Cibo raffinato per sopraffini palati e portafogli danarosi è lo stellato fil rouge che unisce Triangle of Sadness (Ruben Östlund, 2022) a The Menu (Mark Mylod, 2022), due tra i più sintomatici film di questo 2022. L’arte culinaria come metafora d’una società ormai polarizzata tra chi prenota per sborsare centinaia di euro in raffinate micro-porzioni e coloro, invece, disposti a tutto pur di trovare un boccone da mettere in tavola. La cucina, d’altronde, con le sue divise, ruoli e gradi, ben si presta ad allegoria di un piccolo efficiente esercito devoto al proprio indiscusso capo, votato al sacrificio pur di raggiungere il proprio obiettivo: la soddisfazione dell’esigente e altolocato cliente.
Se, in effetti, come sosteneva Feuerbach «siamo ciò che mangiamo», allora la globale élite multietnica, non più distinguibile dal colore della pelle o da titoli nobiliari ma esclusivamente dalla consistenza del conto, manifesta la propria superiorità attraverso questa forma di “razzismo culinario”; trasformandolo in una vera e propria ossessione gastronomica con i propri rituali, luoghi e perfino lessico. Ogni volta che Tyler – l’eccitatissimo protagonista di The Menu – ciancia di “palatabilità”, un accademico della Crusca muore. La Guida Michelin assurge a nuova bibbia per orientarsi tra ristoranti che dissimulano paradossalmente la loro esclusività sotto nomi il più possibile modesti e perfino sacri – osteria francescana, trattoria gesuitica, locanda spartana – come fossero luoghi adatti alla contemplazione e agli esercizi di spirito, più che al tintinnare delle forchette. D’altronde come gli antichi dei pagani si nutrivano esclusivamente di nettare e ambrosia così il cibo, rigorosamente biologico e santificato, proviene da remoti luoghi incontaminati o, come nel caso del ristorante dello chef Julian Slowik (un magistrale Ralph Fiennes), si trova su di un’inaccessibile isola disabitata, dove lo stesso staff vive in completo isolamento all’interno di camerate perché non è più sufficiente cucinare i prodotti della terra ma occorre coltivarli, allevarli, affumicarli, per avere il completo controllo della filiera.
Le proposte culinarie delle due cene sono, in effetti, radicalmente differenti: tanto ristretta ed esclusiva quella di The Menu – sei coppie di clienti per 1250 dollari a testa – composta di piccole, raffinate molecolari portate; quanto eccessiva e sovrabbondante la “cena del capitano”, evento clou della crociera nella quale vengono serviti piatti sovraccarichi di ostriche con caviale nero, ricci di mare con tartufo e olio di peperoncino, raffinate gelatine e polpo affumicato con limone caramellato; il tutto innaffiato da ettolitri di champagne. Anche lo stile è diverso: divieto assoluto di fotografare i piatti che vengono presentati ieraticamente da Slowik; mentre sulla crociera si può – anzi, si deve – ostentare sui social come se non ci fosse un domani. Entrambe le cene, in modi diversi, risulteranno davvero indigeste ai ricchi commensali non certo per la “fatale anoressica logica” del «quod me nutrit me destruit». Le due pellicole, infatti, si focalizzano non tanto su cosa ma su chi agisce per sovvertire e distruggere l’ordine costituito; poco importa che tutto inizi a causa di un fattore esogeno – la tempesta, l’assalto, il naufragio – oppure sia un meticoloso piano studiato nei minimi dettagli; in entrambi i casi sono i sottoposti, i “servitori”, a ribellarsi e a far partire la “vendetta”. Le regole di prima, cancellate nello stesso istante in cui il denaro diventa superfluo sullo scoglio dove occorre procacciarsi il cibo da soli.
Eppure, grattando sotto la lettura superficiale di una certa Critica, non c’è assolutamente alcuna lotta di classe in atto sulla crociera né sull’isola-ristorante, perché ne manca completamente la coscienza. L’hegeliano ribaltamento dei ruoli “servo-padrone” si è inceppato e non conduce neppure momentaneamente al potere degli individui moralmente superiori; anzi, pare invece certificarne l’impossibilità di miglioramento. Così la donna delle pulizie filippina vuole godere degli stessi privilegi che aveva il capitano appena si rende conto che – rediviva “signora delle mosche” – è l’unica in grado di pescare, accendere il fuoco e cucinare; mentre, d’altro canto lo chef e la sua piccola affiatata “setta”, dopo avere dedicato gran parte della vita a soddisfare una clientela che non merita alcun rispetto, s’immolano in una missione kamikaze votata al martirio proprio per non ricalcare i vizi e i modi di fare dei “padroni del vapore”. Una ribellione interiore, quasi casuale, non certo una rivoluzione nel nome della giustizia sociale come, invece, si poteva ravvisare in film come Nuevo Orden o Athena. In Triangle of Sadness e The Menu il conflitto è tutto interno al sistema e i protagonisti non sono portatori di una visione alternativa e, quindi, possono solo abbandonarsi a un “riscatto” che sfocia inevitabilmente in una cieca violenza.
Östlund, dopo aver demolito l’ipocrisia del mondo dell’arte in The Square, fa a pezzi quello della moda, riuscendo come sempre a far ridere nello svolgersi della tragedia. L’apocalittico siparietto tra il capitano americano e marxista (uno straordinario Woody Harrelson) e il capitalista dell’est che deve la propria fortuna alla vendita di letteralmente “merda”, è un indimenticabile pezzo di Cinema ma, anche, un esercizio retorico fine a sé perché le contraddizioni sono così evidenti da essere francamente insostenibili. «Siamo tutti uguali» campeggia all’inizio sul maxischermo della sfilata inclusiva, peccato che qualcuno sia più uguale degli altri e che gli si debba cedere il posto, facendo slittare l’intera fila finché qualcun altro non rimane in piedi, con il cerino in mano. Uno dei tanti modi in cui si può appiccare un incendio.