In Io e Annie c’era un tale, al cinema, che nella fila alla biglietteria vaneggiava di “strutture coesive”, di “livello viscerale” e di “uso dell’energia” in riferimento alla filmografia di Fellini, tirando poi in ballo Beckett e Mcluhan. La donna che lo affiancava pareva come rapita da quei concetti piuttosto articolati, mentre Woody Allen, che se ne stava di spalle davanti a loro, cominciava a sbuffare, a borbottare, a lamentarsi, dopodiché guardava in macchina e domandava allo spettatore:
Ma cosa fa uno quando si trova incastrato in una coda con un tipo del genere alle spalle?
Al gioco di rottura della quarta parete non si sottraeva neppure il cinefilo saccente. Offeso dall’intervento di Allen, questo ribatteva colpo su colpo, rivendicando la validità delle proprie osservazioni garantita da una cattedra in “Tv, media e cultura”:
– Non posso dire le mie opinioni? Questo è un paese libero.
– Certo, le può dire, ma deve dirle a voce alta? Insomma, non si vergogna di pontificare così? Marshall Mcluhan? Ma lei sa niente di Marshall Mcluhan?
– Senti, io tengo un corso all’università di Columbia, si chiama Tv, media e cultura. Credo che le mie valutazioni sul critico Mcluhan abbiano una certa validità.
– Ah davvero? È buffo, perché guarda caso il signor Mcluhan è proprio qui.
A quel punto Allen si spostava ai limiti dell’inquadratura e allungava il braccio per agevolare l’entrata in campo dell’oggetto stesso del contendere, che si rivolgeva all’esperto di Fellini costruendo uno sketch memorabile fondato sulla strategia della metalessi tanto cara al newyorkese:
– Ho sentito quello che ha detto. Lei non sa niente del mio lavoro: lei sostiene che ogni mia topica è utopica. Come sia arrivato a tenere un corso alla Columbia è una cosa che desta meraviglia.
Il rischio corso da Isabella Cesarini, autrice del saggio Edificio Fellini. Anime e corpi di Federico (Les Flâneurs Edizioni), era proprio quello di venire sconfessata in pubblica piazza dai tanti nomi roboanti citati nel suo testo, tutti in qualche maniera rappresentanti di una fonte o, per rimanere in tema, di un mattone dell’impalcatura cinematografica felliniana. C’era in altre parole la possibilità che il lettore, alla stregua di un Woody Allen esasperato, desiderasse far emergere dal testo anche solo uno tra Dickens, Kafka, Buzzati, Calvino o Edgar Allan Poe, in maniera tale da smentire in prima persona gli audaci accostamenti proposti dall’autrice. A tal proposito è bene mettere le mani avanti: il rischio in questione viene abilmente scongiurato da un lavoro rigoroso di ricerca inattaccabile, finalizzato più alla realizzazione di una mappa dell’edificio piuttosto che a un saggio di mera critica cinematografica.
Si correva a tal proposito un ulteriore pericolo, ossia quello di cadere nella trappola che caratterizza la sempre più corposa letteratura cinematografica odierna: trattare di cinema senza mai parlare di cinema. Proliferano in questo senso le letture psicanalitiche dei personaggi, i rimandi filosofici degli intrecci, i paragoni letterari e chissà quali altri arzigogolati accostamenti interdisciplinari, in assenza totale del minimo cenno alla specificità del linguaggio filmico, come se, della pellicola, l’elemento trascurabile fosse diventato l’immagine stessa. Ecco, la Cesarini si dimostra abile anche in questo, riuscendo a bilanciare un manifesto interesse per Jung, per la letteratura e per l’arte figurativa con riferimenti a movimenti di macchina e a composizioni interne delle inquadrature, capaci di far respirare al lettore, una volta tanto, anche l’aria della sala, quella del cinema nella sua essenza, scevra da sovrainterpretazioni che poco hanno a che spartire con le immagini.
Pare allora piuttosto efficace, in tema di immagini, quella offerta da Gennaro Malgieri in prefazione. Prima ancora di entrare nell’edificio simbolico ne viene infatti descritto l’esterno, circondato da “sacerdotesse a guardia del tempio”. È senz’altro una di queste la Gelsomina di La strada, unico film del riminese gradito al fastidioso professore alleniano di cui sopra (“è un buon grandissimo film”), oltre a costituire una tra le collaborazioni con Flaiano, cui Cesarini dedica un intero capitolo. Ma la pellicola del ’54 mette anche a disposizione del lettore un ulteriore edificio accostabile al mondo felliniano: la dimensione del circo sembra di fatto la più adatta a farsi palcoscenico per personaggi apparentemente distanti – per tempo, spazio e suggestioni donate al regista – ma uniti nelle fondamenta del suo cinema. Se Gustavo Rol, Kafka e Buzzati (definito talvolta, a buon ragione o meno, “il Kafka italiano”) sembrano poter convivere in uno spazio tutto sommato comune, può al contrario destare curiosità a una prima lettura l’idea in forza della quale Dickens e Casanova, per dirne due, si uniscano nel bagaglio formativo del regista. Eppure, nel procedere dell’indagine e della messa in rassegna della sua filmografia, emerge dalla proposta della Cesarini una coerenza interna di tutto riguardo, spesso gravitante attorno a una Roma dello spirito più che a quella autentica e tangibile.
Tra le stanze forse più significative dell’edificio Fellini – o tra i vari numeri del suo circo – trova spazio quella dedicata al già menzionato Gustavo Rol. Fellini intraprende un viaggio lungo la penisola alla stregua di una missione; il fine ultimo è quello di incontrare “personaggi vicini all’universo magico” del paese. L’itinerario è seguito dallo stesso Buzzati, che ne riporta la cronaca sul Corriere della sera per poi riunirne gli scritti nel testo I misteri d’Italia (1994). Il primo incontro è quello con la sensitiva Pasqualina Pezzola, figura poi tradotta in Giulietta degli spiriti con l’oracolo Nhishma. Altro incontro è quello con zio Nardu, “un signore sardo che sostiene di poter mutare le proprie sembianze in quelle di un cavallo”: Fellini ne rimarrà colpito a tal punto da mettere più volte in mostra la nobiltà dell’animale nel proprio Satyricon. Ma l’incontro più fascinoso è senz’altro quello già evocato con Rol, “il più portentoso”, come lo definisce Buzzati stesso, un uomo che “dispone di tali poteri che non si capisce come non sia famoso in tutto il mondo”. Il rapporto con il sensitivo nell’interpretazione proposta dalla Cesarini si risolve proprio in Giulietta degli spiriti, capace di riscattare la Gelsomina de La strada e la Cabiria delle Notti di Cabiria con una discesa dentro sé stessa tanto metaforica quanto reale. Più o meno secondo il medesimo canale metafisico, prima ancora che in 8½, è la narrazione de La dolce vita ad assumere le sembianze del sogno, “dove le corrispondenze di causa-effetto sono assenti”.
L’indagine sulle fonti dell’immaginario felliniano non poteva poi trascurare l’ala più ironica del palazzo, la parte più ridanciana nel suddetto circo. Già dalla collaborazione con il Marc’aurelio erano emersi di fatto gli intenti fotografici di uno sguardo attento ai tic dell’italiano medio, peraltro veicolato per mezzo di un canale in cui la nostalgia è l’elemento predominante. Le due manifestazioni più rappresentative del filone, I vitelloni e Amarcord, rimettono in primo piano due delle figure più influenti per Fellini, colonne portanti dell’edificio mappato dalla Cesarini. Il primo è tratto da un soggetto di Flaiano, originariamente ambientato a Pescara – sua città natale – e poi trasferito a Rimini. Il secondo, frutto di memorie autobiografiche incorniciate da Tonino Guerra, non è che un affresco tanto delle memorie del regista quanto di quelle idealizzate facenti parte del repertorio del poeta di Santarcangelo. È la stessa Cesarini a ribadire grazie al ricorso alle parole di Kezich come, fra i due, esistesse anche una sana rivalità campanilistica figlia delle loro radici paesane:
Se vuol far arrabbiare Tonino, Federico proclama che Santarcangelo è sempre stata la periferia di Rimini.
Sono già i titoli delle pellicole a rimandare ai due personaggi chiave per la loro realizzazione. Così come “vitelloni” derivava da una pratica comune di saluto tra giovani nullafacenti pescaresi (“Ciao budellone, come stai?”), Amarcord era riconducibile al romagnolo “a m’arcord” (“Io mi ricordo”), capace con una singola espressione di aprire il mondo dei versi di Guerra, tra botteghe, borghi, volti di paese e caricature umoristiche. Nel complesso, allora, l’operazione avanzata dall’autrice non limita il genio del regista: di fatto, come riportato in conclusione dalla stessa Cesarini, si tratta di una dimostrazione della totalità di una filmografia complessa, in cui la poesia si mescola alla letteratura, all’esoterismo e all’arte figurativa. Proprio sulla pittura si gioca l’analisi del Casanova, che secondo quanto riportato da Provenzano rappresenta “l’essenza ultima del cinema. Riuscire cioè a fare di una pellicola un quadro”. Il richiamo è principalmente quello all’espressionismo simbolista di Munch in Pubertà, laddove la messa a nudo dell’essere umano corrisponde a quella della disperazione del protagonista: il risultato, ancora per riprendere Provenzano, è “un film fatto di quadri fissi”. Ci sia concesso allora di avanzare un’ipotesi aggiuntiva rispetto alle fonti d’ispirazione felliniane elencate nel testo, giacché la cura citata per la messa in quadro del Casanova del 1976 ricorda fortemente quella per la costruzione dei tableaux vivants di Kubrick in Barry Lyndon (1975), che a questo punto attendiamo comparire da un momento all’altro a smentirci in stile Mcluhan in coda al cinema.