Il fetore è ovunque. Congiunto al sadico ghigno di chi ficca il muso nel corpo putrescente del potere, del potente, che esiste – è l’esigenza intestinale della ‘poltrona’ – per la caduta, per essere inghiottito dalla propria immagine, cibo agli alleati/moscerini. Che scene patetiche, in questi giorni: giornalisti, come mosche, avvoltoi, iene, che s’industriano intorno all’escremento parlamentare; il capo del decrepito Governo che fa la conta della cricca, raduna accoliti, portieri, confratelli; l’immane sottana di San Pietro, svergognata, sotto cui si accalcano politici, vassalli del lusso, lacchè; il gergo giornalistico, di definitivo imbarazzo: “responsabili” – perché, sarebbero forse irresponsabili quelli che preferiscono andare a elezioni, rimandando la scelta al popolo bue, e irreprensibili gli altri? –, i “volenterosi”, gli “sherpa del Governo”, la “giustizia a orologeria”, i retroscena di chi non inscena altro che la propria voglia di un incarico, di un ruolo nel roveto burocratico. E a reti unificate, infine, l’insediamento del Presidente degli Stati Uniti, degno segno del nostro patrio servaggio, in un girotondo di sorrisi. “Assisto con pop corn il lento cupio dissolvi del sistema democratico”, mi scrive un amico che, come dire, ne sa, schifato dal regno delle chiacchiere.
Assediato dal fango, dunque, dal giornalismo fatto di ammissioni, omissioni, confessioni, sospetti, sospette dichiarazioni, discorsi ornamentali, elegie sul nulla, il carisma dei caramellai, ogni divagazione nell’avventura è lecita, beneaugurante, una benedizione nel bailamme dei furbi. Ecco: quarant’anni fa Werner Herzog gira Fitzcarraldo, il suo film più bello, più avido di senso. La storia è quella nota. Un tizio, dai natali incerti, irlandese, Brian Sweeny Fitzgerald, detto dai nativi ‘Fitzcarraldo’, è guidato dall’assoluto e dalle imprese impossibili. L’ultima, funambolica, è quella di portare l’opera italiana, di cui è fanatico, a Iquitos, nel fitto dell’Amazzonia: quasi potesse istituire un gemellaggio tra l’armonia occidentale, l’eleganza inquieta della musica, e il selvaggio equatoriale, il caos verde, l’aristocrazia del selvaggio.
Un paio di anni fa, ho chiacchierato con Jan Brokken, notevole romanziere olandese, che in Jungle Rudy ha raccontato la storia di una specie di Fitzcarraldo. Costui, in verità, si chiamava Rudy Truffino, olandese, di lontane ascendenze italiane – il nonno, Carlo Giuseppe Domenico Truffino, veniva dal lago di Como, divenne “gioielliere di corte del primo re d’Olanda” –, che per indole avventuriera si trasferì nella Gran Sabana, immane altopiano venezuelano, quasi inaccessibile. “Si nutriva di formiche e vermi… aveva barattato i vestiti con arco e freccia, ma ci vogliono anni di allenamento per colpire un pesce nel fiume e portarlo in superficie… aveva ventisette anni e nessuna certezza di arrivare ai ventotto”. Rudy si arrangiò facendo la guida per archeologi ed esploratori in cerca di fatate El Dorado, per registi in favore di film mozzafiato (una foto lo immortala con Anthony Perkins, quello di Psycho, mentre gira Green Mansions). Morì nel 1994, “Jungle Rudy” – soprannome affibbiatogli da un cineoperatore americano –, roso da oceani di nostalgia (quante altre vite avrebbe potuto vivere?), non prima di aver incrociato Werner Herzog: “Il cineasta tedesco trascorse una settimana nella Gran Sabana alla fine degli anni Ottanta e, durante le nottate passate a chiacchierare, Truffino scoprì la storia di Fitzcarraldo, l’avventuriero irlandese che si era messo in testa di costruire nella foresta amazzonica un teatro dell’opera, alla cui serata inaugurale avrebbe cantato Enrico Caruso”. Ma questa è una storia che, se mi va, racconterò altrove.
Werner Herzog, come si sa, è attratto dall’insolito, da eroi che reagiscono al mondo per eccesso – o per difetto –, immolati a una gloria dispari. Così, ha dato vita a Aguirre e a Kaspar Hauser, a Nosferatu, a Woyzeck, a Fitzcarraldo. Spesso questi personaggi vengono raffigurati dall’impareggiabile Klaus Kinski; “un adolescente di sessant’anni, tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli”, così lo descrive Bruce Chatwin, che lo incontra, qualche anno dopo, sul set di Cobra verde.
Fitzcarraldo – ecco il punto – raffigura la vittoria dell’assurdo sui dettami della ragione, l’impero del desiderio e del sogno su quello dell’utile e del ricavo, “la sfida all’impossibile” più che la grigia gestione del possibile. Esprime, cioè, la necessità di sovvertire i canoni del mondo, di alienare il tempo, acida fogna di scaltri, coglioni e usurai, banchieri della protervia e dell’ignavia, in una clamorosa capriola. Già, Fitzcarraldo è il sovrano del ‘bel gesto’ contro la macchinazione partitica, è il partigiano delle scelte inaudite e del rischio, indecoroso. Fitzcarraldo non è un ‘idiota’, non è un’anima pia, al contrario: tratta coi potenti fino all’ultimo, frequenta il bordello, la sua amante/finanziatrice/fidanzata è una prostituta d’alto bordo, s’incazza, pretende il privilegio dell’indignazione. Riconosce nella giungla il proprio carisma e intravede la medesima eleganza nella spirale del pitone come nell’acuto di Caruso.
Va imposta la lettura del romanzo/soggetto di Fitzcarraldo – lo edita Guanda – ai caimani parlamentari e ai tanti girini, pronti a tutto per un giro sulla giostra di governo: mette in chiaro l’orizzonte dei progetti, promuove, contro l’idolatria del potere, il dio dell’incongruo.
“Come è vero che sono qui, un giorno porterò la Grande Opera a Iquitos. Io sono l’Eccesso e il Soprannumero. Io sono l’Ultima Battaglia. Io sono i Miliardi. Io sono lo Spettacolo nella foresta vergine”
urla Fitzcarraldo, proclamato “Eroe dell’Inutile”, mentre un magnate sparge “un mazzo di banconote che peserà mezzo chilo” in un lago colmo di pesci, finché “subito l’acqua si trasforma in un’unica furibonda battaglia, come se mostri marini stessero lottando fra loro. Un gigantesco paiche, una specie di enorme luccio dell’Amazzonia, lungo quasi tre metri, afferra con la bocca il fascio di banconote e lo trangugia con orrendo rumore”. Fitzcarraldo non è degno del denaro di un possibile sponsor più di quegli orridi pesci. Nella scena cardine del film, di fronte all’impossibile – varcare le ripide di un fiume per raggiungere una zona ricca di alberi da cui estrarre il caucciù, indispensabile a finanziare la propria follia – Fitzcarraldo reagisce con l’assurdo: trascina il suo scassato battello lungo la montagna, da un lato all’altro. Una barca che naviga nel bosco, con sovrana lentezza: Fitzcarraldo, l’uomo che vive al di là degli argini della ragione e del sensato, riesce in un’impresa mostruosa.
Il soggetto di Herzog termina con la parola “felice”. Fitzcarraldo riesce a portare la Grande Opera nel cuore della giungla: “un miracolo è accaduto, qualcosa d’incomprensibile”. Egli ci appare, alla fine del film, “come un vero re”: non ha guadagnato nulla, ma ha realizzato l’impensato. Per questo si è re, per questo vale la pena vivere – il resto è per quelli che giocano a poker con le poltrone e con gli incarichi, una miseria che non ci riguarda.