Si dice che gli spettacoli di marionette siano nati a Ping Ch’eng intorno al 105 A.C. quando, per evitare la presa della città, il generale Ch’en Ping fece costruire delle sagome in legno di figure femminili da disporre lungo le mura, di modo che, una volta animate in danze lascive, in lontananza, sarebbero sembrate di carne e ossa. La gelosia della moglie di Mao Tun, il generale che avrebbe dovuto lanciare l’assedio contro i nemici, fece il resto: conoscendo le tendenze libertine del marito ordinò il ritiro alle proprie truppe – circa un quarto del totale – spaventata dalla possibilità di perdere gradi di influenza dopo la conquista della città. Difficile risalire all’origine e alle quote di verità di quella che è poco più che una leggenda, ma il fatto che una delle pratiche performative più diffuse in oriente sia ricondotta a un conflitto dà una chiave interpretativa piuttosto significativa di certe mosse cinesi recenti, sia sul piano culturale che su quello economico. Se è vero, infatti, come dicono in estremo oriente, che un’immagine vale mille, allora è proprio quella della guerra tra potenze a illustrare gran parte della storia del loro intrattenimento, specie su grande schermo. In questo scenario, all’Occidente dotato di padronanza dei linguaggi e di controllo delle tecniche, la Cina contrappone oggi come ieri il proprio ruolo di consumatore privilegiato.
Distensione e Tensione
Si è recentemente assistito a un momento in cui Hollywood ha prodotto film pensando esclusivamente al mercato cinese, in quanto più grande, malleabile e in crescita rispetto a quello occidentale. Di fatto, circa dieci anni fa, le tensioni culturali e politiche che da sempre avevano segnato i rapporti tra le due potenze sembravano indirizzate verso una distensione in nome del tornaconto: l’America avrebbe messo le mani sul mercato più fertile del mondo, la Cina avrebbe finalmente risposto a una domanda interna che non era mai riuscita a soddisfare, potendo offrire al proprio pubblico nuove pellicole a intervalli sempre più frequenti.
A ripescare un precedente vecchio di quasi ottant’anni, però, non ci si sorprende della provvisorietà di una simile apertura: il trattato sino-americano del ’47 aveva infatti imposto dure clausole agli esercenti cinesi, costretti a mettersi sotto il controllo delle case di produzione americane in nome della diffusione del cinema a stelle strisce, in genere molto richiesto dal pubblico. Ma se in un primo momento la monopolizzazione americana aveva addirittura alimentato lo sviluppo della produzione locale – il cinema di Shangai degli anni Trenta e della seconda metà dei Quaranta, per fare uno degli esempi possibili, metteva in mostra il proprio debito nei confronti di quello hollywoodiano sia sul piano di alcune strategie di messa in scena che su quello del ritmo – presto l’imperialismo culturale statunitense cominciò a generare malumori:
«Propagandano il malcostume e la violenza […] insultano sugli schermi cinesi il popolo cinese».
Da Ombre elettriche. Saggi e ricerche sul cinema cinese
Ecco che simili dinamiche vengono oggi replicate nel momento in cui, da un lato, gli americani sembrano esprimere meno entusiasmo nei confronti dell’oriente e, dall’altra parte, la Cina si chiude come impaurita dalle potenziali conseguenze culturali di certe pellicole sulla propria popolazione. A una breve fase di distensione sono quindi seguiti segnali di nervosismo; così accade che nel recente Top Gun: Maverick ricompaia la toppa raffigurante la bandiera di Taiwan sul giubbotto di Tom Cruise, rimossa in fase di promozione del film a causa della presenza, tra i produttori, del colosso cinese Tencent, poi tiratosi indietro per timore di essere accostato a uno dei prodotti iconici dell’americanismo anni Ottanta.
Ammesso che fosse mai cominciata, allora, la luna di miele si è conclusa e non è facile prevedere le prossime mosse dei due schieramenti in battaglia. L’ipotesi più suggestiva? Quella di una Cina che, in tema di guerra e marionette, ha utilizzato le recenti coproduzioni con gli Stati Uniti per apprendere tecniche e linguaggi dai maestri per poi disfarsene appena possibile, così da rispondere alla domanda interna in maniera autonoma anche in vista di una crescente urbanizzazione e disponibilità economica del proprio pubblico. La distensione, in altre parole, non era che la fase preparatoria per l’ennesimo scontro.
Igiene del mondo e motore produttivo
La guerra culturale odierna tra il Dragone egli USA, come insegna la leggenda di Ping Ch’eng, non è certo l’unico conflitto che segna la storia dell’intrattenimento cinese. C’è un esempio che meglio degli altri fa emergere tale filo conduttore come possibile chiave di lettura di un’intera cinematografia: lo storico del cinema cinese Jay Leyda ricorda infatti come, già a partire dai primi del Novecento, americani ed europei fossero inviati in Cina dalle proprie compagnie per sfruttarne i paesaggi esotici e rivendere i filmati alle comunità cinesi di tutto il mondo, operazioni scaltre curiosamente non intraprese dai cinesi stessi. Seguendo la leggenda, uno dei motivi di questi mancati investimenti andava rintracciato proprio in un conflitto, in questo caso addirittura intestino:
«Una troupe sovietica composta da Vladimir Schneiderov e Georgi Blum si propose di raggiungere la Cina per girare un film sul proprio viaggio aereo ma quando arrivò, nel 1925, trovò una guerra in atto e così realizzò un film su più ampia scala, ‘La guerra civile in Cina’, il Sud contro il Nord».
Jay Leyla, Il cinema cinese fa il suo ingresso sulla scena mondiale, in Ombre elettriche
E fu ancora una guerra, quella di aggressione del Giappone sulla Cina, a spingere i mercanti cinesi d’oltreoceano a vendere i film locali sfruttando gli appelli umanitari a favore della propria causa; e di nuovo le lotte del ’48 e del ’49 a portare all’estero una quantità di film cinesi senza precedenti. Possibile allora che le guerre, nelle loro differenti articolazioni e sfaccettature, siano state il motore principale della loro produzione? In parte sì, ma è un’osservazione applicabile anche a certi periodi di alcune cinematografie europee. Piuttosto, la particolarità della Cina sembra risiedere nella capacità di assorbire o ideare strumenti e competenze proprio a partire da situazioni belliche, sia quando la riguardano direttamente che quando la chiamano in causa soltanto in modo marginale. Ecco che dalle origini dello scontro culturale tra USA e Unione Sovietica, ad esempio, Pechino riesce ad assimilare dai primi alcuni caratteri di messa in scena e di messaggio progressista (in particolare dai film di Charlie Chaplin) e dai secondi le teorie sul montaggio di Ejzenstejn, quest’ultimo sempre molto attento anche ai rapporti tra teatro sovietico e teatro cinese:
«Il reciproco arricchimento del nostro teatro sovietico e del teatro cinese è un fatto abbastanza conosciuto. Anzi: è ben noto il legame con l teatro orientale del nostro passato teatro, in un momento particolarmente brillante del suo sviluppo».
Sergej Ejzenstejn, All’incantatore del giardino dei peri
Alla luce di una simile tendenza al conflitto, non sorprende che anche la simpatia contraccambiata con il cinema e il teatro sovietico sia poi stata interrotta negli anni Cinquanta, quando il nuovo modello cinematografico russo aveva sostituito quello americano. Nel ’66 la definitiva rottura: «fu condannata anche l’influenza perniciosa del nuovo modello sovietico nella sua forma revisionista moderna», si legge in un saggio di Paul Clark sulle conseguenze della rivoluzione culturale nella produzione cinematografica locale. Nuove tensioni per nuove fasi della storia del loro cinema.
Imperialismi culturali: la guerra dei mondi
Come ricordato recentemente dal critico Gabriele Niola, fino a pochi anni fa «era possibile vedere sempre più loghi in caratteri cinesi comparire prima di molti film americani», segno di quel momento di apertura reciproca a carattere economico di cui si è detto, ma implicitamente anche di una rimodulazione altrettanto reciproca dei rispettivi modi di fare cinema: era, e forse è tutt’ora, in atto una guerra tra imperialismi culturali.
Se del modello classico hollywoodiano sappiamo tutto – dai raccordi di continuità al sistema dei generi, dallo studio system al divismo – meno limpido, almeno ai nostri occhi occidentali, appare quello tradizionale cinese. Lì, similmente a quanto accaduto in Francia e in Italia nei primi del Novecento, il cinema fu inserito nel novero delle arti letterarie, non tanto per un primato del testo sulla messa in scena quanto per una tendenza a prediligere le fonti letterarie piuttosto che le sceneggiature originali. Questo, come sottolineato dal critico Tony Rayans, unito alla frequente rimediazione di altre pratiche performative della tradizione, ha portato il cinema cinese a differire in maniera netta da quello americano che, specialmente a partire dagli anni Venti, coincide in gran parte con l’intero cinema occidentale.
Si tratta dunque di un modello che ha visto privilegiare l’azione dilatata su un arco temporale di mesi o anni piuttosto che di giorni o settimane; il frequente ricorso alla metafora in luogo delle azioni esplicite; le masse piuttosto che gli eroi individuali; l’accumulo di eventi al posto della loro concatenazione; e ancora gli intermezzi lirici piuttosto che le grandi narrazioni epiche. A questo aspetto letterario va inoltre aggiunto un carattere pittorico che ha influito non poco sulla grammatica del cinema cinese: la tradizione di stampe e carteggi illustrati ha infatti portato molti cineasti a ricorrere spesso al piano sequenza inteso come rimediazione di quella forma pittorica, quasi totalmente assente nel modello americano dello stesso periodo.
Considerando dunque quanto detto sul clima distensivo ora in parte sfumato, gli effetti dei due imperialismi emergono per mezzo di inquinamenti ricambiati: siamo alla cinesizzazione del cinema americano e all’americanizzazione del cinema cinese. A Hollywood hanno infatti cominciato a riempire alcune grosse produzioni di attori cinesi e di computer grafica; mentre in Cina, come ha notato lo stesso Niola, rivedono ritmi, trame e personaggi in modo da renderli appassionanti anche per il pubblico occidentale, tanto da invitare in patria alcune importanti maestranze americane con l’intento di imparare il linguaggio dei blockbuster. Ma c’è dell’altro, perché parallelamente a questo investimento, la Cina viaggia da anni anche sul binario della cinefilia, approfittando di gusti e tendenze festivaliere per accreditarsi nei circuiti del cinema d’autore (con i registi della cosiddetta quinta e sesta generazione, premiati in Europa negli anni Novanta e Duemila), dimostrando di saper variare modi e registri in base al proprio obiettivo, oltre che di poter competere in modo diretto, in un futuro prossimo e almeno potenzialmente, con il cinema americano.
È forse proprio questo timore a spingere la cinefilia occidentale a valorizzare modi di rappresentazione della Cina funzionali a minimizzarne il progresso, «emblematici di un bisogno illusorio da parte della cinefilia di riconoscere un premodernismo che indirettamente nega, alla Cina, il ruolo di economia avanzata», per dirla con le parole del professor Marco Dalla Gassa. Difficile allora dire chi, in questo nuovo conflitto, farà la parte del generale Ch’en Ping e chi al contrario quella di Mao Tun; di certo, per Pechino, il cinema è e sarà una questione di guerra.