«Quando Spengler, nel noto passo, metteva in guardia contro ogni tentativo di espansione verso la Russia per motivi spaziali, aveva ragione, come nel frattempo abbiamo avuto occasione di vedere».
Così scriveva Ernst Jünger nel proprio diario il primo aprile del 1945, nell’imminenza del disastro militare tedesco. Il famoso passo spengleriano cui Jünger fa riferimento arriva da Anni della decisione, l’ultima opera del pensatore di Blankenburg in cui egli – con tutto il disincanto della maturità e con una lucidità unanimemente riconosciuta – indaga le prospettive della politica mondiale e attualizza la fenomenologia del declino. Poiché per Spengler le civiltà scaturiscono da un’anima, egli ritiene, confermando quanto scritto nel Tramonto, che proprio dall’’anima russa’ sorgerà la nuova civiltà destinata a rimpiazzare quella occidentale ‘faustiana’.
Questa convinzione che la Russia darà inizio a una nuova civiltà non lo abbandonerà mai; un’idea non nuovissima e propria, tra gli altri, a Leibniz, pur se in maniera ‘inversa’ rispetto a Spengler: mentre il primo guardava a una Russia in via di occidentalizzazione, il secondo riteneva quest’ultima un corpo estraneo. L’altra idea che difatti accompagnerà sempre il pensatore tedesco è quella di una Russia ‘asiatica’, impenetrabile allo spirito occidentale, di una Mosca «carica di mistero e completamente inaccessibile per il pensiero e il sentire occidentale». Ma, fermo restando questo principio, in Anni della Decisione egli si soffermerà piuttosto sulla questione strategica; questione che potremmo definire, con un termine alla moda, ‘geopolitica’, se questo termine non abbracciasse un orizzonte decisamente meno vasto di quello spengleriano.
Spengler individua infatti la forza della Russia nella sua vastità. Tutta la regione a Ovest – Ucraina compresa – è una spianata che la rende inattaccabile. Qualsiasi offensiva occidentale cozzerebbe contro uno spazio vuoto. Il territorio sconfinato della Russia risulta praticamente inespugnabile dall’esterno; chiunque decida di aggredirla non potrà mai controllarne i punti nevralgici, a maggior ragione dopo che i bolscevichi hanno deciso di spostarne il nucleo sempre più verso est. Tutto lo sterminato territorio a ovest di Mosca, da Riga a Odessa, costituisce un bastione vastissimo che «priva di qualsiasi senso l’ipotesi di un’offensiva da Occidente». Nel ’45 questo passaggio non poteva non apparire a Jünger in tutta la sua drammaticità: l’immenso fronte aperto con l’Operazione Barbarossa e la dispersione di forze colossali erano la dimostrazione plastica del monito di Spengler.
Ma tutto ciò si ricollega al discorso sull’anima russa, che egli tratteggia in alcune famose pagine del Tramonto. Essa è qualcosa di radicalmente altro; la Russia è Asia: il sentimento del russo di fronte alla vita è quello di un nomade, continuamente sospinto verso la pianura sconfinata. L’occidentale solleva gli occhi al cielo, lo sguardo del russo si perde nella pianura illimitata. Le grandi riforme occidentalizzanti di Pietro il Grande hanno dato vita a una creazione artificiale e spuria, estranea al vero spirito russo. In termini spengleriani è una pseudomorfosi storica: semplificando, ciò accade quando un’anima si “riveste”, per una sorta di sudditanza o bisogno di imitazione, di forme che non le sono proprie e in definitiva estranee; questo elemento sarà sempre tuttavia avvertito come avulso fino all’eventuale ‘esplosione’ dell’autentica natura di una determinata civiltà. Una artificiosità rappresentata in modo evidente per Spengler da Pietroburgo, cui si oppone Mosca, la città dell’autentica anima russa (consimile è l’opposizione Tolstoj-Dostojevskij, che alcuni ideologi del Cremlino, evidentemente non ignari di Spengler, hanno di recente ripreso, screditando il primo ed esaltando il secondo).
Ciò secondo il pensatore tedesco chiarisce molti aspetti della storia russa: ad esempio la guerra contro Napoleone vissuta come una “guerra santa”, oppure «l’odio degli slavofili osservanti contro Pietroburgo e il suo spirito». Dell’anima russa fa infatti parte anche una oscura e indecifrabile propensione verso Sud: una «silenziosa tendenza verso Gerusalemme e l’interno dell’Asia Minore». Già nel Tramonto si parla di una tendenza verso il «Sud sacro». Per tale motivo, «il nemico sarà sempre quello che sbarra questa strada».
L’«istinto nazionale, pressoché inconsapevole, di tutti i Russi si dirige contro qualsiasi Potenza minacci di sbarrare politicamente la strada che attraverso Bisanzio conduce a Gerusalemme».
Si spiega così perché gli insuccessi in Oriente – tra tutti, la guerra russo-giapponese – siano stati vissuti come quasi insignificanti rispetto a insuccessi molto meno gravi in Occidente. Un tema, anche questo, che appare decisamente attuale.
Il petrinismo rimane dunque un corpo estraneo cui il bolscevismo non ha dato il colpo di grazia, anzi: il bolscevismo è Pietroburgo. E qui la dottrina spengleriana si fa alquanto complessa: il bolscevismo è una creazione occidentale e non occidentale al tempo stesso. Esso «non è l’antitesi del petrinismo, ma la sua estrema conseguenza»: il degradarsi del metafisico nel sociale. Se da un lato il bolscevismo è il prodotto di una intellighenzia occidentalizzata, dall’altro con esso l’Asia ha riconquistato la Russia. Il regime bolscevico (del quale tra l’altro Spengler predice lucidamente la fine) non è infatti uno Stato nel senso occidentale, come ancora era stata la Russia di Pietro il Grande, ma il dominio di un’orda di tipo asiatico e tartarico, nella fattispecie il partito comunista.
I temi della questione russa ritornano in chiave più ‘tecnica’ in una conferenza del 1922, poi raccolta nelle Politische Schriften, dal titolo emblematico Il doppio volto della Russia e i problemi della Germania a Est. (Das Doppelantliz Russlands und die deutschen Ostprobleme). Nel 1932, proprio nella prefazione a questi suoi Scritti politici, di un anno precedenti ad Anni della Decisione, egli ribadiva che «i Russi erano allora, sono oggi e saranno in futuro per noi il problema più prossimo». «Noi non siamo più lo Stato-guida della ‘Mitteleuropa’, ma lo Stato ai confini con l’Asia». È proprio in questo ritorno all’Asia che Spengler coglie infatti un segno del destino russo. L’Asia è un’idea «che ha un futuro», scrive in Anni della decisione. Egli ritiene prossima la nascita di un nuovo temperamento etnico «entusiasticamente religioso»: ancora una volta attuale, se si guarda al presente (ad esempio a determinate allusioni del Patriarca di Tutte le Russie). In questa Russia «liberata dal suo elemento rurale» sorgerà, nella visione spengleriana, un nuovo tipo di capi.
Ma siccome la pseudomorfosi si verifica quando una civiltà giovane, ancora priva di una propria forma, imita le forme di una civiltà matura, questa idea conduce Spengler a un’altra suggestiva conclusione: quella della sfasatura ‘sincronica’ della civiltà russa rispetto a quella occidentale faustiana. Il periodo ‘merovingio’ della civiltà russa si conclude difatti con Pietro il Grande, il quale rappresenta sincronicamente l’affermarsi dei Carolingi in Occidente. Posta l’accettazione di quanto di deterministico e di quantitativo compare nel sincronismo di Spengler, il parallelismo della futura civiltà russa con il periodo gotico, vertice giovanile della civiltà occidentale, ha una conseguenza temibile: la Russia si troverebbe ora alla sua acme tecnica, mentre la Cina (così come l’India), non sarebbe ormai che un relitto (ed effettivamente, al di là di quante illusioni ci si possa fare, essa a ben guardare è poco più di un cadavere galvanizzato da un ingente dispositivo tecnico di matrice occidentale).
Tuttavia il vero interrogativo suscitato dalle tesi di Spengler è un altro, se cioè la Kiev di oggi non sia altrettanto o addirittura più moscovita di Mosca, nella visione del pensatore tedesco. Prescindendo dalla risposta che ciascuno potrebbe dare, è certo che nella prospettiva dell’“eremita di Schwabing” – che riteneva ‘Asiatici’ anche i Polacchi e gli Slavi dei Balcani – quelli attuali appaiono come problemi ‘asiatici’, e mettono in guardia l’Europa dall’avventurarsi disastrosamente verso le sconfinate steppe dell’Est, come sempre Jünger, con altri accenti, ben aveva colto:
«Ancora più sconsigliabile si fa ognuna di queste invasioni per motivi metafisici, in quanto ci si avvicina a un grande portatore di dolore, a un titano, a un genio del dolore. Nella sua aura, nel suo cerchio, si stringe conoscenza col dolore in una maniera che supera ogni immaginazione».