Così come la nottola di Minerva non riesce che a voltarsi verso il crepuscolo così da parte di talune parti di mondo ci si aggrappa con foga e forza a concetti di ordine internazionale, di regole e pacifica convivenza nello stesso momento in cui la Storia ne smentisce una effettiva concretezza politica e di senso. Ciò appare strano persino per la coscienza morale di un qualsiasi uomo di strada, delle molte europee ed occidentali, sfiorato dagli eventi di questi ultimi anni. La sua parte di mondo non è in fondo distante da quella pre-1789, quando il dibattito filosofico e culturale in voga nella nobiltà francese ruotava attorno alla naturale bontà dell’uomo.
Un mondo che svicola, che maschera la fine, il nichilismo, il vuoto del proprio ordine con un principio di realtà fittizio che in verità non spiega niente della guerra, del riarmo, delle richieste di sicurezza che provengono da ogni Stato della terra. Della fine di quel sostrato morale da cui tutto il diritto internazionale ha sempre tratto la sua forza e che si rivela oggi, dal Sudafrica all’Antalya diplomacy forum, misera parte parziale, contendente in una lotta che non avrebbe dovuto neanche esserci in realtà. Proprio questa lotta ne mostra infatti l’origine, la finalità, la politicità che si è voluta mascherare con l’ispirazione universalista e che nelle rovine di Gaza trova anche le proprie: la fine della la fede di miliardi di persone nel diritto internazionale, usando le parole di Erdogan.
Retorica certamente, eppure evidenzia in modo efficace (perché pur sempre si parla di concetti morali) la crisi della pretesa di legittimità universale in cui il sistema si sta avvitando. E che si aggraverà senza ragionevoli dubbi sulla risoluzione del caso Sudafrica v Israele, a prescindere da ogni esito e decisione della Corte Internazionale di Giustizia, se gli effetti della decisione saranno nulli, come al momento rimangono nulli gli appelli, le dichiarazioni e le risoluzioni.
È dunque curioso in questo contesto, a proposito della nottola di Minerva, l’uscita di un articolo di Foreign Affairs intitolato L’era dell’a-moralità del politologo Hal Brands che si chiedeva, citando una massima del teologo Niebuhr (quanto male dobbiamo fare per il bene) se fosse possibile, alla luce degli ultimi sviluppi, salvare il sistema liberale internazionale tramite metodi illiberali. Egli afferma a tal proposito che “gli interessi americani sono indissolubilmente legati ai valori americani: gli Stati Uniti tipicamente entrano nella competizione tra grandi potenze perché temono che potenti autocrazie possano altrimenti rendere il mondo insicuro per la democrazia”.
Il dilemma morale tipico americano e del diritto internazionale non si può derubricare fino in fondo a propaganda o a persistenti lasciti idealisti poiché è reale, è in effetti legato ad una politica estera concreta e ad un universalismo imperiale. I valori invero non si possono slegare dagli interessi reali della politica, a maggior ragione se si ammette nel caso americano che lo sviluppo dei valori liberali precedono la formazione stessa di uno Stato (tanto che Hegel scrisse, nell’introduzione alle sue Lezioni sulla filosofia della storia, che ancora all’epoca della prima dottrina Monroe gli Stati Uniti non erano uno Stato, bensì si trovavano al livello della società civile ovvero nella condizione prestatale della libertà degli interessi).
Valori però che di per sé, come scrive anche l’autore, non possono essere effettivi senza essere universali. Essi non presuppongono, come pur pensa Brands parlando delle sfide autoritarie al sistema liberale, un Fuori visibile ed inviduabile, ovvero un luogo specifico, distinto, qualitativamente parlando, dall’ordine liberale bensì solo un Dentro, uno spazio indistinto in cui anche le autocrazie sono ricomprese. Di fatto il politologo afferma che “oggi accordi poco decorosi possono talvolta portare a risultati migliori. Non interrompendo l’alleanza tra Stati Uniti e Filippine durante la guerra alla droga di Duterte, Washington ha mantenuto il rapporto fino a quando non è emerso un governo più cooperativo e meno draconiano. Rimanendo vicino a un governo polacco con alcune tendenze preoccupanti, gli Stati Uniti hanno guadagnato tempo fino a quando, alla fine dello scorso anno, gli elettori di quel paese hanno eletto una coalizione che prometteva di rafforzare le sue istituzioni democratiche.”
In questo Dentro ogni azione è a-morale per definizione, perché non esclude mai, non definisce altro da sé ma è fatta per integrare, per quanto la prospettiva sia futura. In questo senso si può anche leggere la partecipazione pressoché globale ai trattati sui diritti umani, che sconfina spesso nel grottesco dal punto di vista dello stesso sistema internazionale, il quale assiste allo sconcertante spettacolo di un Iran presidente di turno del Forum Onu dei diritti umani (e da non ultima ad un’Arabia Saudita a capo dei lavori della commissione Onu sui diritti delle donne). Il principio di realtà che viene introdotto è così meramente la giustificazione di un presente stato a-morale nell’ottica di una futura Unità integralmente morale, in cui la guerra e le politiche di potenza siano naturalmente espunte.
Come si è detto poc’anzi suddetto Dentro è anche reale, oltrechè valoriale, in quanto si può identificare con la sostanza indifferenziata degli Stati del mondo. Sostanza che è in sé, o che si mostra come tale, moralmente neutra. La neutralizzazione etica è essenziale al mantenimento dell’ordine politico, come già diceva Schmitt, del suo funzionamento meccanico in quanto fondante, nella Modernità, interamente sulla sua stessa efficacia. La neutralità garantisce l’ordine e l’ordine garantisce la neutralità. Traslato alla dimensione internazionale attuale la sopravvivenza e la potenza nello Stato si può dire siano la stessa cosa. Essi si danno nello stesso istante. Ovvero uno Stato, nel mondo attuale di Stati, non può semplicemente sopravvivere a sé stesso, non può fissarsi definitivamente, poiché in ogni caso è informato di una natura umana che è viva ed in continuo mutamento. Non può fissarsi dunque semplicemente per non subire le forze rivoluzionarie. Esso deve continuamente condurre oltre sé stesso, o dare l’impressione di farlo, identificandosi con quel principio di Natura che designa, indica, l’Oltre immanente della modernità. Mantenendo sé come centro moralmente neutro, appiattendo ogni differenza etica, lo Stato conserva il monopolio di quel principio di Natura che è in fondo l’azione di autotrascendimento del singolo individuo. Il rimando a quell’ Oltre è dunque l’unica fonte della sua legittimità.
Un Oltre che è ricompreso in sé stesso, dunque in quella stessa neutralizzazione. Sopravvivendo, garantendo l’ordine, lo Stato produce così la sua sostanza senza limiti e confini, stabilendo in modo certo ed incontrastato la non-esistenza di un Fuori visibile ed affermando di contro un Dentro indefinito nel quale esso si ri-produce costantemente. Niente si crea ne si distrugge ma tutto si trasforma, o meglio, compenetra. Dunque l'(auto)difesa e il congelamento dei confini persiste perfettamente, nel moderno Principe, con la proiezione del proprio Sé universale, nel paradosso che ad un radicamento su di una linea artificiale di sovranità corrisponde il vagare senza meta per il mondo. Gli Stati fluttuano in verità. Hanno interessi da ogni parte, si approvigionano in ogni luogo, hanno uomini in ogni Continente e organizzazione internazionale. Come può ad esempio in quest’ottica il Mediterraneo limitarsi ad una misura allargata? Avrà sempre un Oltre ulteriore che è in fondo quell’orizzonte senza orizzonte solo nel quale lo Stato può pensarsi. Una auto-trascendenza della propria immanenza che può essere possibile perciò rimanendo in confini pre-stabiliti, nel rifiuto e nella negazione della guerra. Nella squalificazione costante di quella stessa violenza che è necessaria allo Stato per mantenersi in forma, per mantenersi all’interno di quel principio di Natura. Dunque la pura potenza statale è tale per essere negata, come già dicevano quelli di Tiqqun, e non esiste di per sé se non per necessità, ovvero nel qual caso della costante possibilità della guerra, sia interstatale sia civile. E’ ben chiaro dunque come in fondo lo Stato desideri la propria impotenza, aneli alla scomparsa di quell’originario nucleo di violenza che persiste nello Stato stesso. Dall’altra parte questa tensione (che si da ogniqualvolta all’interno dell’atto statale) tra sopravvivenza e potenza chiama ad una continua violazione dei confini e dell’ordine politico interno tale per cui la sua azione sarà per evitare, contenere in ogni luogo suddetta violazione. Per negare la sua stessa necessità. Lo stato di natura non è individuabile in un Fuori, ma solo come idea, come possibilità immanente che persiste poiché ricompreso nell’ordine statale. In questo senso “lo Stato presuppone ciò che esso produce“, esso è inseparabile dallo stato di natura. Lo Stato anzi è presente, esiste solo laddove esso stesso sia assente. In questa negazione assoluta lo Stato non è più il Leviatano, poiché perlomeno al tempo di Hobbes lo stato di natura era individuabile concretamente nelle Americhe, ma bensì si avvicina di più al Dio di Spinoza descritto nell’Etica. Un Dio assolutamente immanente nel cui Dentro infinito, che è la Natura, la potenza (intesa come azione) corrisponde totalmente all’essenza di Dio, quindi alla sua esistenza, così come nello Stato potenza (come capacità di un rimando al principio di Natura) e atto si danno nello stesso istante, costituendone l’essenza, dunque l’esistenza. In uno Stato che sia tale l’atto ha già in sé la potenza e viceversa
In questo senso il Dio della filosofia spinoziana può agire solo per sua stessa natura, ovvero solo per necessità, evitando qualsiasi determinazione esterna, che sarebbe in contraddizione con la natura divina (il Dio spinoziano non ha di fatto ne volontà ne intelletto). La libertà divina è di fatto agire secondo necessità. Dall’altra parte lo Stato lotta invece per evitare di essere determinato, di essere deciso, da qualcosa d’altro che non sia se stesso, dunque non può tramutarsi nella contemporaneità, neanche allegoricamente, in un magno homine, non può impersonificarsi, non può avere la volontà propria di una persona (com’era nell’ancien regime). La sua iconoclastia e la furia verso ogni eccessiva personificazione del potere (da cui l’ostilità intrinseca, nello Stato liberale, verso le autocrazie) è la logica conseguenza di un moto infinito e costante che può svolgersi solo al suo interno, ed è parallela ad una iconoclastia propria della società, incapace di sopportare ciò che è altro da sé, ovvero tutto ciò che si erge in fronte alla auto-determinazione della società, evidenziando ancora una volta come la legittimità dello Stato contemporaneo si giochi nello spazio equivoco (perchè celante) del principio di Natura. La sostanza infinita degli Stati del mondo invece agisce nella negazione della stessa necessità di mantenersi in potenza, mostrando così l’originaria artificialità della propria natura (e svelando dunque come lo Stato debba sempre riconfermare una certa aderenza tra l’atto e la potenza). La Natura del Dio mondano è interamente artificiale, cosicchè ogni geometria e idea politica, ogni linea di sovranità, per sua stessa essenza, è impossibile che si limiti ad uno spazio particolare, che è ciò che Schmitt non ha compreso riguardo alla dottrina dei Grandi Spazi (e che rappresenta in fondo la difficoltà di ogni razionalizzazione se si pretende che essa avvenga in un mondo già razionalizzato, poiché artificiale, al massimo; mostrando il paradosso dell’opera di razionalizzazione americana che se da una parte prova ad abbandonare la Terra dall’altra non può che abbracciare il Mare anti-razionalizzatore per eccellenza, come si è già visto riguardo a Taiwan).
L’artificialità è celata dal fatto che la sostanza statale si dà, nel monopolio della violenza, anche per quello della potenza, innanzitutto quella che pertiene ad ogni singolo individuo (di ogni monade direbbe Leibniz). La potenza di autotrascendimento, di evasione dalla contingenza come già detto, è di ogni uomo moderno, ed un suo pieno dispiegamento è possibile solo all’interno della sostanza statale e dell’ordine che essa crea (“per sicurezza non intendo qui solo la preservazione, ma anche tutte le altre soddisfazioni di questa vita che ognuno potrà acquisire con la sua legittima industria, senza pericolo o danno per la Repubblica”). L’individuo contemporaneo è così, seguendo Spinoza, un modo della sostanza statale nella misura in cui è la modificazione degli attributi della sostanza, attributi che non sono l’estensione e il pensiero (in quanto lo Stato è in verità il negativo di un’ idea di sostanza) ma l’obbiettivo che curiosamente lo stesso Spinoza indica nell’Etica, ovvero la piena, razionale consapevolezza delle cause del mondo, la liberazione da ogni passione e affezione, da ogni determinazione. In ultima parola la neutralizzazione etica la cui potenzialità è fatta propria dall’individuo in quanto corrispondente ad una auto-determinazione massima che però deve essere, oltrechè promossa, continuamente affermata (dallo Stato), poiché essa è in tutto dipendente dalla violenza che vuole squalificare. Una potenza mondana contemporanea non può che assumere questa finalità come propria: l’unione con un piano di immanenza che ne esaurisca il moto. E’ il desiderio di un tutto che è in verità del proprio nulla, una potenza massima che è impotenza massima.
Può bastare dunque il realismo oggi, quando si analizza la politica internazionale? Come si è detto, il potere si può mantenere solo in una dimensione oltre sé stesso che è allo stesso tempo universale e immanente. Non può essere definito, circoscritto. Sia a livello pratico che teorico deve monopolizzare quella tensione propria del singolo, potendolo fare solo celandosi, mascherandosi con la Natura. Saturandola con la rappresentazione di sé. La storia dello Stato è quella della sua finzione, della sua auto-rappresentazione.
Il realismo non può spiegare, o meglio interpretare alla luce di due nudi poli (sopravvivenza e potenza nell’ottica dell’interesse nazionale) solo l’evento concreto in sé. Non può dare un senso alla catena di eventi, all’orizzonte dell’azione di uno Stato perché invero sul lungo periodo essi si confondono, si ribaltano, si danno in unico continuum. La traiettoria di uno Stato allora si può spiegare solo alla luce di questa pretesa, di come si declina la pretesa di monopolio della potenza per come lo si è inteso. Monopolio che non può che vivere in uno stato di natura anarchico, in quanto come detto presupposto dello Stato. L’anarchia internazionale non è invero l’ostilità di un Fuori disordinato ma è la natura interna allo Stato inteso nella sua globalità. E’ una realtà perfettamente e interamente ordinata che se non sembra tale è solo per il fatto che l’ordine politico, e lo Stato, essendo dappertutto, è presente, ancora una volta, solo dove esso è assente. E dunque, essendo dappertutto, chiama ad una sua continua violazione. Invero l’anarchia, come possibilità, è ciò che costituisce lo Stato e ciò che allo stesso tempo lo rimanda sempre alla sua contingenza, cosicché esso è in verità la finzione di una sostanza. La contingenza svela la natura violenta del suo esserci. Il monopolio della potenza è di contro ciò che permette il suo rappresentarsi come Natura, dunque la sua necessità e eternità. Contrariamente al Dio spinoziano lo Stato si deve dunque mantenere continuamente in questo stato di Natura che solo nella sua pluralità può sussistere, così come il punto è attraversato da molte linee, da infinite prospettive che infine lo costituiscono, assumendone infiniti centri. Dunque lo Stato è un essere-realtà indipendente e allo stesso tempo inevitabilmente costituito dalla sua spazialità e particolarità, sicché ogni Stato concorre alla costruzione (e costante decostruzione) globale di questo essere, di questa Natura molteplice e unica.
Solo in questo orizzonte (che indica nel suo essere globale l’Oltre, il realizzarsi di un principio di Natura che usaurisca ogni altra possibilità, e la sua stessa) ogni Stato può agire nella dimensione del monopolio della potenza che, per l’appunto, non conosce altro che un interno sconfinato. Sono molti Dentro quelli che si scontrano e si sovrappongono nel mondo odierno, mano a mano che il potere dell’egemone scema. Una dimensione, quella della potenza, che non è meno concreta o realistica in quanto, se venisse meno, o meglio se la dimensione della violenza e quella della potenza si autonomizzassero, la possibilità concreta è infine quella della guerra civile, dell’emersione delle differenze etiche interne e trasversali ad ogni Stato (da notare l’interessante taglio declinista in alcuni ultimi film americani tra cui quello prodotto dai coniugi Obama, “Leave the world behind”. Il realismo come chiave di lettura è perciò, in un certo senso, la tattica delle relazioni internazionali, ed è quello che implicitamente dice anche Brands.
La strategia, la traiettoria, l’esserci di uno Stato, di contro è un dover essere della realtà (o meglio un essere-realtà) e risponde ad un monopolio della potenza che ha come oggetto quel principio di Natura (da cui la lotta attorno a concetti come l’autodeterminazione, il divieto d’aggressione, l’integrità e inviolabilità dei confini, la democrazia e i diritti umani come stantard di diritto internazionale, tali per cui anche note autocrazie si proclamano Repubbliche ecc…) il quale infine non può che essere aderente all’uomo. Se l’uomo infatti, come diceva Hegel, è uscita dalla sostanza divina, dunque è determinazione che procede sempre per negazione, lo Stato nel suo compimento storico è l’autonomizzarsi (o l’automatizzarsi) di questa negazione, che arriva a negare sé stessa. E’ la sostanza artificiale che si fa uomo, la meccanica che si fa anima.