversare l’Oceano, e noi sappiamo inchinarci al loro aroma, al delirio del diktat. Siamo figli dell’America, ma anche del “dianaspencerismo”; il modello della principessa vittima e lamentosa. Siamo prodotti del “secolo fragile”, e qui la Soncini nota che questo inizia quando “il sinonimo di safe space diventa università”. Un numero sempre più vasto di professori evita di mettere in programma libri che potrebbero ledere la sensibilità di alcuni alunni, da Shakespeare a Orwell, senza soluzione di genio, ma gli esempi abbondano. Di conseguenza, alcune case editrici hanno cominciato ad assumere gruppi di lettura che spulcino fino all’ultima parola i testi da pubblicare per comprendere se potranno generare la collera di qualche minoranza. Insomma, la Santa Inquisizione e il suo indice dei libri proibiti.

Se non lo avete ancora comprato, compratelo. Se non lo avete ancora letto, leggetelo

C’è poi la guerra economica, raccontata da Guia Soncini, che si gioca ai piani alti del “politicamente corretto”. Le marche, americane e non, gareggiano per accaparrarsi la poetessa di turno, il personaggio in vista, per farli testimonial delle loro campagne, pulirsi le coscienze e predare fette di mercato fino a prima sconosciute. Dietro all’isteria dei “sempre offesi”, c’è, ancora una volta, il capitale. Tutti suscettibili e tutti sempre più confusi; emblematico l’esempio che riporta la Soncini: Edward Enninfun, gay e nero, sì, ma ricco direttore dell’edizione inglese di Vogue, a cui il fattorino della sorveglianza del palazzo londinese di Condé Nast, nel luglio del 2020, impone di usare l’ascensore di servizio.  Scoppia lo scandalo, si mobilita la solidarietà, s’infiamma l’indignazione, si urla alla “profilazione razziale”. Il fattorino viene licenziato, e qui la Soncini è precisissima: “nessuno nota che, se si guarda alle gerarchie con più realismo e meno ubriachezza di postmodernismo, Enninfun è uomo di potere e quell’altro è uno il cui stipendio sì e no basterà a fargli pagare un affitto londinese. Poiché l’inesistenza delle classi sociali è una delle più ridicole finzioni di questo tempo, sotto al post con cui Enninfun racconta questa gravissima discriminazione, su Instagram, ci sono commenti indignati di tutta la meglio del miliardaritudine del mondo della moda”.

Guia Soncini analizza il feticismo della fragilità, l’abuso spasmodico dell’“in quanto” (in quanto donna etc.), e soprattutto la morte del contesto. Il contesto è morto e noi, suscettibili, lo abbiamo ucciso, così assistiamo a situazioni paradossali: il video di uno scherzo tra amici che non ha offeso nessuno sul momento, viene in seguito considerato dal popolo dei social un attacco razzista, in grado di offendere chi quello scherzo lo guarda in un video, ignorandone il contesto. Ci si offende anche per conto di terzi. “La smania d’indignazione che prevale sull’approfondimento del contesto” si muove così: il “Club degli offesi” decide per conto di altri “l’evidenza con cui la vittima non può che essere tale” (“mortificata, e pure incapace di risposta pronta”), il “Club dei buoni” stigmatizza il carnefice, solidarizza con la vittima, talvolta aggiunge; “se fossi stato lì avrei cacciato i protagonisti dell’increscioso episodio”. Così tra la ricerca del traduttore “afroamericano danese” (sarà andata a buon fine?) o il bisogno di scuse che avvertono ogni giorno i suscettibili, Guia Soncini ci fa sorridere con l’elenco di tutta una serie di film o canzoni (tra l’altro, tra le più innocue), con il leitmotiv del “pensa farlo oggi”. Quel pensa farlo oggi, però, pesa come un macigno e nasconde un vuoto:

 “(Quando) lo scrittore, l’artista, il regista si censurerà per non offendere nessuno, per non incorrere nella pubblica lapidazione. Quante cose ci stiamo perdendo? Quanti romanzi, quante canzoni, quanti film vengono lasciati tra le idee incompiute perché l’autore poi non vuole passare le giornate a chiarire equivoci?”.

Per la psicosi collettiva della suscettibilità, anti-pensiero che recinta l’arte e non esclude la comicità, non sembra esserci alcuna soluzione. Non si può più dire nulla, ormai lo sappiamo e ce lo ripetiamo, e nulla diciamo. L’autocensura ci annienta, ammorba il dialogo, lo rende vacuo, ingrigisce il confronto. Consapevole di offendere ogni giorno qualcuno, Ricky Gervais, però, continua a fare battute su tutto e ci invita a non lamentarci, neanche della suscettibilità degli altri; “Smettetela di dire che non si può più scherzare su nulla. Puoi farlo. Puoi scherzare su quel cazzo che ti pare. Ad alcune persone non piacerà, ad altri sì”.

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