La domenica milanese è un deserto sconfinato e affollatissimo soprattutto quando fuori c’è il sole. Lo è addirittura quando la città è presidiata dalle celebri barricate artistiche, dette anche “installazioni”, che compongono il bizzarro mosaico economico-sociale della settimana del design. Proprio in una domenica del genere, assieme ad un amico disilluso quanto me, proviamo ad inoltrarci per gioco in quel labirinto di eventi, specchi e inaugurazioni, presentazioni di padiglioni tra i più ermetici e indecifrabili nella speranza di favorire a qualche aperitivo fingendoci esperti di cucine, arredamento, volumetria, porcellane e allucinazioni.
Alle vertigini che con ogni probabilità ci avrebbe procurato il centro direzionale con i suoi grattacieli ed il contiguo cimitero verticale, preferiamo la rassicurante ombra della Madonnina in una precoce calura di fine aprile e fluttuiamo verso la Brera di Bianciardi, dove via Adalantemi s’inverte e si fa risorgimentale, dove tutto quel che c’era di asburgico, al bar Giamaica oggi studia a Londra e fuma sigarette elettroniche. Eppure, nello scorrere veloce della sabbia storica domenicale, fatta di tedeschi, cinesi, inglesi e americani in fila sulle rive dei marciapiedi che affiancano la Pinacoteca, svetta ad un tratto una sagoma seduta in posa di aperitivo all’angolo del Bar Brera che, dalla sua posizione strategica, domina con un solo sguardo tutte le epoche. È una posa di altro tempo, in giacca e cravatta, le gambe accavallate, la schiena dritta e un po’ reclinata verso il tavolino, lo sguardo felino incorniciato dall’occhiale, il capello bianco e liscio pettinato all’indietro. È Vittorio Feltri, che con gesto misurato si sta portando al labbro un calice di prosecco ghiacciato, seduto a fianco di Melania Rizzoli, in mezzo alla gente del pomeriggio.
Direttore di ben undici giornali, personalità capace di tenere testa a Indro Montanelli una volta ereditata la direzione del Giornale per volere di Silvio Berlusconi, nonché padre di Libero. Insomma, una colonna portante del giornalismo italiano la cui presentazione è abbastanza inutile data la quantità di libri intervista già realizzati su di lui. Ne è un esempio brillante la grande raccolta di confessioni “il Vittorioso” a cura del suo vice in Via Negri Stefano Lorenzetto. Imperdonabile sarebbe stato lasciarsi sfuggire un’intervista a uno degli ultimi imperdonabili del giornalismo italiano, vero mattatore e maniacale compositore di irresistibili prime pagine che son state capaci di vendere centinaia di migliaia di copie negli anni passati, senza tenere conto, ovviamente, della sua presenza fissa e inconfondibile nei talk-show televisivi, capace anche di fronte alle telecamere di incendiare gli animi degli ascoltatori e degli ospiti mediante la totale indolenza e irriverenza delle sue dichiarazioni, che pure nell’etere macinano altrettante visualizzazioni.
Eseguo dunque senza remore la manovra a tenaglia dell’avance giornalistica con insperato successo e in pochi minuti la prima intervista è concordata per il venerdì seguente. Verrà pubblicata pochi giorni dopo su Truenews.it, a breve distanza dal venticinque aprile, quando Matteo Salvini, durante la pirotecnica presentazione del suo ultimo libro “Controvento” all’Istituto dei Ciechi di Milano, annuncia la candidatura alle elezioni europee del Generalissimo Roberto Vannacci in quota Lega. Tra i tanti ospiti dell’evento show, ad un certo punto fa la sua apparizione nuovamente Vittorio Feltri, che trova posto in prima fila accanto a Massimo Fini. Una re-union voluta dal Capitone in memoria dei bei tempi andati dell’Indipendente firmato dai due grandi giornalisti, un bergamasco e un milanese, forse l’uno il contrario dell’altro, in fin dei conti, ma accomunati dalla graffiante verve di “bastian contrari”. Quando ho domandato al Direttorissimo quale fosse stato il suo rapporto professionale con l’autore del “dizionario erotico”, incuriosito dal loro incontro durante la festa della “Liberazione” (che fosse un riferimento voluto al quotidiano Libero?), l’intervista ha avuto inizio.
“Massimo ed io eravamo insieme all’Indipendente e all’epoca architettammo una specie di campagna pro-Lega incentrata su Bossi. Molta gente è diventata leghista leggendo il nostro giornale. Non che io fossi proprio con quel partito, non me ne frega un cazzo, però avevo approfittato di quel momento per incrementare le vendite e infatti arrivammo a piazzare più di centomila copie, tutto qui.”
-Fini ci rimase un po’ male quando lei passò al Giornale
Ma sì, perché lui è uterino. Uno andrà dove cazzo gli conviene no? Oggi comunque siamo in buoni rapporti, ogni tanto ci sentiamo.
-In un’intervista di qualche anno fa Fini (Massimo, ndr) disse che lei non è più l’anarchico di destra libero e indipendente che era una volta, e che il berlusconismo l’ha travolta
Bah, figurati, io non sono mai stato neanche berlusconiano, solo che a Silvio ero affezionato perché mi ha fatto diventare ricco, e vorrei vedere. Ti pare? Io faccio il giornalista come lavoro, non sarò mica un prete!
-Massimo Fini è un prete secondo lei?
Beh, ha la mentalità del prete. Lui si affeziona a una cosa e la sposa. Io, invece, proprio nessuno. Sai, ne ho già sposata una che mi ha rotto i coglioni per cinquantasette anni.
-Accanto a Fini scriveva su Prima Comunicazione, sotto lo pseudonimo di Claudio Cavina. Per lei il foglio bianco è più un confessionale o una vetrina?
Né l’uno, né l’altra. È un mezzo per sopravvivere, un lavoro. Non è una vocazione o di quelle puttanate lì, a cui per altro non ho mai creduto. Poi va beh, cerco di farlo al meglio delle mie possibilità perché mi piace. È divertente e non mi annoia.
-Il suo primo diploma fu quello di vetrinista
Sì, e la vetrina è come la prima pagina, perché deve attirare i clienti, come la prima pagina deve attirare i lettori, se no la gente se ne sbatte i coglioni. Tutte cose normali e ovvie, ma le ovvietà sono sempre le ultime a passare. Poi ci sono le grandi notizie, ma quelle capitano, non è che puoi metterti a cercarle. Vedi il caso di Fini, Gianfranco, quello che adesso è stato condannato. Quello scandalo l’ho tirato fuori io perché avevo avuto una dritta. Mandai Chiocci, che oggi dirige il Tg1 e che era un bravo cronista, lì a Montecarlo. Ne venne fuori un casino della Madonna. Sono stato anche processato come manovratore della “macchina del fango”, poi sono stato assolto, perché mi sono limitato a pubblicare la realtà dei fatti. Son passati più di dieci anni, forse dodici.
-Il vecchio detto latino “dicitque mihi mea pagina, fur es! – la mia pagina mi dice, sei un ladro!”. Lei invece, in questo senso, quanto ha rubato e da chi?
Più che rubato, perché non è facile, direi che il mio faro è stato Montanelli, perché aveva una capacità di coinvolgere il lettore che più nessuno ha avuto, neanche io. Da Biagi, invece, ho imparato a fare i contratti. Era il più bravo di tutti a guadagnare soldi. E poi, in fondo i soldi servono. Oggi è più difficile per un giornalista, perché i giornali non vendono più un cazzo. Le case editrici incassano poco e automaticamente pagano poco. C’è poco da fare, questa è la nostra storiaccia. Poi, un personaggio che mi è piaciuto molto è stato Giuseppe Berto, autore di Male Oscuro, un fuori classe, ma siccome non era di sinistra non ha avuto tutta la visibilità che ebbero gli altri, anche se era al livello di Svevo. Certamente, però, la mia prima lettura fu “Le Notti Bianche” di Dostoevskij. Allora mi si spalancò una finestra nel cervello. Le letture giovanili sono quelle che ti formano davvero. Poi da adulto uno legge, certo, ma non capisce più un cazzo.
-A proposito delle Notti Bianche e di Nasten’ka – che al protagonista, poverino, si dimentica addirittura di chiedergli come si chiama – in varie interviste lei ha detto di preferire l’amicizia delle donne a quella degli uomini, perché?
Ho scoperto, finita l’adolescenza, che le donne, nonostante abbiano l’indole delle bugiarde, hanno uno spirito più ricco, soprattutto da quando studiano, perché prima all’università non ci andavano. Mia sorella, ad esempio, fece solo le magistrali. Tanto poi si sposa… si facevano quei ragionamenti del cazzo lì. Da quando invece frequentano assiduamente l’università si è verificato un fenomeno strano, ovvero che oggi il maggior numero degli iscritti nelle università sia di sesso femminile. Ora abbiamo gli avvocati migliori che sono donne e i medici migliori pure, per non parlare dei magistrati. Il magistrato, però, è coglione per natura, anche se è donna. Poi c’è da dire che la loro compagnia è molto più nutriente. Hanno molti aneddoti da raccontare, hanno tanta fantasia e soprattutto non mi rompono i coglioni con il calcio. Se vai a cena con un uomo, dopo appena dieci minuti si lagna perché non guadagna bene (e chissene frega, cazzi tuoi!), poi si parla del calcio e infine ti racconta due barzellette. E che noia! Invece, con una donna ti arricchisci di più. Poi insomma, a me le donne piacciono molto, ma non mi ricordo perché! Diciamo che in gioventù ne ho scopate un esercito. Non mi ricordo neanche più i nomi (ride). Poi il calcio seguo, certo, però trovo sia molto meglio passare del tempo con una donna piuttosto che andare allo stadio. Concordi?
-Naturalmente! Però si dice anche che le donne siano meno pericolose nell’amicizia che nell’amore.
Sì, verissimo.
-Perché?
Perché l’amore è un genere di consumo, e si consuma in fretta. Sai, la convivenza, dopo un anno non ne puoi più. Questo vale anche per le donne. Anzi, sono forse proprio loro che si rompono le palle per prime, e allora iniziano a romperle a te. Niente di strano, però le donne sono più intelligenti secondo me. Hanno un vocabolario più ricco e hanno studiato meglio, perché quando studiano non sono come noi uomini che ci rompiamo subito i coglioni. No, loro devono impegnarsi a fondo per dimostrare anzitutto a sé stesse di valere, e poi agli altri. Hanno questa mania di voler essere complete, si sforzano molto e ci riescono. Anche nei giornali che ho diretto, che sono solo undici, ho sempre visto che le donne sono più svelte e scrivono anche meglio secondo me. Poi va beh, io sono sposato da cinquantasette anni e voglio bene a mia moglie, però quello che è l’amore inteso in senso classico, quello che ti fa palpitare, ovviamente, beh… non palpito più. Ci mancherebbe altro che a ottant’anni palpitassi ancora. È un genere deperibile, l’amore.
-Si dice che sia unico l’errore che ci inganna tutti, qual è?
Pensare all’amore come a una cosa definitiva. (si accende la sigaretta)
-Tornando ai ladri, che ne pensa di Piero Fassino che ruba i profumi al duty free?
Mi fa pena. Mi dispiace, perché lo conosco. È un signore che non ne ha assolutamente bisogno. Non dico che sia pieno di soldi, però diciamo che sta bene, via. Naturalmente lui passa come cleptomane, ma se fosse un poveraccio sarebbe un ladro. Chissà perché… i ricchi cleptomani, e i poveri ladri.
-Flaiano scriveva che “i rivali non vanno combattuti, ma soltanto offesi”, è vero?
I rivali vanno rispettati, perché sono scemi come lo siamo noi. Dunque, per solidarietà!
-Tra i grandi politici che lei riuscì ad offendere vi fu Bettino Craxi, “il Cinghialone”
Sì è vero, il Cinghialone. Non intendevo offenderlo, ma per la sua stazza il nomignolo calzava a pennello. Poi mi pentii della campagna che feci contro di lui durante l’epoca di mani pulite, perché solo dopo mi resi conto che in fin dei conti non era colpevole come avevo creduto.
-E invece Martinazzoli, la prese sul personale?
Ah, Martinazzoli! L’allora ministro della Giustizia che Berlusconi aveva pensato di mettere a capo di Forza Italia e che io gli sconsigliai. Si chiamava Mino Martinazzoli, ma io lo chiamavo “Lumino” Martinazzoli, “detto cipresso”. Lo pigliavo per il culo (ride). Era una bravissima persona, però lo sfottevo. Era un ottimo avvocato, ma come politico valeva una cicca. Fu tutto molto divertente, perché mi invitò infine a Roma per farsi fare un’intervista di riappacificazione, diciamo, anche se io non avevo mai avuto niente contro di lui. Lo avevo sfottuto così, per divertimento. Dunque, l’intervista si fece e il giorno dopo mi chiamò dicendomi “la ringrazio molto per l’intervista che però non è la mia, è la sua!”. Mi ero inventato tutto di sana pianta, perché lui non diceva un cazzo.
-Lei non crede in Dio, però nel suo libro intervista con Stefano Lorenzetto “il Vittorioso”, ammette che non si sarebbe mai permesso di offendere Sua Santità perché non avrebbe mai voluto fare la fine di Bossi. Nel febbraio del 2004 il leader leghista, dalle colonne del “Padania”, definì inquietante il romanesco scherzoso di Papa Giovanni Paolo II che durante un’udienza aveva detto “semo romani, volemose bene, damose da fa” e giusto un mese dopo si beccò un ictus. La sua è una certa forma di prudenza?
Ma no (ride), era una battuta! Uno scherzo!
-Borges diceva che questo mondo è talmente strano che tutto è possibile, anche la Trinità.
Ma sì, anche questa è una battuta. Comunque io non credo in Dio. Rispetto molto la fede di chi è credente, nessun disprezzo, ma per quanto mi riguarda, dove cazzo è Dio? Io non lo vedo. Poi non credo che quando uno muore se ne vada in Paradiso. Cazzo, il Paradiso, con tutti i morti che ci son stati nella storia dell’umanità cos’è? Dovrebbe essere una cosa enorme, centomila volte la terra, per ospitarl’ tùt. Poi che rottura di coglioni, che fai tutto il tempo là, in Paradiso? Nessuno è mai tornato a dirci com’è la situazione là sopra. Poi secondo me uno quando è morto è come quando non era ancora nato.
-Allora cambiamo argomento, lei è stato un fuoriclasse nel rimettere in carreggiata giornali che stavano andando male con le vendite…
… beh lì perché son stato assistito da un santo, che si chiama San Culo…
-… allora la sua è un’abitudine a tornare sul sacro e sul profano!
Eh certo, ma il culo era il mio! Ci vuole fortuna, ma chiamarla San Culo è più efficace!
–… senza dubbio, ma ad esempio con Il Borghese edito da Massano, lei lasciò detto che riuscì ad incrementare le copie vendute di trentamila unità grazie a Moana Pozzi…
È vero!
-… che grazie a Lei divenne una santa!
È vero (ride), era morta e noi pubblicammo una serie di articoli e di libri, andò bene. San Culo, anche lì, però quando si fa un giornale bisogna consolidare le vendite e trasformare il prodotto in qualcosa che la mattina la gente decide di comprare, perché in esso possa trovare delle conferme alle proprie idee, di solito sbagliate. Bisogna avere l’orecchio che punta verso il basso. Fare intellettualismi gratuiti non serve a niente.
-Che differenza c’è tra l’essere padre di un giornale e di un figlio?
Un giornale ad un certo punto lo puoi lasciare tranquillamente, io ne ho lasciati tanti, mentre il figlio ti rompe i coglioni tutta la vita. Io ho quattro figli e li ho allevati nel modo migliore possibile, sono andati tutti a posto, tutto bene, eccetera, però ora che sono vecchio e sono qui con mia moglie, col cazzo che vengono a trovarmi!
-Beh però suo figlio lo legge dall’Huffington Post o dalla Stampa!
Io non so neanche cos’è l’Huffington Post, so che è una roba dell’internet, ma io non sono tecnologico quindi riesco a malapena a fare delle telefonate. Lo leggo su La Stampa, quando ogni mattina scrive il buongiorno ed il fogliettone di prima pagina, quasi sempre volentieri, anche se lui è un po’ fighetto. Io invece pure un topolino ho avuto. Quando tornavo dal Corriere edito da Rizzoli, alle undici di sera “topolino” – così lo chiamavo – compariva, si metteva sulla poltrona e io gli davo il grana sminuzzato invece che scacciarlo, anche se poi è sparito, e mi è tanto dispiaciuto.
-A proposito di editori, piccolo inciso, mi conferma che Angelucci comprerà l’Agi o non è ancora certo al cento per cento?
È certo, ormai è cosa fatta, è questione di poche settimane.
-Tornando a noi, invece, la regola aurea del giornale coniata da Gaetano Afeltra, quella delle quattro esse: Sangue, Sesso, Soldi e uno Spruzzo di merda. Ad oggi quali testate la applicano meglio?
Non lo fanno più, sono talmente cretini i giornalisti che non sanno più fare i titoli. La Verità un po’ la applica, ma ha dei titoli troppo lunghi. Ci va la sintesi. Ci va quella battuta che accende la curiosità del lettore. Quando fai i titoli dei giornali non devi pensare a te stesso, ma devi metterti nei panni di chi legge e non è poi, in fondo, così difficile. Poi c’è Travaglio, che invece è bravissimo. Lui ha un tipo di giornalismo aggressivo, sempre negativo e la qualità della scrittura è molto buona, però le quattro esse non le applica tanto.
-Stevenson scriveva che il lettore è sempre più intelligente di noi.
Sì, è vero, perché intuisce. Lo capisce bene se sei un pirla!
-Si dice che i politici siano dei lettori anacronistici, che frequentino vecchie biblioteche e testi scritti almeno un secolo prima.
Ma magari, io avverto che sono molto ignoranti e buona parte di loro non sa proprio un cazzo. Fanno dei discorsi in televisione che mi lasciano a bocca aperta. Prima se la prendono con il fascismo che non c’è più, poi ora con quel Vannacci perché dice delle ovvietà da bar sport. Lui dice in televisione quello che dice la gente comune al bar, e se la prendono.
-Secondo lei la candidatura di Vannacci potrebbe spaccare la Lega di Salvini?
Non credo, ma per il semplice fatto che Vannacci non è un politico di professione. Il mestiere del politico va imparato, mentre lui è proprio da osteria, da bar sport, da cena tra amici.
-Però ritiene che vincerà, giusto?
Sì, secondo me Vannacci vincerà, perché non c’è nulla che piaccia di più alla gente delle banalità e delle ovvietà.