L’audiovisivo ha sempre di-mostrato d’essere un efficacissimo strumento di propaganda. Un filmato, oggi, vale spesso più di mille parole. Hollywood è da sempre uno dei migliori strumenti persuasivi del soft power statunitense, utile tanto a fini interni – perfino i film “di denuncia” in quest’ottica diventano epifania del mondo libero – quanto nel proiettare alle masse nemiche l’american way of life, sbandierandone il superiore benessere. C’è chi, non a torto, si è spinto ad attribuire un decisivo impulso al crollo dei regimi dell’est Europa proprio alla diffusione delle reti private occidentali concomitante alla crisi dell’economia pianificata. Più recentemente, durante il surge iracheno, nel circolo del generale Petraeus circolava una barzelletta che recitava pressappoco così:
«Se al posto delle bombe facessimo cadere televisori sintonizzati su Mtv, gli islamisti smetterebbero di combattere».
Macroscopico errore di valutazione perché non soltanto tende a relativizzare le differenze culturali tra civiltà diverse, ma ignora che, oltre a proiettare la nostra miglior immagine, i film e le serie trasmettono anche le nostre paure, timori e debolezze. Come ben analizza Dominique Moïsi:
«La geopolitica […] invade il nostro immaginario in un movimento dialettico irresistibile e indubbiamente pericoloso. La realtà internazionale non diventa solo una fonte d’ispirazione per gli sceneggiatori […]. La serie stessa si trasforma in fonte d’ispirazione per gli attori […] e punto di riferimento, se non addirittura strumento d’interpretazione, per gli spettatori».
In effetti, negli ultimi mesi si può perfino drammaticamente constatare l’esatto contrario; che sia proprio la realtà a uscirne irrimediabilmente danneggiata, erosa, quando nei telegiornali e nei talk-show vengono mandati in onda filmati che si rivelano tratti da videogiochi, falsi digitalmente artefatti o estrapolati da contesti forvianti, spacciati come autentici… fino alla prossima smentita.
Oltreoceano, lucidamente, fin dal primissimo dopoguerra hanno subito identificato il “nuovo” nemico con il russo-sovietico ma, non essendosi mai confrontati direttamente sul campo di battaglia, le occasioni per metterlo in scena si riducevano ai film di spionaggio dove, però, fungeva più da burattinaio comunista che da agente-protagonista. Molto più efficace decontestualizzarlo per affrontarlo in campi alternativi come per esempio lo sport: eppure, dallo spietato Ivan Drago (Rocky IV, 1985) all’imbarazzante Danko (1988), sembra passato un secolo.
Più l’implosione dell’Urss pareva prossima, maggiormente il nemico viene sbeffeggiato e ridotto a un’anacronistica macchietta. Se durante l’equilibrio del terrore atomico l’avversario manteneva una propria dignità, il rovinoso crollo del socialismo reale lo declassa irrimediabilmente a “vinto della Storia”. Gli anni ’90, in effetti, vedono un proliferare di ex-ufficiali del Kgb riciclarsi in mafiosi, ladri di testate nucleari, criminali internazionali, falsari e, perfino, buttafuori. Il marxista s’è trasformato in un capitalista assetato di denaro e potere. La Russia stessa non è più il nemico ma, semmai, uno Stato bisognoso d’aiuto – Allarme Rosso (1995), The Peacemaker (1997) – addirittura incapace di gestire la sicurezza dei suoi immensi arsenali.
L’11 Settembre però spariglia le carte in tavola; il nemico cambia improvvisamente pelle e razza: è il fondamentalista islamico, il terrorista arabo, il jihadista convertito. I film d’altronde seguono l’andamento dei conflitti: Bosnia (Behind Enemy Lines,2001 e successivi), Somalia (Black Hawk Down, 2001), Cecenia (Al vertice della tensione, 2002), Iraq (HurtLocker, 2008; American Sniper, 2014), Libia (13 Hours: the secret soldiers of Benghazi, 2016), Siria (Syriana, 2005) e, ovviamente, Afghanistan (Zero Dark Thirty, 2012; War Machine, 2017; 12 Soldiers, 2018). La stessa natura della minaccia muta forma diventando ibrida, appoggiandosi a realtà extra-statali come al-Qaida o, più recentemente, al Califfato. L’intelligence deve affrontare trafficanti d’armi, narcos collusi, finanzieri corrotti, sanguinari dittatori e Stati “canaglia”.
All’incrinarsi dei rapporti con il Cremlino però la Russia torna prepotentemente il pericolo numero uno per l’egemonia americana e la pace del mondo. Insieme all’industria dei videogiochi (Call of Duty), il Cinema annusa subito la rinnovata aria da Guerra Fredda; così già in Tenet (2020) il pericolo arriva niente poco di meno che dal futuro, un futuro dove il nemico ha stretto un accordo con un oligarca gravemente malato che ha sviluppato una tecnologia che permette di colpire e bombardare il presente. Andrej Sator – nome che si rifà alla misteriosa iscrizione latina – è in possesso di un algoritmo capace di far detonare simultaneamente nove testate nucleari. Riemerge così, tutto d’un tratto, la minaccia atomica totale che si pensava archiviata con il crollo del muro.
L’avvento dell’internet-tv, però, ci consente di guardare anche al panorama europeo con produzioni che ormai hanno poco da invidiare ai potenti mezzi hollywoodiani. Se le serie sono il barometro del clima che si respira nel Vecchio Continente (pre-invasione ucraina), allora la lancetta segnava già insistentemente burrasca.
Vigil – miniserie inglese del 2021 – espone brutalmente il ritorno alla logica della deterrenza. L’HMS della classe Vanguard – nomen omen – è, infatti, a rotazione sempre in mare a garantire la sicurezza della Gran Bretagna. Il concetto operativo viene ben descritto dall’ammiraglio: l’equilibrio nucleare si fonda su una forza atomica sempre attiva, non rintracciabile e dal sufficiente numero di megatoni per assicurare una mutua distruzione. L’ambientazione e la trama richiamano Caccia all’Ottobre Rosso (1990) ma, se in quel film gli ufficiali sovietici sembravano dei perfetti incompetenti, ora il nemico è molto più determinato, pericoloso e sfuggente. Sviluppata come una classica storia spionistico-poliziesca la serie, nonostante i cliché “inclusivi” – protagonista lesbica traumatizzata, comandante nero, traditore spietato senza motivazioni apparenti – rende piuttosto bene il clima russofobico d’Oltremanica. Il comandante del resto è in “esercitazione permanente” e i pacifisti, che si oppongono alle atomiche in Scozia, sono infiltrati dal MI5, oltre ad essere supportati da un ambiguo politico locale e “attenzionati”, ovviamente, dai russi. Quello che emerge non è un bel quadro delle forze armate inglesi: nepotismo, incuria, rivalità interne, intrusioni nemiche, mezzi obsoleti; ma gli alleati americani arrivano al momento giusto a togliere le castagne dal fuoco.
Ben più pessimistiche, invece, sono le produzioni nordeuropee Granchio Nero (Svezia, 2022); The Rain (Danimarca, 2018-20) e Occupied (Norvegia, 2015, tuttora in corso). Un evidentissimo fil rouge le lega: le donne assolute protagoniste, una pessima immagine della UE e l’inevitabilità d’una devastante invasione straniera. L’Europa, insomma, non ha alcuna speranza di un pacifico futuro.
Granchio Nero sembra la riproposizione della Guerra d’Inverno del 1939-40, con la differenza che, essendo il film svedese, il nemico arriva necessariamente da nord e non dall’est. La democrazia è stata militarizzata – la presidentessa in divisa sembra la brutta copia femminile di Zelensky – il governo autoritario mente ai cittadini mentre obbliga perfino le donne ad arruolarsi. Il Paese, governato con la legge marziale, sembra nient’altro che un immenso campo profughi mentre il nemico pare invisibile. I suoi elicotteri e le sue truppe non hanno insegne – “omini bianchi” che richiamano direttamente a quelli “verdi” della Crimea – e non si capiscono le sue mosse né i suoi fini. Nessuno, sinistramente, parla di far terminare la guerra ma solamente di vincerla. L’unico modo pare sia una missione suicida pattinando sul mare ghiacciato per consegnare un virus letale; sostanzialmente la guerra batteriologica per evitare quella nucleare. Una tesi che lascia perplessi perfino i protagonisti.
Anche in The Rain una tossina mortale viene rilasciata (per errore?) nella pioggia, uccidendo all’istante coloro che ne vengono bagnati; ma, invece, della solidarietà europea la Danimarca viene prontamente rinchiusa dietro un invalicabile cordone sanitario. I protagonisti, dopo cinque anni passati dentro un bunker – sorta di lunghissima quarantena – riemergono ritrovandosi in un Paese governato da bande di mercenari dell’est a cui è stato appaltato il “lavoro sporco”. Idea interessante ma sviluppata malissimo e non approfondita.
Il prodotto più riuscito è indubbiamente Occupied, serie scritta da Jo Nesbø. Il nucleo fondamentale attorno cui si dipana la trama è fanta-realistico: in seguito a cataclismi dovuti al riscaldamento globale, il governo verde-progressista norvegese decide arbitrariamente di cessare la produzione di idrocarburi, passando a una fonte alternativa. L’immediata conseguenza è un’invasione russa “tollerata” da una UE che la usa come braccio armato d’una Confindustria neoliberista. Ipotesi oggi assolutamente inverosimile, ma scritta subito dopo il fallimento di COP 21 e indicativa della sfiducia e del discredito raggiunto dalle istituzioni comunitarie. Ad aggravare il quadro, inoltre, si aggiunge il fatto che per la Norvegia, nonostante sia membro Nato, non venga esercitato l’articolo 5 del trattato. Come se non bastasse, difronte alle rimostranze del Primo Ministro, l’ambasciatore americano risponde: «quando il tuo vicino è la Russia non puoi fare tutto ciò che vuoi».
Impensabile oggi, eppure, il PM Jasper Berg è la plastica rappresentazione del politico occidentale che, in buona fede, avvalla acriticamente tutto ciò che non andrebbe fatto. I suoi continui tentennamenti, la sua incapacità di prendere decisioni impopolari e mantenerle, lo rendono molto “popolare” ma, contemporaneamente, inadatto alla situazione. Il suo governo ha gioco facile a nascondere il proprio fallimentare operato dietro all’inviolabile trincea della “responsabilità”. Le donne, invece – come il ministro della giustizia, ma anche la stessa ambasciatrice russa – sembrano avere più “attributi”, come fossero fisiologicamente preparate a sopportare il dolore quotidiano necessario per raggiungere un obiettivo a lungo termine. La resistenza contro gli “omini neri” diventa anche un’esorcizzazione del trauma norvegese dell’occupazione nazista durante il secondo conflitto mondiale in un Paese scisso tra Quisling e gli “eroi del Telemark”. Solo che stavolta il nemico è russo, come in tutte le precedenti storie. Questo, infatti, era già il volto del nemico e tutto lascia presuppore che la sua rappresentazione non potrà che peggiorare prima di, gradualmente, sfumare, acquisendo quei tratti orientali già prontamente sbattuti in prima pagina dopo la tragica vicenda di Bucha.