Settimana scorsa nuovi attacchi missilistici hanno raggiunto il cuore del territorio russo; non sono i primi ma sono i più fragorosi, soprattutto nelle menti di chi con orrida sorpresa ora le subisce. Nel frattempo, milizie di oppositori del regime, probabilmente in concerto coi servizi ucraini, portavano a termine azioni militari nell’Oblast russo di Belgorod. Le evacuazioni, gli allarmi, le colonne di auto in fuga dalla città, repliche in carta carbone delle immagini di Kiev nel febbraio di un anno fa. Questo è solo l’ultimo tassello di una guerra che sta sfidando tutte le asimmetrie di cui la superpotenza si faceva forte all’inizio delle ostilità. Una dinamica che, a ben vedere, si è messa in moto già parecchie volte nella nostra storia recente.
Dall’Afghanistan (sovietico prima e americano poi), all’Iraq, al Vietnam: ogni volta la superpotenza di turno si è lanciata con gran dimestichezza in operazioni di routine – mowing the lawn (tosare il prato) dicono gli israeliani ad ogni giro di bombardamenti – di breve durata e pronta risoluzione, a rischio zero. Spesso è uscita dal conflitto con una sconfitta strategica, ma soprattutto con un trauma nazionale e una caduta dell’autostima in quanto società.
Nell’ultimo scorcio di secolo, le superpotenze hanno inaugurato un nuovo metodo bellico. Un metodo atto a dimostrare strapotere oltre che a conseguire obiettivi strategici. Dopo la fine della guerra fredda, gli esperti hanno coniato l’espressione guerra a zero morti, che riesce a rendere in metafora sia l’evidente vantaggio tecnologico-militare di una delle parti, che la volontà di trasformare il conflitto armato – evento violento e traumatico per eccellenza – in attività sicura e dunque accettabile per società benestanti. In essa, il mantenimento dell’asimmetria della violenza è fondamentale: corrobora l’autostima della superpotenza e la rende assuefatta alla sensazione di potere, celandone le sofferenze che a questo solitamente si associa.
La retorica dell’asimmetria si basa su alcuni elementi fondamentali. La guerra si deve combattere esclusivamente sul territorio altrui, preferibilmente in un posto lontano, un posto di cultura molto diversa, o perlomeno percepita come più arretrata ed intrinsecamente violenta. Il metodo di conduzione della guerra – bombardamenti a tappeto e armi di precisione che fanno tabula rasa prima dell’arrivo delle truppe di occupazione – proteggono il soldato della superpotenza, che può giungere in loco a cose già fatte, quasi in marcia trionfale. Per tutto il resto ci sono le forze speciali – corpi d’élite per rare operazioni particolarmente rischiose – e i contractors – i mercenari del ventunesimo secolo – utilizzabili in missioni che avrebbero qualche difficoltà ad essere accettate in patria, o persino dal diritto internazionale. Infine, a casa propria, le conseguenze della guerra sulla propria quotidianità, in termini di sofferenze fisiche e impoverimento, sono quasi nulle. Sofferenze vere, non la mancanza di pigmenti chimici che impedisce di colorare fantasiosamente i cartoni dei succhi di frutta, e nemmeno la restrizione delle libertà e del dibattito pubblico, dolorosa per sparute minoranze di oppositori attivi al regime autocratico di Putin, ma forza esaltante per quel “partito della guerra” che dell’unione nazionale contro i nemici – esterni o interni che siano – ha fatto priorità sovraordinata ad ogni diritto.
La guerra d’Ucraina, iniziata da parte russa con le migliori speranze di vittoria immediata, rispetta(va) gran parte di queste caratteristiche. La partenza dei soldati (200 mila, assolutamente insufficienti per una vera occupazione) con la divisa da parata nello zaino; l’attacco immediato a Kiev per ottenere subito il regime change (in una guerra normale è l’ultima delle speranze del belligerante). E poi i copiosi lanci di missili ad annichilire e a terrorizzare i civili, tesi a dimostrare l’inutilità della resistenza ad una superpotenza alle porte di casa. Le rappresaglie sotto forma di bombardamenti. Sempre decisamente sproporzionate, a varie azioni di resistenza o di sabotaggio in profondità. E ancora, le minacce di utilizzo dell’arma atomica – altro (ormai ex-) simbolo di strapotere ed (ex-) leva suprema di acquiescenza – ad ogni potenziale annuncio di reazione ucraina: era valida nel caso di acquisto di armamenti occidentali per respingere l’invasione, ma poteva essere utilizzata anche in caso di lanci missilistici verso la Crimea, e inizialmente persino verso le zone occupate poi annesse. Il tutto mentre le truppe russe poggiavano su una giustificazione storica la presenza in forze su territorio straniero, asimmetria nella sua distillazione più pura.
Oggi la marcia in parata su territorio straniero con cambio di regime è saltata, la guerra è diventata un penoso confronto d’attrito: il tritacarne risucchia vite con straordinario egualitarismo da entrambi i lati, fra trincee ed eterni scambi d’artiglieria; la presa delle città si è trasformata in massacri per le truppe d’assalto; i sabotaggi sono penetrati sempre più in profondità; in ultimo, abbiamo visto i primi lanci missilistici e le prime operazioni sul campo (anche se indirette) sul territorio del nemico. Le linee rosse – saggiate con sprezzo del pericolo dagli ucraini – sono saltate. Le parvenze di asimmetria sono cadute una dopo l’altra. Una nuova controffensiva dovrebbe tornare a penetrare nei territori annessi con referendum e dunque parte della Federazione Russa (perlomeno secondo Mosca) forse anche in Crimea, de facto governata dal Cremlino ormai da nove anni, e territorio di un valore strategico e simbolico non comparabile agli altri oblast sottratti in guerra.
Il Cremlino ha affrontato la perdita dell’asimmetria correggendo prontamente il tiro, a livello comunicativo, modificando il nemico: non più Ucraina, uno Stato fratello – sia pur rozzo fratello minore, come vuole retorica dell’asimmetria a tutto tondo – ma Occidente collettivo, una formidabile macchina da guerra capace di allettare e traviare uno Stato allo sbaraglio, ormai fatalmente contagiato dal morbo del nazionalismo, e in mano ad élites di reminiscenza hitleriana. D’altronde anche noi formuliamo analisi simili sulla Russia di Putin. Tempi di guerra: ognuno è ben convinto di ciò che fa, non si torna indietro facilmente.
Ma le viscere profonde del popolo russo, come si pongono di fronte alla perdita dell’asimmetria, come si porranno di fronte all’incipiente controffensiva, che una volta di più li metterà in sofferenza in una guerra che doveva esser vinta in sei giorni? Questa, in principio, fu guerra di status: l’affermazione della propria superiorità, rispetto ad uno Stato che altro non dovrebbe essere se non satellite, era obiettivo strategico, e il problema del “salvare la faccia” rimane infatti in cima all’agenda. Dunque, qualcuno spera nella demoralizzazione, ma c’è materiale per smorzare gli entusiasmi, perché non di sola superiorità è composta l’identità russa, e su questo è bene concentrare infine l’attenzione.
Fin dall’inizio, la comunicazione ufficiale russa ha introdotto nei suoi discorsi un concetto implicito, eppure chiaro a chi quelle frequenze è in grado di captarle: la Russia è una grande potenza, ovvero non ha bisogno di nessuno per provvedere a sé stessa, non le è necessaria l’approvazione morale di alcuno. Dunque la Russia può sopportare ogni grado di isolamento e accerchiamento, con tutte le sofferenze che queste possono portare, e resistere orgogliosamente. Sono tutti concetti non nuovi nel racconto che la Federazione fa di sé – altrimenti auguri a inculcarli: l’identità non s’inventa, al limite si risveglia. Fin dall’Ottocento, la pubblicistica ha fatto ampio ricorso alla metafora dell’impero orso, ferito e accerchiato, eppure orgoglioso delle sue capacità di convivenza e resistenza ad indicibili avversità. Non è costruzione pindarica di qualche studioso culturalista, ma memoria storica rivendicata patriotticamente, fino ad essere stretta quotidianità per la maggioranza della popolazione lontana da Mosca. Fino a casi estremi, epici e distopici allo stesso tempo dal tepore delle nostre case. Una retorica che ricorda in un certo senso quella della frontiera americana: noi siamo venuti da lontano, in questo posto incontaminato e selvaggio, e l’abbiamo domato. Abbiamo affermato l’uomo sulla natura. Tutto il resto è sofferenza mandata da Dio, non può essere sbagliata; nulla può cambiare; io in primis, lo accetto. Retorica della disciplina nella sua formulazione migliore. Qualcuno direbbe – ad analisi storica non a torto – autoritarismo imperiale di marca asiatica.
Un distillato culturale di tutto ciò è rintracciabile già nell’analisi geopolitica di matrice eurasiatista – da Gumilev a Dugin – che incede in commistione intima con l’ambiente fisico, ancora percepito fattore determinante dell’identità sociale e financo dell’unica forma politica – l’autoritarismo – conciliabile ad un tale contesto naturale.
È però nel filosofo zarista Ivan Ilyn che le fondamentali differenze tra Russia e Occidente vengono portate a galla esplicitamente e contrapposte dialetticamente. Un conservatorismo parente del tradizionalismo integralista di René Guénon e Julius Evola e, nuovamente, in qualche modo legato da un invisibile fil rouge anche al paleoconservatorismo americano. Non a caso, è uno dei punti di riferimento filosofici di Putin e della sua Russia:
“L’occidente ha esportato questo virus anticristiano in Russia […] Dopo aver perso il nostro legame con Dio e la tradizione cristiana, l’umanità è stata moralmente accecata, presa dal materialismo, dall’irrazionalismo e dal nichilismo […] Per superare la crisi morale globale, dobbiamo tornare a valori morali eterni, cioè fede, amore, libertà, coscienza, famiglia, patria e nazione, ma soprattutto fede e amore”
Eccoli, tutti gli elementi della filosofia del potere che Vladimir Putin cerca di risvegliare nel suo popolo in questo momento vitale per la sua idea di Russia. Dal rapporto acquiescente con l’autorità alla volontà di sacrificarsi per una causa morale, dalla capacità di sopportare ogni privazione materiale all’unione compatta degli individui nel perseguimento degli obiettivi della comunità. Ma la domanda vera potrebbe infine mutare: di quali ricchezze puoi sentirti defraudato se non le hai mai volute (o potute avere)? La forza della fede in luogo del benessere materiale. Gli imperi si misurano anche sulla capacità di soffrire; sarebbe meglio dire che sopravvivono, in base alla capacità di soffrire. I russi sembrano fatti di pasta diversa, ma sono umani come noi, condividono stesse passioni e debolezze; probabilmente sono solo già abituati a tutto ciò. Vedremo quale fascino prevarrà.