OGGETTO: Reagan, il divo
DATA: 12 Gennaio 2021
SEZIONE: inEvidenza
L’epoca di Ronald Reagan ha forgiato l’immaginario americano. Ma chi è la superstar degli anni Ottanta? Scegliete tra Stallone, Schwarzenegger, Tom Cruise, Kim Basinger e E.T.
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Il martire o la macchina umana; la donna fatale o l’eterno bambino; il giovane rampante o la cintura nera: qual è stato il divo cinematografico più reaganiano di Hollywood?

Un divo mancato impara le regole del gioco a proprie spese, una in particolare: per fare la stella servono la biografia giusta e il pubblico pronto ad accoglierne le interpretazioni. Stesso discorso per un presidente, o almeno per quello degli Stati Uniti. Quarant’anni fa, memore della lezione, Ronald Reagan cominciava ad applicare l’occorrente alla seconda delle due figure: da divo mancato si sarebbe fatto bastare la Casa Bianca, e da stella minore si sarebbe limitato a farne nascere di più brillanti. Lui che del divo non aveva avuto né la storia (studente, bagnino, telecronista, infine attore) né il pubblico (troppi ruoli minori), aveva reso la sua carriera nel cinema il vero asso biografico con cui guadagnarsi la presidenza e, indirettamente, anche il divismo mai completamente raggiunto in precedenza. Se infatti i seventies della new Hollywood avevano sostituito il good bad boy in stile Bogart con l’uomo qualunque alla Dustin Hoffman, il reaganismo sarebbe di lì a breve riuscito a creare i corpi adatti a interpretare i sogni prefabbricati del grande schermo anni Ottanta, a personificare un immaginario, a rappresentare un’epoca in modo puritano e allo stesso tempo sfacciato e propagandistico, tra fitness e sangue, donne cacciatrici e infantilismo.

Over the top” ribadisce la mitologia del gigante buono, sintetizzando tutti i caratteri di Stallone in un solo personaggio. Non è un caso che Stallone stesso sia accreditato come co-sceneggiatore. In questo caso il divo interpreta un camionista che ha l’occasione di riscattarsi come marito e come padre, nella più classica delle parabole della redenzione e del sacrificio fisico.

Difficile incoronare il divo più reaganiano di tutti, se non altro per la lotta all’ultimo muscolo che ne verrebbe fuori. C’è quello italo-americano portato ai limiti delle sue possibilità; quello austriaco più vicino alla macchina che alla carne; quello cintura nera e quelli minori che guardano alle arti marziali. Di sicuro ognuno è funzionale alla costruzione dell’eroe più adatto ai valori del paese: se Sylvester Stallone è l’animale martirizzato che sopporta sforzi e dolori tanto inimmaginabili da sfociare nel simbolico – nuotatore dei ghiacci, scalatore estremo, chirurgo di sé stesso, pugile outsider – Arnold Schwarzenegger è il simbolo di una potenza umana che diventa macchina infallibile e arma da guerra. Il cuore da una parte, l’androide dall’altra; il patriottismo ridicolo qui, l’imperialismo glaciale là. Il primo interpreta l’eroe che si è fatto da solo come vuole il sogno americano, quello che a forza di sconfitte è diventato il mito degli ultimi; mentre il secondo è il cyborg senza pulsioni che non conosce la fatica. Emblematico vederli a confronto nel ruolo del padre di famiglia: pur nella sua goffaggine, Stallone risulta credibile sia come marito protettivo che come genitore proletario (Over the top, 1987), mentre Schwarzenegger ritrova sé stesso solo una volta rivestiti i panni dell’uomo-macchina in lotta contro tutti (Commando, 1985). In mezzo c’è una schiera di personaggi di culto un po’ esotici e un po’ patriottici, con Chuck Norris in prima fila pronto per la serialità anni Novanta, con i suoi calci figli della dedizione e della disciplina da cinema orientale, senza però farsi mai mancare la propaganda anti comunista (Invasion USA, 1985).

A chiunque spetti la palma del reaganiano più eroe tra gli eroi, il cambiamento di rotta rispetto al decennio precedente è chiaro già nei primi anni Ottanta, con la figura dell’antidivo riflessivo uscito dall’Actors studio – peraltro artefatta tanto quanto quella del divo classico – superata da quella del corpo fuori dal comune, votato all’azione e al sacrificio. Così, se ogni periodo ha le narrazioni cinematografiche che si merita, è logico che a tempi di liberalizzazioni dei mercati si accompagnino messaggi legati alla cultura del self-made-man. Curioso allora il confronto tra questo eroe muscolare e quello dei cinecomic odierni: il primo, sia nella versione sofferente alla Stallone che in quella tecnologica alla Schwarzenegger, mostra un’ammirevole tendenza alla dedizione e alla retorica dell’allenamento, secondo cui a tanto lavoro corrispondono automaticamente altrettanti successi. Discorso opposto per il palestrato del Duemila, supereroe predestinato e quindi svogliato, inutilmente sagace, fumettistico e privo di motivazione se non quella legata a una natura che lo costringe al sacrificio per il bene comune. Stanno forse qui tutte le contraddizioni dello spirito del tempo e tutta la coerenza, seppur controversa, del reaganismo cinematografico. Mentre siamo bombardati dal mantra del “puoi essere ciò che vuoi, basta volerlo” (Zootropolis, 2016), contemporaneamente si fa largo la figura di un eroe predestinato, divo per natura, ormai totalmente sciolto dal sogno americano tanto caro al cinema del passato.

Non che la retorica del sacrificio, soprattutto nella versione del sangue come simbolo della fatica e del coraggio del padre di famiglia, tardi a scricchiolare già in epoca reaganiana, ma il fatto che rimanga esterna al circuito mainstream è piuttosto emblematico. Nel giro cinefilo alcune voci fuori dal coro fanno cambiare il segno a quel sangue, facendolo passare nel giro di due anni dal First blood di Rambo al Blood simple dei fratelli Coen: altro che mito americano e muscoli in bella mostra, il loro sangue è grottesco e critico, specialmente nei confronti del Presidente dei divi. È proprio il personaggio più americano di tutti, il detective che veste ancora da sceriffo, a riflettere su quell’America nella sequenza d’apertura del film: “…Lamentati pure, vuota il sacco, chiedi aiuto, tanto non ti servirà. In Russia hanno trovato il modo che tutti si aiutino a vicenda, in teoria almeno. Io conosco solo il Texas e qui tutti sono soli”.

Dopo la figura del giovane rampante, Tom Cruise diventa il figlio cinematografico preferito da Reagan grazie al ruolo di Pete Mitchell in Top gun (1986). L’ammirazione per il nuovo talento del cinema hollywoodiano sfocia addirittura in un incontro privato.

Lontano da quegli States rurali c’è però chi non ne vuole sapere né di Russia né di condivisione di problemi e profitti. Ecco allora che i ballerini del sabato sera, fino a pochi anni prima tutti casa, disco e disimpegno politico, cominciano a bramare il dio denaro oltre che la pista illuminata. È il lanciatissimo Tom Cruise a incarnare meglio di altri il mito del giovane arricchito, con quell’aria furbetta ma pulita con cui interpreta il Joe Goodson (e il nome è già un programma) di Risky business (1983), cinica parabola di un ragazzetto pappone che si crede più furbo degli altri, con il sottotitolo italiano che la dice lunga sulla tendenza del periodo: Risky business – Fuori i vecchi…i figli ballano. Il più bravo a farlo sembra Matthew Broderick, che in Una pazza giornata di vacanza (1986) interpreta un adolescente pronto a tutto pur di saltare la scuola. Dal viaggio dei figli dei fiori di Easy rider sono passati meno di vent’anni e dal peregrinare ossessionato di Taxi driver appena dieci, ed ecco che gli Ottanta declinano il gesto di ribellione in chiave puramente comica, con il capriccio divertente di un ragazzo comune che si prende un giorno libero, privo sia degli ideali (per quanto vaghi) dei motociclisti in acido, sia delle esperienze traumatiche del giovane reduce di Scorsese.

Ma a ballare alle spalle dei vecchi non sono solo i figli maschi, perché si tratta pur sempre del decennio della donna maliarda, variante attiva di quella fatale del film noir di epoca classica:

“Questa variante di femme fatale sembra capovolgere i ruoli: è la donna che si è liberata da molti tabù […] che è in carriera professionalmente, che dispone di reddito e molteplici altre risorse (immagine, beni, potere), ma che soprattutto non resta in attesa, bensì agisce per prima, prende l’iniziativa, si getta insomma nella caccia al maschio”.

(Arnaldo Spallacci, Maschi, il Mulino)

La Kim Basinger di 9 settimane e mezzo (1986) e la Sharon Stone di Vertenza inconciliabile (1984) ne dettano la rappresentazione, che poi si svilupperà negli anni successivi andandosi ad ibridare con il contesto divistico anni Novanta, che richiederà alle stelle femminili uno sforzo ulteriore nella costruzione della loro mitologia, vale a dire un certo impegno civile – vuoi con i diritti delle minoranze, vuoi con quelli degli animali – che si accompagni a piccoli scoop gossippari.

Di simili buoni sentimenti ne sanno qualcosa gli amanti dell’animazione, che proprio nel periodo reaganiano vivono il fermento della computer grafica, con la Disney pronta per la grande rinascita degli anni successivi. È il trionfo del cartoon infantile e delle storie pensate più per vendere gadget che biglietti, segno di un cambio di paradigma che non avrebbe potuto che manifestarsi sotto l’ala del reaganismo. È qui che i giovani incendiari dei decenni precedenti si riscoprono più organici che mai, come i vari Lucas, Spielberg e Zemeckis, abilissimi nel ricoprire la figura del regista/produttore che costruisce imperi economici a partire da mondi narrativi.

Gli Ottanta sono infatti gli anni delle conglomerate mediali, della diffusione del mercato home video, dei parchi a tema e dell’apertura hollywoodiana agli altri continenti. In questo senso è proprio l’animazione a rappresentare il genere più reaganiano di tutti, rendendo il film un tassello di una macchina da soldi assai più ampia e aperta a tutta la famiglia. Ma la Hollywood del divo mancato non esaurisce con questo la propria influenza sull’immaginario dei cinefili, tanto da riuscire a neutralizzare autori scorretti facendoli più o meno aderire al proprio canone. Accade allora che un regista scorretto come Verhoeven, ragazzaccio senza freni in Olanda, venga ridotto a cineasta fracassone in America (RoboCop, 1987); e che uno sinistrorso come Friedkin si riscopra guerrafondaio e favorevole alla pena di morte pur di continuare a lavorare (Assassino senza colpa?, 1987). Alla propaganda anti sovietica dei palestrati si affiancano dunque contenuti rassicuranti, di retroguardia o macchiettistici, destinati a un intrattenimento buono per tutte le stagioni che eviti come la peste il divieto ai minori, pena il fallimento dell’operazione. Non è allora un caso che dal mantra musicale e ideologico del Forever young emerga anche il principe degli eterni fanciulli, quel Robin Williams che nel 1980 interpreta Braccio di ferronel primo ruolo da protagonista della sua carriera.

Vuoi vedere che, in un contesto di tale infantilismo, la palma del divo reaganiano per eccellenza spetti a E.T? Di certo la biografia particolare non gli manca, e le attenzioni dei bambini nemmeno. Meglio lui o l’ottimismo innato di Williams? Difficile pronunciarsi, soprattutto dopo che il democraticissimo Good morning Vietnam (1987) ha fatto conoscere il secondo al grande pubblico e le leggi narrative hanno riportato il primo a casa sua. Forse allora bisogna tornare a quelle regole del gioco che il presidente aveva imparato a gestire, perché in effetti c’è chi, tra questi divi, un percorso uguale e contrario al suo lo ha fatto per davvero: divo prima, presidente mancato dopo. Questioni biografiche anche lì, perché uno nato in Austria potrà anche aver salvato gli americani dal temuto Predator, ma non potrà mai candidarsi alla presidenza. Come Reagan si era accontentato di ruoli minori, così Schwarzenegger avrebbe fatto con la California.

Governatore della California dal 2003 al 2013, Schwarzenegger si schiera ufficialmente nel 1988, quando supporta la campagna di Bush. A partire dagli anni Novanta comincia a ricoprire incarichi politici riguardanti principalmente la promozione dell’attività fisica.

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