La creazione della destabilizzazione è un processo complesso e sfaccettato, che si compone di diverse fasi, di una vasta gamma di strumenti e si estende su un orizzonte spazio-temporale mutevole. Adattabilità, flessibilità e fluidità sono le tre peculiarità che non devono mancare a una strategia di destabilizzazione. Il preconfezionamento è l’errore che non deve essere commesso. Si suol dire che il mondo è paese, e in parte è così, ma le similitudini tra gli Stati non supereranno mai le differenze. Neanche nell’uniforme Occidente sono state annullate completamente le caratteristiche che forgiano l’anima delle nazioni. Questo per dire che, se si vuol condurre un Paese sull’orlo del baratro, che non equivale necessariamente a un golpe, va studiato nel dettaglio il terreno di scontro.
L’identità di un Paese è formata da un connubio di elementi culturali, economici, religiosi, sociali e storici che lo rendono unico e che possono essergli ritorti contro. La mazza di Ercole che diventa tallone d’Achille. Ma affinché ciò accada è necessario modellare la propria strategia secondo i criteri dell’adattabilità, della flessibilità e della fluidità. Poiché le relazioni internazionali non sono altro che la gigantografia delle relazioni umane, per gli Stati, proprio come per gli uomini, denaro, psicologia e sentimenti sono tutto. Guerre economiche. Guerre informative (infowar). Operazioni psicologiche (psyop). Operazioni sotto falsa bandiera (false flag) e allarmismo (fearmongering).
Le guerre economiche per colpire il portafogli dello Stato rivale, privato di beni, ingressi e risorse essenziali attraverso embarghi informali – il bloqueo invisible dell’Occidente contro il Cile allendiano –, blocchi alimentari – l’induzione in carestia del Biafra da parte della Nigeria – e riduzioni controllate dell’export di beni strategici – l’accerchiamento energetico dell’Unione Europea (UE) da parte della Russia durante la guerra in Ucraina –, e indebolito da concomitanti attacchi speculativi e regimi sanzionatori, ma non solo. La rabbia per il carovita e la paura della carestia che spingono i segmenti più vulnerabili della società a scendere in piazza, acqua nel mulino dell’Erebo che osserva, cavalca e crea gli eventi.
Guerre informative e operazioni psicologiche per dividere una società laddove sia unita, per radicalizzarla laddove sia già polarizzata e per fratturarla laddove sia già sul punto di rottura. Per trasformare una massa in sciame pronto a pungere, mandando il rivale in anafilassi. E per creare panico nei mercati, i padri padroni delle economie globalizzate, mettendo in fuga gli investitori stranieri e paralizzando l’apparato produttivo domestico. E anche per delegittimare le istituzioni agli occhi dei loro custodi – le forze armate – e dei loro sottoposti – la società civile –, nella speranza-aspettativa che l’agognato cambio di regime venga dall’alto, dalle interiora o dal basso.
Le operazioni sotto falsa bandiera, dagli attentati agli omicidi di figure chiave, per esasperare gli animi, trovare consensi nella comunità internazionale e dare il colpo di grazia alla vittima, abbattuta dai suoi stessi connazionali o invasa, a seconda del tipo e delle ragioni della false flag, da un esercito che non attendeva altro che un pretesto. Perché le guerre ibride, si preannunciava nell’introduzione, possono servire anche per affaticare e snervare un obiettivo prima di aggredirlo frontalmente.
Se le condizioni per una rivoluzione artificiale non ci sono, si creano. E se ci sono già, si strumentalizzano – con ogni mezzo possibile. Le guerre ibride sono tanto segrete quanto sporche, perciò è lecito aspettarsi che lo stratega di turno stringa ogni tipo di alleanza empia nell’ottica della destabilizzazione. E qui entrano in gioco le quinte colonne, l’espressione più elevata del sempreverde amicus meus, inimicus inimici mei. Se uno Stato presenta una società vibrante e alla ricerca di cam- biamento radicale, è certo che Erebo utilizzerà suo figlio Oneiros per stuzzicarne le fantasie, alleandosi con comitati studenteschi, minoranze (etniche, religiose, sessuali e via dicendo) ambiziose, organizzazioni non governative, sindacati et similia. Se uno Stato regge su un equilibrio fragile e precario, costellato di conti in sospeso e memorie di persecuzione e fratricidi, è sicuro che Erebo manderà avanti Nemesi per farlo crollare, trovando dei complici in minoranze (come sopra) represse dal governo in carica, in grandi organizzazioni criminali assillate dalla giustizia e così via. Perché dove c’è rancore, c’è voglia di rivalsa. E non c’è miglior quinta colonna di una che sia genuinamente motivata a sovvertire lo status quo – parere condiviso, tra l’altro, da Gene Sharp, teorico delle rivoluzioni colorate.
Se una società è pluralistica, ossia multiculturale, multietnica e multireligiosa, è prevedibile che Erebo incaricherà Eris di seminare discordia tra i vari gruppi che la compongono. Non è importante il grado di integrazione e di secolarizzazione di una minoranza all’interno della sua casa adottiva: il richiamo delle origini è e sarà sempre più forte. Ed è trascurabile persino l’apparentemente solido record di convivenza pacifica tra i gruppi, perché le indagini di Arthur M. Schlesinger Jr e Robert Putnam sul funzionamento delle società multiculturali hanno provato che il sentimento in loro prevalente non è la fiducia, ma la diffidenza.
La storia ha dato e dà ampiamente ragione a Schlesinger e Putnam per due motivi. Il primo è che le grandi potenze hanno sempre guardato con sospetto alle minoranze prese in adozione, dagli Stati Uniti impauriti della doppia lealtà degli italoamericani – prima perché papisti e dopo perché fascisti – all’Unione Sovietica intimorita dai tatari – quinte colonne, a fasi alterne, di ottomani e tedeschi. Il secondo è che i libri di scienze strategiche pullulano di casi di minoranze strumentalizzate allo scopo di provocare delle apocalittiche guerre razziali o dei gravi moti interetnici a uso e consumo dello stratega dal pollice ibrido. L’operazione Pandora elaborata dall’Unione Sovietica per aizzare bianchi contro afroamericani negli Stati Uniti degli anni Settanta. Il controllo esercitato dalla Turchia sulle proprie diaspore, dalla Francia alla Germania, infiltrate da spie, agenti provocatori ed elementi radicali utilizzati al momento opportuno per compiere omicidi, raccogliere intelligence, pedinare esuli, mettere pressione sugli Stati e mantenerli vicini e/o fedeli alla propria terra ancestrale grazie a una vasta rete di associazioni, moschee e organizzazioni non governative.
Il massimo trionfo non è vincere cento battaglie su cento, ma bensì sottomettere il nemico senza combattere.
– Sun Tzu
La quinta colonna prosegue il coloramento del quadro iniziato da guerre economiche, operazioni psicologiche e operazioni sotto falsa bandiera. Entra in gioco quando Erebo ha bisogno di accelerare il collasso dello Stato rivale. E lo si accelera dando mandato a Thanatos e Ker di alzare l’asticella della tensione: guerriglia, terrorismo, violenza poli- tica organizzata, nella speranza dell’intervento provvidenziale – chiaramente a danno della vittima – delle forze armate, ossia di un colpo di Stato militare. Ma, di nuovo, è bene ribadire che non è detto che lo stratega aneli a un golpe né che stia spianando la strada a un’invasione, perché, non di rado, il fine di una campagna ibrida è la creazione di caos controllato, di anarchia produttiva in grado di paralizzare il nemico a tempo indefinito, costringendolo ad autoespellersi dal palcoscenico internazionale a causa dei problemi interni. Inoltre, modalità e finalità di una guerra ibrida cambiano anche a seconda del contesto, cioè se il bersaglio appartiene al Nord o al Sud globale – nel primo caso si potrebbe ponderare un golpe finanziario o una rivoluzione colorata non violenta, nel secondo continua a prevalere l’idea del colpo di Stato stricto sensu.
Articolo estratto da “L’arte della guerra ibrida” di Emanuel Pietrobon, Castelvecchi editore ©️ 2022 Lit edizioni s.a.s. per gentile concessione.