OGGETTO: L'Italia vive nella contea
DATA: 18 Aprile 2024
SEZIONE: Società
FORMATO: Visioni
AREA: Italia
Le cariche della polizia durante le proteste a favore della popolazione palestinese danno ancora prova di un'Italia stretta tra i necessari dettami dell'Alleanza Atlantica, ai quali sembra essersi volente o nolente asservita. Al di là del fattore umanitario le manifestazione pubbliche non convergono verso alternative credibili, così oggi il Paese ha una collettività svuotata, priva di senso della storia e della realtà. Una Contea di Hobbit che fa fatica a risvegliarsi dal proprio torpore.
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Compiuta la missione di distruggere l’Unico Anello, ripristinata l’autorità della monarchia di Gondor e dei suoi soci, la Compagnia dell’Anello – come narrato da J.R.R. Tolkien – prende la via di casa nell’ultima parte del Signore degli anelli. Gli Hobbit in particolare, al termine di un percorso di crescita spirituale e, nel caso di Merry e Pipino, anche fisica, tornano nella placida tranquillità della Contea. A sconvolgere il loro rientro a casa è l’arrivo di Saruman, il quale ha trasformato la paradisiaca terra degli Hobbit in un prototipo di società industriale avanzata, con grandi palazzi e fabbriche in grado di inquinare e smantellare l’ecologia della comunità.

Colpisce, oltre all’afflato ecologista, la nota di consapevolezza di cui solo chi, come Frodo e i suoi amici, ha dovuto affrontare drammaticamente la realtà e la storia, può rendersi conto: la Contea è completamente disabituata alla guerra. I suoi abitanti hanno accolto passivamente il dominio di un potente straniero, perché incapaci di concepire qualsivoglia capacità di rivolta o di sollevazione popolare. Alla fine, sono coloro i quali hanno visto la realtà e la vita dispiegarsi nel pieno della loro crudeltà, a salvare la Contea da Saruman, risvegliando gli Hobbit dal loro torpore anti-storico.

L’Italia vive come una piccola contea di Hobbit da almeno mezzo secolo. Fuori dalla realtà, al di là del tempo, con la compagnia di altri Paesi dell’Europa occidentale, Germania in primis. Si è disabituata al conflitto e alla violenza, interna o esterna. Le concepisce come estranee e perlopiù da evitare o da respingere. Pone in atto una visione pacifista che è più simile ad una ricerca del quieto vivere che ad un più complesso modo di agire nel mondo. Oggi in Italia convivono due visioni parimenti indicative dello stato di salute della nostra comunità, intesa come comunità sovrana e coerente.

Da un lato l’assoluta e cieca obbedienza alla Nato e all’alleato (tra mille virgolette) americano, con relative politiche di totale asservimento agli “alleati”. Più filo-israeliani degli stessi israeliani (secondi forse alla sola Germania); totalmente a sostegno (peraltro più a parole che nei numeri) dell’Ucraina, dimentica dei suoi rapporti spesso amichevoli con la Russia e con i Paesi arabi. Eppure, risulta impossibile concepire concretamente di divincolarsi dall’Alleanza Atlantica e dal sostegno ad Israele, altrettanti elementi atti a blindare il governo e a permettere a Giorgia Meloni di promuovere un deciso cambio di passo, manifestatosi in termini di politiche restrittive, di controllo della stampa, di repressione del dissenso (quest’ultimo, ad onor di cronaca, di cui si sono fatti complici governi di ogni colore nella nostra recente storia nazionale).

Il sovranismo semplicemente non esiste, nè è mai esistito in Italia, se non per il sussulto – a tratti anche patetico – del primo governo Conte. Fa riflettere che un governo campione di patriottismo e dell’apparente interesse nazionale, oggi sia perfettamente in linea con i precedenti. Come a dire che, in fondo, contano poco o nulla il colore politico e la politica in generale. L’Italia vive specialmente della propria condizione antropologica e sociale. Nessun governo si è  mai realmente distaccato da una continuità di atteggiamento che, lungi dal rispondere a fantomatiche ed inesistenti ideologie, segnala che a contare maggiormente nella traiettoria di una nazione siano gli elementi strutturali e non gli orpelli, spesso esaltati a livello mediatico.

Se da un lato vi è la linea ufficiale – e in fin dei conti l’unica possibile – dall’altro lato vi sono le piazze, le università, i piccoli e grandi partiti anti-sistema. Una folta schiera di studiosi, di studenti, di lavoratori, spesso di giovani che esprimono il proprio dissenso e il proprio sostegno – ad esempio, ma non solo – alla causa palestinese. Sovente fronteggiando una repressione che sta avvenendo peraltro in misura anche maggiore in altri contesti come la Germania, strangolata dal senso di colpa e ancor meno capace di decidere del proprio futuro. Ciò che manca a simili manifestazioni, al di là dei risultati conseguiti in contesti universitari, è una visione a lungo termine.

Una consapevolezza storica che non può ridursi alla mera pace per la pace. Anestetizzata da decenni, la popolazione italiana si lascia trasportare dal vento in un oceano di cui non conosce nulla né l’estensione, né la profondità, né gli eventuali porti di approdo. Difficile immaginare un passaggio di consegne più netto e drammatico di quello che, sul finire degli anni Settanta, condusse l’Italia al proprio precario stato di salute attuale. Fino alla fine degli anni più duri del terrorismo nero e rosso e a partire dal governo Craxi, l’Italia fu espressione di velleitari sussulti e di una politica estera favorita dalla propria posizione di alleato e vassallo di confine dell’Alleanza Atlantica.

A partire dalla sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale mascherata da vittoria, in cui pure si ebbe l’ardire, da parte di Alcide de Gasperi e Carlo Sforza, di reclamare i territori istriani e la Tripolitania, in quanto popolati da italiani e conquistati prima del ventennio fascista, l’Italia ha espresso in una forma edulcorata ma oggi impensabile, l’ultimo fiore della propria giovinezza geopolitica e della propria vitalità interna.

Gli anni Cinquanta sono caratterizzati da una generazione che, lungi dal dimenticare il Risorgimento e la Grande Guerra, ricostruisce quasi a mani nude la nazione distrutta, capitalizzando gli ingenti – e corruttori – aiuti americani. Si esprime anche attraverso l’ultimo grande partito nazional-popolare, quel Partito Comunista Italiano, unico insieme al Movimento Sociale a presentare il tricolore nel proprio stemma, quale vettore di influenza e di raccordo con l’arcinemico non così nemico della Russia Sovietica.

Roma, Aprile 2024. XVII Martedì di Dissipatio

In perfetta continuità con le politiche liberali e fasciste, l’Italia è allora in grado di muoversi quasi in libertà nel Mediterraneo. Baratta la presenza demografica in Libia con il dominio economico di Eni dopo l’avvento di Gheddafi. Opera politiche energiche – carenti sotto il profilo dell’operatività militare – in tutto il mondo arabo. Fino agli anni Ottanta l’Italia tenta di andare al di là dei propri mezzi e delle proprie possibilità, inconsapevole di nutrire al proprio interno il germe della propria progressiva perdita di autonomia e di volontà, oggi evidente. Ancora nel 1968, commentando – nel saggio La diplomazia italiana e gli equilibri mediterranei – l’attivismo di Fanfani nella questione israelo-palestinese, venne definita la sua politica della “presenza” come: «Quasi patologica necessità di giocare un ruolo nelle relazioni internazionali anche quando questo ruolo può essere chiaramente al di là dell’interesse, dei mezzi e delle capacità dell’Italia.»

Tale politica è figlia della linea filo-araba di cui si fecero promotori Enrico Mattei o Giulio Andreotti, con Craxi a rappresentarne l’estrema sublimazione nel proprio sostegno all’Autorità Nazionale Palestinese. Sembra passata un’era geologica da simili frangenti. Intanto le esigenze strategiche italiane, riassunte nella necessità di controllare i mari rivieraschi e dunque di disporre di una profondità strategica nelle sponde opposte del Mediterraneo (così in Libia o in Algeria), hanno lasciato oggi il posto a dichiarazioni più o meno velleitarie. Tra Piani Mattei e fantascientifici Ministeri del Mare. Con le piazze che, oltre a convogliare le giuste istanze di condanna verso lo sterminio in corso a Gaza, non sono più in grado – perché svuotate per cause esogene ed endogene della propria natura violenta – di convertirsi in un processo di mutamento antropologico; in un distanziamento progressivo ed effettivo dai propri protettori; nell’avvio di una seria politica mediterranea, tale da farsi carico di una revisione dei rapporti con il mondo arabo, promuovendo un atteggiamento di reale supporto alla causa palestinese, per ragioni umanitarie ma anche tattiche.

Fu attraverso le piazze che, ancora tra gli anni Sessanta e Ottanta, si espresse l’ultimo respiro di vitalità generazionale italiana. Così nell’esigenza di un cambio di regime, in un terrorismo che se separato dalla ancora forte vitalità di intere schiere di giovani rimane di difficile comprensione.

Nella violenza – che smentisce ogni chiacchiera in merito all’incapacità italiana di scendere in piazza – si è manifestata la volontà ancora profondamente storica di un’intera popolazione, non ancora lobotomizzata dal benessere economico e dalla repressione. Convertitasi nel consumismo sfrenato degli anni Ottanta e Novanta, nella Milano da bere e nella trasformazione della controcultura giovanile, di cui si fecero promotori anche i movimenti ultras, in valvole di sfogo incoerenti, nell’esplosione della criminalità dei Vallanzasca e della Mafia Veneta, nella diffusione di droghe e di comportamenti trasgressivi privi della volontà di cambiamento sociale.

Quella stessa generazione e i loro successori, che rappresentano oggi la percentuale maggiore di popolazione, cuore di una vecchia Italia priva di valori, avulsa al combattimento, abituata al benessere e reclamante lo stesso al di là di ogni seria considerazione sul futuro nazionale e non solo, ha finito per assorbire mentalmente in parte le – poche – schiere di giovani. Le stesse che, pure, nelle piazze scendono ancora, venendo criticate e represse, specialmente da chi quelle piazze le ha progressivamente rifiutate e poi annichilite. Pur sapendo che tali manifestazioni non sono che semplici increspature. Non segnalano alcun cambio di passo o di rotta.

Scrive Tolkien, all’inizio del Signore degli Anelli, come gli Hobbit si fossero completamente dimenticati della guerra. Abituati al ben vivere e al lento scorrere del tempo. Rispetto alla Contea però, resta difficile immaginare un Frodo, un Merry, un Pipino, un Sam che abbiano la forza di restituire consapevolezza alla collettività italiana, dopo aver visto con i propri occhi che, al di là del nostro artificioso paradiso, il mondo cammina con evidente sonnambulismo verso la catastrofe.

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