OGGETTO: La crisi della civiltà
DATA: 26 Aprile 2022
SEZIONE: Storie
FORMATO: Copertine
Il grido di allarme, e la tenue speranza di rivalsa di un grande storico e intellettuale conservatore Johan Huizinga.
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Negli anni Trenta gli spettri si addensano sull’Europa. L’Ancien Régime è crollato tra le trincee, i gas tossici e le mitragliatrici. Il Vecchio Continente, rimasto – secondo una celebre lettura dello storico Mayer – ancora legato pressoché integralmente alle strutture aristocratiche precedenti la rivoluzione francese, collassa con la Grande Guerra. Inizia a decomporsi. Le sue ferite si infettano. L’infezione si propaga e prepara il colpo di grazia definitivo. La prima fase della «Seconda Guerra dei Trent’anni europea», un «armistizio armato» tra le potenze europee, preannuncia il disastro di un nuovo conflitto mondiale. È in questo clima che si muove l’aristocrazia intellettuale della vecchia Europa. Humanitas quasi internazionale, che parla un linguaggio proto-europeista, seppure biologicamente conservatore: Zweig, Shaw, Bloch, Rilke. Proprio Zweig è uno degli ultimi grandi esponenti della letteratura dell’impero asburgico, prima vittima del cataclisma del 1914-1918. Il finale del suo disincantato Il mondo di ieri, è il lapidario testamento di una generazione di uomini di cultura inerte dinanzi alla fine del proprio mondo: 

«Tornando a casa osservai d’un tratto davanti a me la mia ombra, così come vedevo proiettata l’ombra dell’altra guerra dietro la guerra presente, e quest’ombra non ha più abbandonato da allora, ha sovrastato ogni mio pensiero, notte e giorno. […] Ma ogni ombra in fondo è anche figlia della luce…»

Una speranza neanche troppo velata. La sua Europa è ancora l’Europa dell’humanitas. Si è lontani dall’Occidente descritto nel Tramonto di Spengler, lontani dalle soluzioni di forza, dall’auspicato e preannunciato scontro per la sopravvivenza che si prepara nell’avvento di nuovi Cesari, al crepuscolo della civiltà euro-occidentale. Chi risponde però attivamente a Spengler, sul solco delle ombre e delle luci di Zweig, è il grande storico ed intellettuale olandese Johan Huizinga in un piccolo saggio-riflessione, edito nel 1935, poco prima della Seconda Guerra Mondiale. Il titolo originale è più inquietante de La crisi della civiltà (edizione italiana PGreco): si chiama Nelle ombre del domani. Le ombre di Zweig si riverberano in effetti sullo sguardo d’insieme di uno storico che, anziché osservare il passato, si rivolge al futuro. Scorge ombre opache, spesse, pesanti, ed auspica tuttavia ancora un mattino. 

La crisi della civiltà (PGreco) di Johan Huizinga

Il grido di allarme, all’inizio del libro, è perentorio e tremendo: «Noi viviamo in un mondo ossessionato. E lo sappiamo». La civiltà moderna è civiltà di decadenza, perché si avverte psicologicamente come tale. Rispetto all’ottimismo ottocentesco, alla semplice ansia del futuro del primo decennio del novecento, alla guerra che pure impone preoccupazioni, il dopoguerra pone la coscienza collettiva, inizialmente sedotta dall’attesa ottimistica di un futuro internazionalismo post-bellico, in una condizione di minaccia costante. Gli europei, e gli intellettuali in particolare, percepiscono di trovarsi in mezzo alla violenta crisi di una civiltà. Si richiama a Spengler, Huizinga. E poi rilancia, confrontando questa crisi con altre che pure si sono succedete nella storia. Tutte le crisi delle civiltà del passato furono contraddistinte da annunziatori di tempi migliori, oltre il giudizio universale e la fine del mondo. Dal richiamo ai valori del passato, al suo splendore e alla sua antica purezza. Il mondo di Huizinga guarda invece all’avvenire e non sa che farsene del passato:

«Vi è solo un avanzare, anche se talora ci coglie la vertigine davanti a profondità e lontananze sconosciute; anche quando l’immediato avvenire ci si spalanca davanti come un abisso circonfuso di nebbia.»

Nelle sue condizioni attuali la civiltà occidentale progredisce essenzialmente nei suoi aspetti materiali. Lo spirito contemporaneo rifiuta i “concetti metafisici invecchiati”, dell’onor di Dio, declinato negli ideali di giustizia, virtù e sapienza, che costituiscono l’impalcatura culturale di una civiltà. E in luogo di questi ideali edifica una somma di desideri tra loro contrastanti. Benessere, potenza, sicurezza, ordine e pace. L’istinto naturale predomina, non nobilitato dallo spirito. Secondo Huizinga, ciò equivale a riportare il concetto di cultura ad un livello animale, giacché la cultura:

«Si attua solo allorchè l’ideale che ne determina l’indirizzo è più elevato degl’interessi rivendicati dalla comunità stessa. La cultura deve avere un indirizzo metafisico; altrimenti non esiste.»

La conseguenza più pratica è la distanza tra valori spirituali e materiali. Macchinari efficientissimi che producono giornalmente prodotti “che nessuno desidera”. Lo stesso artista è inserito in questo meccanismo. Produce per la stampa giornalistica, per la moda. Il progresso, in sé divenuto un mantra e un ideale irrinunciabile – allora come oggi – si spinge all’inverosimile:

«Progresso è cosa delicatissima e concetto ambiguo. Può essere che un po’ più avanti lungo la strada, sia rovinato un ponte o si sia scavato un abisso.»

Il sintomo più inquietante per l’autore dell’Autunno del Medioevo è l’indebolimento del raziocinio. È un mondo iper-informato – e qui già il nostro Leopardi nella Palinodia lo aveva evidenziato oltre un secolo prima – capace di comprendere se stesso e il suo mondo meglio che in ogni altra epoca della storia. Un mondo più istruito. Eppure, Huizinga evidenzia i limiti di questo processo. Informato dei fatti del giorno in ogni momento, con una divisione del lavoro sempre più accentuata, l’uomo comune sta smarrendo la propria dipendenza dalle facoltà del pensiero. Contravvenendo alla diffusione sempre più ampia dell’istruzione pubblica, lo storico mette in luce come in presenza di un pensiero rivolto unicamente ad oggetti della propria sfera, si raggiunge un maggiore grado di autonomia, del tutto assente in decenni più organizzati:

«Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita ed il mondo […]. Dove capiva che non arrivava il proprio giudizio, s’inchinava all’autorità. Poteva, nella sua limitatezza, essere saggio.»

A tale impostazione, si oppone l’uomo medio occidentale moderno, che riceve ogni dose di cultura già confezionata, che implica noia e progressivo disinteresse. È un uomo abbandonato alle suggestioni di una cultura di massa a buon mercato. Cresce l’aspetto passivo. Cresce anche a livello sportivo, a cui la moderna civiltà ha dato un imponente impulso. Uno sport che si è ridotto – e oggi continua a ridursi – in semplice e passiva ricezione del gioco. Da sportivi si è divenuti spettatori. Spettatori del moderno cinema, riproduzione qualitativamente inferiore alla lettura e alla viva azione del teatro. L’istruzione è dunque una sapienza non elaborata, un intollerabile abbassamento intellettuale, secondo gli occhi di Huizinga. La fine del raziocinio è speculazione e banalità. Lo è anche, a parere dell’olandese, la nascente psicoanalisi freudiana, responsabile dell’abbassamento del giudizio critico. Le elaborazioni intellettuali post-freudiane vengono attaccate come: 

«Sciocche elucubrazioni con cui gli autori di operette popolari a fondo psicoanalitico pretendono di spiegare il mondo e gli uomini, e, contentandosi di “simboli”, “complessi” e “fasi della vita psichica infantile” ne traggono conclusioni e ci costruiscono su grandiose teorie!»

La filosofia, su queste ed altre basi, segue ormai le correnti dominanti. Si fa vitalistica. E dopo essersi faticosamente distaccata dalla fede, ritorna alla fede, nel progresso e in una indefinita scienza. La verità resta impenetrabile. Sufficienti sono le mezze verità. Il culto della vita in senso contemporaneo si traduce poi in un sempre più accresciuto senso di contrapposizione al nemico. Se, come ammette Huizinga, l’organismo è biologicamente attrezzato in vista di un atteggiamento bellicoso, ciò si è tradotto storicamente in molteplici scontri, nelle antiche civiltà spesso e volentieri contro il proprio male interiore. Nelle lotte per il potere ciò diviene la lotta ai concorrenti politici o economici. Ma lo slittamento verso un atteggiamento guerrafondaio – già crescente in Germania o in Italia – è espressione della percepita incolpevolezza dei soldati che, morendo, compiono il proprio dovere ascendendo al rango di eroi ideali. La guerra, che in passato ha rappresentato un mezzo per conseguire la pace, come in Agostino, ora diviene il fine e non più il mezzo. Huizinga critica anche Spengler, che in Anni della decisione, sembra definire come tale lo scontro armato:

«Le belve delle classi superiori sono creature nobili in tutta l’accezione del termine, aliene dalla menzogna della morale umana radicale nella debolezza.»

Il male scristianizzato, gira a vuoto. Si identifica in ogni cosa. Si assolutizza in concetti limite, in scontri totali. La lotta contro il male interno passa del tutto in secondo piano. E se le statistiche comparative dei crimini commessi non dicono nulla del senso interno e dell’etica di una civiltà, per Huizinga è il senso del dovere legato ad una norma religiosa o metafisica a condizionare la moralità in genere. Ma allora, si chiede:

«Che cosa rimarrà mai a fungere da fattore universale direttivo, quando esso non sia più una fede trascendentale, fissa a una salvazione ultraterrena e ultramortale, né un pensiero ricercatore della verità, né una morale umana universale che, riconosciuta come sistema chiuso, comprenda in sé i valori di giustizia e misericordia?»

Fine della metafisica e della ragionevolezza al tempo stesso. Le ombre che si addensano sull’Europa di Huizinga sono costellate da un puerilismo crescente. Nello spettacolo costante. In una vita organizzata e confezionata. La massa vive in una semilibera esaltazione, gli uomini sono come fanciulli in una fiaba. La fiaba della pubblicità che si traduce in propaganda politica. Una propaganda politica che alimenta la superstizione, che rende credibile l’inverosimile. Così a Versailles, nel 1919, l’armistizio armato che preannuncia nuove guerre. Ci si arma ancora. Un monito ancora attuale:

«Applicando gli ultimi risultati della scienza e della tecnica, esaurendo tutti i mezzi finanziari del paese, si costruisce una potenza navale, terrestre, aerea, e poi si spera appassionatamente (per lo meno la gran maggioranza lo spera) di non doverla adoperare.»

Ecco la grande superstizione. Huizinga coglie i segni di una prossima apocalisse in terra, con il suo disilluso raziocinio da intellettuale conservatore, di spiccata fede protestante, fedele ai propri antichi ideali. Propone infine una soluzione. Una soluzione fatta di pensiero, poesia, cura, protezione. Di vita umile, che nulla sa della lotta tra le civiltà. Nella speranzosa ed imperturbabile costruzione del futuro, silenziosa, con i mezzi che ci son dati. Si rivolge alla giovane generazione dei propri tempi, Huizinga, immaginandola in grado di «tornare a dominare il mondo, così come vuole esser dominato, di non lasciarlo perire nell’orgoglio e nella follia», anziché, nuovamente, tra i campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale, tra le rovine dell’Europa.

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