In un’intervista al New York Times del febbraio del 1995, la deputata repubblicana Helen Chenoweth diceva di avere le prove: due elicotteri neri con agenti federali a bordo erano atterrati su dei campi di proprietà di alcuni allevatori dell’Idaho. Nessuna giustificazione istituzionale né comunicati ufficiali a chiarire il motivo di quelle presunte manovre, diventate quindi in poche ore un giocattolo per le menti locali più produttive in tema di cospirazionismo folk. Prove di che cosa, nello specifico? Di una serie di ipotesi piuttosto diffuse nella galassia della controinformazione separatista americana, all’epoca definite Black helicopters stories e diventate popolari a partire dagli anni ’70, in relazione a degli episodi di mutilazioni mai chiarite ai danni di alcuni capi di bestiame. Ma com’era accaduto che una teoria del complotto che mescolava UFO, Sacre Scritture e agenzie governative, peraltro nata due decenni prima, fosse finita nell’agenda comunicativa di una rappresentante delle istituzioni? C’entrava il potere sempre maggiore che le serie tv stavano acquistando nel fenomeno di diffusione della cultura della paranoia presso il grande pubblico.
L’effetto domino era infatti stato innescato dalla serie tv X-Files, che dal ’93 aveva recuperato la mitologia degli elicotteri neri per alimentare dubbi su certe attività governative, secondo uno stile narrativo non completamente nuovo ma senz’altro più capace che in passato di diffondersi nel dibattito pop. Riprendendo alcune osservazioni di Franco La Polla, emergono le cause della forza abrasiva che, sul modello di X-Files, molte altre serie avrebbero esercitato di lì a breve:
«È evidente che tutto questo nasce da esperienze decennali che gli Stati Uniti hanno vissuto e stanno vivendo almeno a partire dal primo omicidio Kennedy, passando poi per il secondo, per Watergate, per Irangate, e così via sino alla ripetizione della tragedia sotto forma di farsa nel più recente caso Lewinski».
Franco La Polla
Se i fatti citati da La Polla avevano determinato i toni paranoici di quella serie di successo, gettando benzina sul fuoco dell’immaginario controinformativo e portando una deputata ad assecondare tesi senza fondamento, è lecito sostenere, come fa Dominique Moïsi nel suo La geopolitica delle serie tv – Il trionfo della paura, che un evento destabilizzante come l’11 settembre abbia dato origine, nel mondo della serialità televisiva, a uno stile paranoide assai più marcato e in grado di cambiare radicalmente la percezione del mondo dello spettatore comune, spingendolo forse indirettamente fra le braccia del populismo. Moïsi sostiene infatti che da anni le scelte narrative di uno sceneggiatore possano produrre fenomeni che generano effetti concreti sulla vita dei cittadini, specialmente quando queste vanno a riesumare o a prevedere vecchie e nuove paure. «Insieme alle torri di Manhattan– dice – è crollato il nostro ottimismo, la nostra fede nel futuro. Le serie che trattano più o meno direttamente di geopolitica veicolano essenzialmente una cultura della paura»
Ma quali sono gli effetti sul pubblico di tanta tensione rilasciata in pillole/episodi? Moïsi si concentra sulle angosce che segnano le idee tematiche di molte serie dell’ultima Golden Age statunitense – quella dei Game of thrones e dei The walking dead – individuando in esse, più che una strategia geopolitica, alcune esternalità positive in termini di soft-power: da un lato, queste producono un sentimento vittimistico che rafforza la comunità (“dal momento che il mondo vuole distruggere l’America, l’America produce teorie complottiste per individuare la minaccia”, sembrano dirci certe serie); dall’altro, invece, continuano a esportare nel mondo l’immagine di una grande democrazia, che a differenza di Cina e Russia utilizza i prodotti dell’industria culturale per far emergere le criticità del sistema (“mentre le altre potenze nascondono le proprie contraddizioni ai cittadini, l’America espone le sue debolezze attraverso le serie tv”).
I frutti di questa tecnica bipolare sono evidenti in prodotti come Alias e 24, fondamentali nello sviluppo di tale cultura: nel primo caso, l’elemento sci-fi viene innestato in una storia di agenzie governative, spie e terrorismo, giocando con l’eterno frame dell’alternanza tra nemico interno (servizi deviati) e nemico esterno (terrorismo); mentre nel secondo il campo è quello della pura azione, con un agente dell’unità anti-terrorismo di Los Angeles impegnato a sventare una serie di attentati nell’arco delle ventiquattro ore di una giornata. Come segnala il critico Roy Menarini nel suo saggio 24 e il crollo di tutte le certezze, la serie tematizza tale vittimismo anche nei dialoghi, come quando «un personaggio pontifica sulla tracotanza culturale degli Stati Uniti, e viene rimbeccato da un agente governativo a stelle e strisce: ‘Voi americani…’, ‘Voi americani cosa?’».
Ma, a incarnare questo fondamento bipolare ancora meglio degli altri, è forse la serie Homeland che, non a caso, trova ampio spazio nel volume di Moïsi. Qui, con modalità a tratti didascaliche, la spia bipolare Carrie Mathison (in questo caso da intendersi clinicamente) incarna «il disordine psichico nel quale i fatti recenti hanno gettato l’America». Nello specifico, la protagonista deve rispondere a una minaccia interna ed esterna – ossia un soldato americano liberato dopo anni di prigionia in Medio Oriente e, forse, radicalizzato – che si ripercuote sulla sua stessa mente: per Moïsi, quindi, Homeland ci dice che «la minaccia possiamo anche produrla noi stessi, a causa di una malattia che prende il controllo del nostro cervello e del nostro corpo».
Ma che cosa accade quando la parabola dello stile paranoide, come quella di ogni genere di successo, sfocia prima nella sua caricatura e infine nella parodia? Il risultato è che quel bilanciamento tra vittimismo ed autoderisione viene meno, originando non più esternalità positive ma effetti totalmente imprevedibili. In questo senso, è ancora La geopolitica delle serie tv a offrire un interessante spunto a partire dall’analisi di House of cards. Didascalico già nel cognome, il protagonista Frank Underwood è il più abile in un contesto in cui «sono tutti, in un modo o nell’altro, corrotti, cinici, calcolatori, ossessionati dalla stessa cosa, il potere». La paranoia si trasforma quindi in caricatura, perché svuotata di ogni dubbio: non esiste la possibilità che un politico sia corrotto, perché in House of cards lo sarà per principio. Ciò che viene mostrato sembra dunque dover riparare costantemente nel ridicolo: ecco che il protagonista, pronto per la scalata verso la presidenza, spinge sotto al treno una giornalista scomoda, o che sua moglie, qualche stagione più avanti, scambi le Nazioni Unite per un palco shakespeariano.
In questo caso, l’idea è che una serie tv involontariamente caricaturale abbia prodotto sul mondo effetti altrettanto carnevaleschi, accompagnando con la propria trama populista il discorso trumpiano fino alla vittoria delle primarie: “tutti i politici sono corrotti, non vi fidate di loro”, è il messaggio onnipresente nelle dinamiche di House of cards, sostanzialmente sovrapponibile alle prime mosse comunicative del miliardario biondo, la cui scalata è curiosamente avvenuta di pari passo a quella del protagonista della serie, che ha lo zampino anche su uno dei suicidi comunicativi di Hillary Clinton. Pare infatti che Bill, commentando House of cards, avesse indirettamente validato le armi retoriche trumpiane contro quelle della moglie:
«Adoro House of cards. Il novantanove per cento di quel che succede nella serie è vero. L’un per cento sbagliato è che non potresti mai far passare una legge sull’istruzione così velocemente nella realtà!»
Ecco cadere anche l’ultima tessera di quell’effetto domino attivato dal successo di X-Files: se all’epoca la finzione era riuscita ad arrivare alle istituzioni, alla fine del percorso, con la trasformazione in caricatura dello stile paranoide, essa è stata in grado di influenzarne la composizione stessa; se prima era riuscita a dare voce a pochi complottisti dell’Idaho, alla chiusura del cerchio ha contribuito allo sviluppo delle mandrie qanoniste e pizzagateiste che hanno messo a ferro e fuoco Capitol Hill. Per quanto rimanga ardito sostenere un forte contributo apportato dalle serie tv sullo sviluppo di certi fenomeni, certo è che questo non sia stato minore di quello rintracciabile nel mondo memetico, spesso ritenuto responsabile più del dovuto: in questo senso, alla luce dei più recenti sviluppi geopolitici, l’impressione è che la tv sia già arrivata al secondo giro del loop tragedia/farsa, con Zelensky partito dalla seconda per arrivare alla prima, poi di nuovo trasformata in seconda da chi ne trasmette la serie in funzione della tragedia stessa. Sta forse qui l’inverno metaforico da cui Game of thrones ci aveva tanto messo in guardia?