OGGETTO: Dune: Jodo-capolavoro
DATA: 10 Settembre 2021
SEZIONE: inEvidenza
Storia di un film mancato: dai 100mila dollari all’ora chiesti da Salvador Dalí ai Pink Floyd che divorano cotolette a go-go. Sia lode a Jodorowsky
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“Per me (…) avrebbe dovuto rappresentare la discesa in terra di un dio. Volevo realizzare qualcosa di sacro, libero, guidato da una prospettiva del tutto nuova. Aprire la mente delle persone!”.

Ai tempi, era il 1975, Alejandro Jodorowsky aveva tutto: due successi straordinari portati a casa – El Topo (un western psicomagico) e La montagna sacra (quest’ultimo ha influenzato non poco la Tragedia Endogonidia della Socìetas Raffaello Sanzio: esistono i dvd di quel viaggio immaginifico e straordinario, andateli a cercare per capire cosa significa fare teatro, oggi) –, la fama di cineasta intellettuale più ricercato del mondo e un pizzico (abbondante) di smisurato e sano egocentrismo. Così decise di osare l’inosabile: girare la pellicola più importante della storia del cinema, traendo spunto dai romanzi della saga di Dune di Frank Herbert.

L’aveva preparata a dovere, coinvolgendo nel progetto la crema della crema, autentici profeti del suo credo mentale e poetico, gagliardi guerrieri: i designer H.R. Giger, Moebius e Chris Foss, i Pink Floyd per le musiche e un cast di attori di primissimo ordine pescati nelle diverse arti, Mick Jagger, Salvador Dalí, Orson Welles e David Carradine. Il film (mai realizzato, più avanti proveremo a scoprire i perché) doveva essere un pastiche di fantascienza, fantasy, idee ed estetica (ed estetismo) della psichedelia degli anni Sessanta. Jodo ci lavorò assieme al suo staff e in due anni produsse più di 3.000 storyboard, numerosi dipinti, costumi incredibili e una sceneggiatura oltraggiosamente commovente e potente.

Salvador Dalí, ingolosito dai soldi e in pieno delirio istericocentrico (in vita si fece chiamare anche “Avida Dollars”, che in fondo non è che l’anagramma del suo nome e del suo cognome), accetta il ruolo dell’imperatore della Galassia ma per fare la parte chiede 100.000 dollari dell’epoca per ogni ora. Jodo non si lascia sorprendere a contrattacca con una propostona da inamidare i suoi baffi a forma di manubrio: 100.000 dollari al minuto, ma con una parte di 2 o 3 minuti. Orson Welles, notoriamente di buona forchetta e di largo giro vita, viene incensato per bene: “Se fai il film, oltre a pagarti come attore, assumerò lo chef del tuo ristorante preferito, così mangerai ogni giorno”.

Il regista cileno poi ritratta e tromba il Maestro del Surrealismo. Il fatto è stato raccontato dal “Corriere della Sera”: l’indietro front ha una matrice politica. Salvador si era allineato alle posizioni franchiste sulle esecuzioni capitali e Jodo lo liquida così: “Mi vergognerei di impiegare nel mio lavoro un uomo che nel suo esibizionismo masochista chiede l’ignobile morte di esseri umani”.

L’inizio della fine. Il mattoncino nascosto, quello più basso, quello che non conta. E invece il castello si sgretola. Le difficoltà produttive arenano la spinta iniziale dei produttori hollywoodiani, non tutti d’accordo a lasciare la regia del kolossal – la durata del film era compresa tra le 12 e le 20 ore, i costi preventivati oscillavano attorno ai 15 milioni di dollari – all’artista cileno. Gli Studios avevano le loro idee: “È bello, economicamente vantaggioso, ma non capiamo il regista”. Così Jodorowsky, anni dopo: “Il mio progetto fu sabotato da Hollywood. E il suo fallimento cambiò le nostre vite. Dan O’Bannon, che era lo sceneggiatore, fu ricoverato in un ospedale psichiatrico”.

Il film poi uscirà ugualmente, nel 1984, con David Lynch dietro alla cinepresa ma gli incassi furono miseri. Un flop, insomma. “All’inizio ne ho molto sofferto perché pensavo di essere io l’unico in grado di realizzarlo. Sono andato a vedere il film con molta sofferenza, pensavo che sarei morto, ma quando ho visto il film mi è tornata l’allegria perché il film è una merda”.

“I Pink Floyd acconsentirono volentieri ad incontrarci negli studi di Abbey Road (Londra, ndr), quelli dove i Beatles avevano registrato i loro successi. All’arrivo non vidi un gruppo di musicisti impegnati a realizzare un capolavoro, ma quattro ragazzotti che mangiavano cotolette. Jean-Paul Gibon e io fummo costretti ad aspettare che soddisfacessero la loro voracità, stando in piedi davanti a loro. Mi arrabbiai per la loro mancanza di rispetto, e me ne andai sbattendo la porta. Sorprendentemente, David Gilmour ci corse dietro scusandosi e ci fece assistere a una sessione di mixaggio. Decisero di partecipare al film producendo un doppio album che sarebbe stato intitolato ‘Dune’. Vennero a Parigi per discutere la parte economica, e dopo molte discussioni arrivammo a un accordo secondo il quale i Pink Floyd avrebbero realizzato quasi tutte le musiche del film”.

The dark side of the moon, come a dire, l’altra campana, l’altra faccia della medaglia. Così Nick Mason sulla rivista “Batteur”, nel 1984: “In realtà non abbiamo effettivamente lavorato sul film, ne abbiamo solo parlato. Abbiamo incontrato il regista, del quale amavamo molto le opere. Ma questo tipo di opportunità, per noi, non è mai arrivata al momento giusto. Il problema con le colonne sonore è che richiedono tempo almeno quanto un album normale. Alla fine, ti trovi con un album di più, senza che si tratti di brani veramente tuoi. Noi amiamo lavorare sui film, è un esercizio interessante, ma sovente necessita di più tempo del previsto e noi, in generale, non abbiamo tempo a sufficienza”.

Con Mick Jagger fu più facile. Per lui Jodo aveva pensato alla parte di Feyd-Rautha. “Eravamo a Parigi, in un salone – ha raccontato lo stesso regista –. Lo vidi camminare, si mise di fronte a me e gli dissi che lo volevo per il mio film. E lui disse una sola parola, ovvero sì”.

Jodorowsky’s Dune, il documentario diretto da Frank Privach, è stato nelle sale italiane per tre giorni. E non dura tra le 10 e le 20 ore, ovviamente: racchiude il sogno mai compiuto, le riflessioni dei protagonisti (con un Jodorowsky – siamo nel 2013 – in splendida forma) le testimonianze e il faldone degli storyboard disegnati dall’immenso Moebius.

“A quel tempo, se avessi dovuto tagliarmi le braccia per poter portare a termine quel progetto, lo avrei fatto. Ero perfino pronto a morire mentre lo realizzavo”.

Grazie al cielo non lo ha fatto: oggi ha 92 anni e sembra stia benone.

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