OGGETTO: Oreste Del Buono paga il biglietto
DATA: 31 Marzo 2021
Antonioni è una bufala, Sordi un vigliacco e Risi un re Mida al contrario; Carmelo Bene un genio anarchico e Fellini un amico fraterno. Opinioni popolari e impopolari di Oreste del Buono, un comune spettatore
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In piena foga modernista, Godard staccava gli assegni e li metteva al posto dei titoli di testa. L’incipit di Crepa padrone, tutto va bene (1972) era di fatto il solito gioco metalinguistico da Nouvelle vague risorta: a ogni maestranza corrispondeva un assegno, e a ogni assegno una coltellata alle tasche del produttore. “Per fare un film ci vogliono i soldi”, ricordava la voce fuori campo, curiosamente simile a quella di un comune spettatore che negli stessi anni commentava i film per L’Europeo. A togliere a quell’incipit tutta la patina di materialismo parigino, infatti, viene fuori la disillusa introduzione della raccolta di recensioni di Oreste Del Buono, uno che con certi circoli elitari non avrebbe condivisonemmeno lo scaffale in una libreria, figurarsi un’ouverture:

“Ho sempre disprezzato le raccolte di pezzi di giornale. Non posso, quindi, fare eccezione per la presente raccolta, anche se è a mia firma. Ma l’offerta dell’editore Livio Garzanti è generosa, e io ho bisogno di soldi”.

Oreste Del Buono, Il comune spettatore

“Un favore ricevuto è un favore da rendere”

Come avesse fatto un affermato scrittore, traduttore ed editor a ritrovarsi a campare vendendo una raccolta di trafiletti pubblicati anni prima su L’Europeo la dice lunga sulla natura del personaggio: nel ’79, Del Buono aveva terminato il suo ultimo romanzo, Un’ombra dietro al cuore, da lui stesso ritenuto “peggio che pessimo”, addirittura “noioso”, tanto da volerlo ritirare dal commercio. Poco male per Giulio Einaudi, a patto che Del buono fosse riuscito a restituirgli circa nove milioni di Lire, in parte ripagati proprio con i soldi di Garzanti. Come invece avesse fatto un letterato con scarsa formazione cinematografica a tenere una rubrica sui film di quegli anni è storia assai meno originale, per giunta comune a molti colleghi della cricca letteraria, spesso chiamati dai direttori dei settimanali a commentare le nuove uscite per dare prestigio alla testata. Ma tra i vari Moravia, Soldati e Raboni, Del Buono sfigura e si sfigura, rivendicando costantemente una furba alterità rispetto ai critici di professione e agli intellettuali so-tutto-io:

“Del Buono sminuisce di continuo sé stesso. Ricorda gli errori commessi, insiste sulla fallibilità delle proprie asserzioni, se deve attaccare qualche posizione avversaria lo fa “dal basso”, con l’atteggiamento, non certo privo di leziosità , di chi finge di insinuare dubbi su sé stesso per insinuare dubbi sul mondo”.

Da Gli anni affollati di Claudio Bisoni

E in effetti, Del Buono, del critico di professione non ha né la presunta oggettività (“Non si può essere obiettivi tra Milan e Inter […] a me l’idea che presiede alla vocazione, alla missione, alla mansione del critico del cinema o di qualsiasi altra tresca mi ha sempre suscitato orrore”), né l’alloro sulla testa (“La trama del film è totalmente comprensibile, tranne che per i critici laureati a cui forse l’alloro cade sugli occhi, impedendo la visione”). La sua non è quindi la risposta a una chiamata alle armi o la vocazione di un missionario della divulgazione, piuttosto il pretesto per dare libero sfogo a un serbatoio pressoché illimitato di digressioni sulle tendenze del periodo, sui vizi dei suoi concittadini e sulle contraddizioni dell’industria culturale

Capita che, da fiero spettatore pagante (“Sventolo il biglietto che ho pagato regolarmente […] essendo allergico alle tessere di favore. Un favore ricevuto è un favore da rendere”), osservi con maggior cura i colleghi di sala piuttosto che lo schermo (“Al cinema Mediolanum eravamo in pochi […] in compenso io ero in compagnia”); racconti il finale dei film che ruotano esclusivamente attorno ai colpi di scena (“Il finale consiste tutto nel fatto che dopo la notte viene l’alba. Ma potrebbe essere persino un pensiero di Mao, siamo seri”); si diverta a demolire le pose intellettualoidi di certi autori (“La solita bufala intellettualistica”) e in generale attacchi l’elitarismo laddove gli sembri il frutto di espedienti superficiali, senza mai nascondere simpatie e antipatie che lo possano influenzare nei giudizi. Ecco emergere tra le prime l’amicizia con Fellini, l’ammirazione per Manfredi e l’incanto per Carmelo Bene; e dall’altra parte il disprezzo per Marlon Brando, Jodorowsky e compagnia annoiante. 

Ma considerare Del Buono unicamente come un vandalo della critica ufficiale significherebbe fare un torto alla sua capacità di costruire e riconoscere, perché dietro alle dichiarazioni di non appartenenza e alla continua denigrazione del proprio lavoro, il toscano trapiantato a Milano riesce spesso a nascondere una lungimiranza fuori dal comune, capace di tradursi ora nella riscoperta di Billy Wilder in anticipo anche sui francesi, ora nel riconoscimento immediato della New Hollywood; e ancora nella comprensione della parabola del Leone post ’66 e nella difesa del primo Allen. Meno spettatore di quanto si professi, più critico di quanto non voglia mostrare.

Raramente un giudizio di Del Buono si è allineato a quello della critica come nel caso di “Zabrinskie point”, massacrato a destra e a manca per la vaghezza dell’idea tematica e il finale ridondante.

Ci sono un americano, uno svedese e un latino

Del Buono sa bene chi scegliere tra Milan e Inter, così come sa dove posizionarsi rispetto a un’altra storica rivalità: quando nel ’60 Fellini si aggiudica la Palma d’oro a Cannes con La dolce vita, Antonioni vince il premio della giuria con L’avventura, dando il via a un antagonismo cinematografico che opporrà lo sguardo fantasmagorico del primo a quello analitico del secondo; la nostalgia del romagnolo alla modernità del ferrarese; l’immaginario circense ai borghesi alienati. La stampa si divide, il pubblico anche, e Del Buono, che appartiene a entrambe e a nessuna delle due categorie, è deciso a salire sul carro felliniano. Da lì in avanti ogni occasione diventa buona per sbertucciare il rivale, con Blow up (1968) ridotto a “una collezione di Vogue” e i film malriusciti degli altri a un modo utile per tirarlo in ballo, come quando criticando un film di Rubartelli si immagina che il regista abbia visto Blow up “e si è domandato perché non potesse farlo anche lui”. 

Un simile rifiuto per il cinema di Antonioni nasce essenzialmente da quello per la costruzione del suo uomo moderno, che per Del Buono semplicemente non esiste poiché frutto esclusivo di «letture maldigerite» e superficialità dispensata per analisi, unita poi a una tendenza al vago, all’inconcluso e ai puntini di sospensione tanto di moda nel cinema fieramente post-classico. L’idiosincrasia nei suoi confronti arriva al punto di commentare Zabrinskie point (1970) ribaltando il formato tradizionale della recensione – già di norma poco adoperato – per farsi recensione alla recensione, perfino lettera aperta alla critica dell’Observer Penelope Mortimer, che nel suo commento suggeriva ad Antonioni di tornare in Italia per raddrizzare la propria carriera:

“Eh no, signora Penelope, roba simile non deve proporla neppure per scherzo […] Penelope, non è giusto auspicare che Mike Antonioni ci venga rispedito come un Lucky Luciano. Per conto mio mi oppongo. Anzi,  sono disposto a firmare un appello, a fare carte false, a compiere persino qualsiasi crimine  […] Qualsiasi crimine? Anche affermare che Zabrinskie point è un buon film”.

Queimada fu generalmente apprezzato dalla critica in quanto avventuroso e allo stesso tempo politicizzato. Del Buono gli criticava l’eccessivo ricorso al genere per veicolare riflessioni politiche.

Parallela a questa crociata si sviluppa allora un’amicizia intima con Fellini, con cui Del Buono scambia telegrammi e telefonate notturne, peraltro senza mai rinunciare a pubblicarne i resoconti sulla sua rubrica settimanale. La poca costanza nel recensire le nuove uscite si unisce così a un fedele rapporto amicale, che per qualche settimana trasforma le colonne de L’Europeo in una sorta di reportage sulla salute mentale del Fellini post Satyricon (1969), tra soggiorni a Chianciano e progetti abortiti, litigi con i produttori e nottate insonni. 

Fellini racconta e Del Buono riporta fedelmente, gli fa il coro e aggiunge aneddoti, come quando l’amico, Bergman e Kurosawa avrebbero dovuto fare un film insieme. Il primo a tirarsene fuori fu il giapponese, impegnato in altri progetti, poi toccò a Bergman: si sarebbe dovuto intitolare Duetto d’amore, l’amore visto da un uomo del nord e da uno mediterraneo, ma poi lo svedese si presentò a Roma “secondo i peggiori pregiudizi di un nordico che non vuol farsi imbrogliare da un latino”, prima proponendo a Fellini una storia scopiazzata da un suo stesso soggetto, poi imponendo di far cominciare il film con il proprio episodio, e infine accordandosi con il produttore per far fuori l’italiano erealizzare un film tutto suo. “Definirlo un bambino nevrotico è un eufemismo”, chiude Del Buono riportando le parole di Fellini e facendole un po’ sue, dipingendo il compagno di telefonate come un genio accerchiato da produttori truffaldini, colleghi viziati e critici politicizzati.

Pubblicata nel ’79, la raccolta è una collezione delle migliori recensioni di Del Buono dal ’69 al ’72.

Coca cola e Gianni Rivera: visita a Carmelo Bene

Meno intimo di quello con Fellini è il rapporto con Carmelo Bene, che Del Buono aveva difeso dai pomodori in occasione della presentazione veneziana di Nostra signora dei turchi (1968). Appurata la natura geniale dell’opera di Bene – dal momento che “solo il genio può allontanare dal cinema qualcuno che abbia già pagato il biglietto” – Del Buono si poneva alcuni dubbi retorici tutti finalizzati a esaltare il lavoro dell’attore e a screditare quello dei critici. Il nodo principale riguardava ancora lo statuto di genio che egli stesso aveva attribuito al pugliese: se il genio è inutile, talvolta persino nocivo, allora che farsene di Carmelo Bene? La risposta era altrettanto retorica. Il genio andava neutralizzato con un consenso unanime, rischio che per Del Buono, in Italia, nessuno avrebbe mai potuto correre. 

L’ammirazione è ricambiata e Del Buono viene invitato a casa di Bene, che parla di tutto e sputa su tutti, a partire dai critici cinematografici che lo attaccano, fino a quelli teatrali che già lo avevano sfiancato, senza dimenticare quelli sportivi, che anziché riconoscere il talento di Rivera, vogliono ingabbiarlo in tattiche e schemi. Musica per le orecchie del Comune spettatore, che prende appunti mentre l’altro divaga, fuma, si interrompe, perde il filo, cammina e si risiede. Il discorso, ammesso che ce ne sia uno, riguarda la scelta del passaggio dal teatro al cinema, da ricondurre in parte al fastidio per la presenza del pubblico e in parte al sentirsi più uomo che cittadino, differenza che Bene si premura di nascondere tra mille parentesi e altrettante sentenze, prima di crollare per attaccarsi  “alla bottiglia di Coca Cola formato familiare, come al seno materno”.

“Questi critici sono nati senza vocazione. Se uno domanda a un bambino: tu cosa farai da grande? […] Nessun bambino, però, dirà mai: farò il critico cinematografico. Questi critici sono arrivati a occuparsi di cinema senza vocazione. Di cinema hanno finito per occuparsi a causa, non so, di disguidi editoriali, contrattempi della vita, questioni familiari”

Del Buono è frastornato, poco importa se il suo profilo rientri sia nella prima che nella seconda delle tre categorie su cui Bene vomita i propri giudizi. La battaglia contro la critica ufficiale lo esalta e tanto basta per starlo ad ascoltare in silenzio, almeno finché l’altro non ricomincia con Rivera, il Milan, Italia-Svezia e Italia-Uruguay: “poco fa, quando lui parlava, parlava di cinema, potevo stare zitto, ma ora parla, parla di calcio, ho da dire la mia, non potrei tenermela dentro”.

Dustin Hoffman e John Voight in “Un uomo da marciapiede”. Del Buono descrive Hoffman come «una faccia da Canzonissima»

Posta del cuore

Scostante nel recensire le nuove uscite cinematografiche – talvolta preferisce commentare i libri anziché i film – Del Buono mantiene con puntualità un rapporto di corrispondenze con i lettori che lo vogliono licenziato, i registi che gli scrivono dopo le recensioni negative e i fan in rivolta per l’ennesimo attacco al divo di turno. Il divertimento che ne trae è pari solo alla creatività dei modi con cui riesce a rovesciare qualsiasi accusa, dalla più offensiva alla più formale. Si sprecano quindi i casi in cui la rubrica, più che indirizzare lo spettatore, aggiorna i fedelissimi sull’identità di qualche anonimo che pensava di farla franca. 

C’è un caso in particolare in cui la solita indagine carnevalesca si trasforma in melodramma dannunziano. Non è tanto il contenuto a stupire Del Buono – che viene invitato, nell’ordine, a cambiare mestiere; darsi alla raccolta di tartufi bianchi; abbandonare la critica in quanto dannoso al cinema italiano; coltivare garofani – quanto il timbro della lettera: Euro International Films S.P.A. Del Buono è su di giri, l’anonimo sbadato gli si è consegnato con le mani in alto. “Non sono Sherlock Holmes, ma neppure il dottor Watson. Un mezzo sospetto, ce l’ho”. L’indiziata è “una bella donna bionda, ricca, arrogante, sicura di sé e del mondo”, al secolo Marina Cicogna, produttrice premio Oscar nel ’71 per Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, film a cui Del Buono non aveva risparmiato critiche pesanti . Ma mentre lui scrive nome e cognome, la sospettata si è già pentita, e invia una lettera di scuse al critico. Troppo tardi, perché il pezzo è già andato in stampa, e la signora non creda di aver finito di patire. Del Buono infierisce, e la lettera di scuse melodrammatiche finisce d’ufficio nel pezzo della settimana successiva:

“Il mio personale metodo per ovviare alle possibili frustrazioni è il seguente. Scrivo lettere che poi straccio, e non portano dunque a conseguenze. La sua fu trovata da una cameriera nuova e solerte sul mio scrittoio a casa  […] la cameriera chiuse la busta, la consegnò all’autista che la portò alla mia segretaria all’ufficio […] Lo sa lei quante persone sarebbero felici di quello che è successo? Dio mio, le confesso di avere anche paura […] lei può fare di me ciò che vuole, coprirmi di ridicolo, rovinarmi la carriera, il mio posto nella società per la quale lavoro, i miei rapporti con tante persone, tutto, insomma”.

La faccenda si complica settimana dopo settimana, coinvolgendo anche un’amica giornalista in comune che pare abbia fatto la spia, confermando i sospetti di Del Buono. Sta di fatto che il critico riceve una lettera ufficiale di scuse dalla casa di produzione, per poi scambiare altre missive con la produttrice, in un clima formale ma ormai pacificato. Nessuna vita rovinata, nessun posto in società perduto.

L’oggetto del contendere, oltre che i commenti non molto lusinghieri di Del Buono al film prodotto da Marina Cicogna, era l’interpretazione di Helmut Berger in La caduta degli Dei (1969) di Visconti, considerata scarsa dalla produttrice e difesa invece dal critico.

I toni della corrispondenza non sono peraltro sempre sostenuti come quelli di cui sopra. Del Buono ricorre spesso allo scherzo da caserma e all’artificio ironico per commentare ciò che vede, ricevendo talvolta risposte altrettanto piccate, ben lontane dagli scrittoi della produttrice, come quando chiude la recensione di Lo stato d’assedio (1969) di Scavolini con la stizza di chi è rimasto deluso da un film che gli avevano consigliato caldamente. Scavolini diventa “Startufini, Sfinocchini, Sfunghini e Scarciofini”. La risposta arriva la settimana successiva, quando il fratello del regista risponde per le rime, evidentemente toccato nell’onore familiare: “Caro amico di cui mi sfugge il nome, Del Ballo, Del Bello, Del Burro. Ah ecco! Del Buono”. Il Comune Spettatore capisce di averla fatta fuori dal vaso e si salva in corner citando i grandi maestri dello scherzo dei nomi, Totò e Gadda. Scuse accettate con riserva. 

L’elbano non si tira indietro nemmeno quando deve rispondere di lesa maestà, e neanche quando a richiamarlo all’ordine è la mamma. Tra le tante crociate intraprese  ce ne sono infatti un paio che scatenano i lettori, soprattutto quando a essere toccati sono gli attori o i registi già affermati. Piovono lettere di protesta quando Risi viene accusato di cinismo e nichilismo, oppure quando lo stile di Sordi viene accostato a quello del vigliacco che offende l’interlocutore con i modi cordiali del bambacione ben educato. 

Il linciaggio viene però rischiato quando sul banco degli imputati ci scaraventa pure Marlon Brando dopo l’uscita di Queimada (1969) di Pontecorvo: “La sua carriera è una parodia del metodo Stanislavskij”. Nemmeno la mamma regge il colpo:

“Oreste ti debbo avvisare che stai facendo proprio una brutta figura […] non afferri la sproporzione della lotta e le conseguenze negative che te ne derivano? Una questione privata tu con un simile gigante? Non capisci che hai solo da perdere? Ti prego, rientra in te, non lasciarti trascinare dall’invidia”.

Macché, il figlio continua a ramazzare il divo, accusandolo di apparire deprimente nei ruoli drammatici e ridicolo in quelli tragici, senza contare il trattamento non proprio di riguardo riservato a Queimadaaltro Moloch da non scalfire: piuttosto chedifendersi, Del Buono preferisce contrattaccare, con buona pace della signora Vincenzina Tesei da Marina di Campo.

Nei suoi resoconti settimanali…

Pars Costruens

Come ricorda il critico Alberto Pezzotta, la tendenza anti-elitaria e l’approccio dialogico con il lettore derivano probabilmente da colui che aveva ricoperto il ruolo di critico, sempre su L’Europeo, qualche anno prima di Del Buono. È lui stesso a riconoscere in Giuseppe Marotta l’unico maestro cui potersi rifare per i giudizi umorali e poco analitici che lo contraddistinguono, con l’evocazione frequente di categorie generiche come la noia, il divertimento o l’intrattenimento, ritenute sufficienti per orientare i propri lettori. Questa stessa schiettezza è peraltro riconoscibile anche nei momenti in cui Del Buono, pur continuando a vestire i panni del comune spettatore preparato ma dissimulatore, anticipa considerazioni a cui l’accademia e la critica intellettualistica arrivano negli stessi anni ma con mille fanfare di accompagnamento, lotte intergenerazionali e redazioni in subbuglio.

L’avversione per Marlon Brando, per esempio, procede di pari passo con l’ammirazione per Dustin Hoffman e per quella faccia da anti-divo “che è un punto d’incontro tra quelle di Mino Reitano, di Peppino Gagliardi e di Nicola Di Bari”. Tra le poche proiezioni dalle quali Del Buono esce entusiasta in quegli anni occupano infatti un posto d’onore sia Il laureato (1967) che Un uomo da marciapiede (1969), film iconici di quella New Hollywood che pare lo affascini molto e che tanto farà parlare e scrivere i commentatori più teorici. Il Comune Spettatore, senza evocare l’apocalisse o la fine dell’industria, ne coglie la forza dirompente, lo sguardo innovativo e l’approccio talvolta rocambolesco, rimanendo ad esempio affascinato dalla storia di produzione allucinata e amatoriale di una pellicola come Easy rider (1969), altro pilastro di quella nuova onda americana. Mamma Vincenzina, almeno stavolta, approva.

Nostra signora dei turchi mette in scena…

Nuovo giro, nuovo bersaglio centrato: tra una stroncatura e l’altra, Del Buono trova il tempo di vedere, nel ’72, ciò che certi palati fini faticano a riconoscere tutt’oggi. È il caso della natura camaleontica di un Woody Allen che si era dato al cinema da non molti anni. Ebbene, il Comune Spettatore non si limita a evidenziare il debito sennettiano delle sue prime due fatiche – assai vicine al filone della comica anni ’20 – ma arriva addirittura a predire una carriera fitta di sperimentazioni in cui nessun film assomiglia a quello precedente. Dovendo commentare Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso, Del Buono constata che i film di Allen “sono uno diversissimo dall’altro, cresciuti in direzioni diametralmente opposte…”, come sottolineeranno tempo dopo anche altri osservatori, ma alla luce di decine di opere in più, da quelle bergmaniane a quelle felliniane, passando per quelle in costume, quelle più teoriche e quelle farsesche.

Non solo distruzione, dunque, ma anche analisi più approfondita di quanto non voglia sembrare. Una delle più lucide è senz’altro quella che segue la parabola western di Leone, in cui i risultati sono notevoli fintanto che la dimensione epica è equilibrata da quella ludica. È nel momento in cui il bambino gioca a fare il grande che la questione si fa complessa: dopo la trilogia del dollaro, Leone non si accontenta più del provincialismo raffazzonato che accomunava i suoi tre capolavori, tanto da cominciare a voler giocare sullo stesso piano degli americani. I vecchi collaboratori – fondamentali proprio in quel lavoro di livellamento di atmosfere – vengono allontanati per far entrare nella macchina western due talenti della nuova generazione (Bertolucci e Argento) e due divi mai avvicinati in precedenza (Bronson e Fonda). Il risultato finale di C’era una volta il west è per Del Buono un film calligrafico, con Leone che si è trasformato in un regista ormai pronto per un colossal qualsiasi: la speranza è che “ricominci prima o poi a divertirsi e a divertire…”.

Ma l’esempio più emblematico di una simile lungimiranza è forse quello di Billy Wilder, a cui Del Buono aveva dedicato una monografia nel ’58. Se dalle nostre parti il volume passa piuttosto inosservato, in Francia, nello stesso periodo, c’è chi a causa di Wilder per poco non fa nascere una nuova Repubblica. Dal ’52 al ’59 i critici della politique des auteurs lottano per rivalutare quei registi classici che per gli europei non sono che umili mestieranti. Tra i vari Ford, Capra, Hitchcock e Hawks, c’è proprio il Billy Wilder che un comune spettatore italiano stava esaltando senza mettere a ferro e fuoco la redazione dei Cahiers du cinéma. Considerando che Godard e compagnia, con quella crociata, sono entrati nella storia della critica, e che Del Buono ci passerà forse soltanto per aver infamato tal Scavolini, di certo il francese avrà perdonato all’italiano quell’incipit così simile al suo da far pensare alla copia.

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