Tra il 1835 ed il 1830 il sociologo francese Alexis de Tocqueville diede alle stampe “La democrazia in America“, un saggio in due volumi focalizzato sulla spiegazione delle ragioni dietro l’attecchimento della cultura democratica negli Stati Uniti. Tocqueville andò ben oltre la semplice analisi della società americana, perché nelle conclusioni dedicò dello spazio a delle previsioni personali circa le future tendenze negli Stati Uniti e nelle relazioni internazionali. Secondo lui, gli Stati Uniti e la Russia, sebbene profondamente diversi e geograficamente distanti l’uno dall’altro, avrebbero rivaleggiato, in futuro, per “i destini di metà del mondo” a causa della loro estensione territoriale, delle loro ambizioni e del loro percorso storico.
Il libro fu un successo ma la profezia fu ignorata e dimenticata per un secolo. Fu recuperata e popolarizzata soltanto nel secondo dopoguerra, con l’emergere della guerra fredda, il confronto globale fra il cosiddetto mondo libero, guidato dagli Stati Uniti, e l’impero comunista, guidato dall’Unione Sovietica. La rivalità geopolitica russo-americana è gradualmente riemersa a vent’anni di distanza dalla fine della guerra fredda, cristallizzando l’idea che la Russia sia destinata a fronteggiare un contenimento infinito da parte dell’Occidente, in quanto considerata da Washington l’ostacolo principale all’egemonizzazione su quello che Sir Halford Mackinder, il padre fondatore della geopolitica, aveva ribattezzato il “cuore della terra” (Heartland), ossia la parte centrale dell’Eurasia.
Eppure, le relazioni fra Russia e Stati Uniti non sono sempre state caratterizzate dalla sfiducia e dall’isteria russofobica a fasi alterne. Lo dimostra la vendita dell’America russa (Russkaya Amyerika), ossia l’Alaska dei giorni nostri. Quel che al tempo fu ritenuto un accordo lungimirante è, oggi, leggibile e giudicabile da noi, la posteriorità, come un gravissimo errore dettato da interessi contingenti che ha privato la Russia non solo di un territorio ricco di risorse naturali ma, soprattutto, di un avamposto geostrategico che si sarebbe rivelato fondamentale negli anni a seguire, per esercitare pressione sugli Stati Uniti e, magari, cambiare la storia recente e contemporanea. Lo studio dell’Alaska è una fonte di insegnamento preziosa e sempreverde che, se adeguatamente sfruttata, può aiutare strateghi e geopolitici a non agire secondo impulso e circostanza ma secondo un altro criterio: la sopravvivenza nel lungo termine.
La storia dell’America russa è la seguente: il primo insediamento fu costruito nel 1784 ed utilizzato come testa di ponte dalla Compagnia Russo-Americana (RAC) per la creazione di avamposti commerciali nelle isole Auletine, nel Pacifico e nella Costa occidentale. Soltanto gli esploratori-colonizzatori della RAC sembravano consapevoli del potenziale di un’espansione imperiale extra-asiatica, ovvero nel Pacifico e nelle Americhe. Infatti, gli zar Alessandro I e Nicola I furono, rispettivamente, i registi del ritiro dalle Hawaii nel 1817 e della vendita di Fort Ross (California) nel 1841. Queste azioni furono dettate dalla volontà di amicarsi gli Stati Uniti ma produssero l’effetto opposto: gli americani intravidero la possibilità di sfruttare l’atteggiamento supino della famiglia imperiale per espellere definitivamente i russi dal continente. Nel 1857 le diplomazie segrete dei due paesi si misero a lavoro per discutere la questione dell’Alaska. Le trattative si protrassero per un decennio, concludendosi il 30 marzo 1867.
Quel giorno, l’ambasciatore russo Eduard de Stoeckl e il segretario di Stato degli Stati Uniti, William Seward, firmarono il documento che sancì il passaggio di proprietà dell’Alaska per 7 milioni e 200mila dollari dell’epoca, approssimativamente 121 milioni di dollari attuali. Una cifra risibile, oggi come allora: 2 centesimi per acro, 4 dollari per chilometro quadrato. Ciò nonostante, in Russia, l’evento fu celebrato come un successo diplomatico, ricco di benefici: il denaro statunitense avrebbe migliorato il bilancio pubblico, il Cremlino avrebbe potuto dedicare più risorse (umane ed economiche) alle campagne espansionistiche in Europa ed Asia e, inoltre, si credeva che l’Alaska fosse un territorio sterile e privo di risorse naturali. Infine, vi era l’aspettativa (malriposta) che un simile gesto avrebbe portato alla nascita di un’amicizia duratura, magari in chiave anti-britannica.
In realtà, la vendita dell’Alaska non produsse ne alimentò alcuno dei presunti benefici sbandierati. Infatti, il bilancio pubblico e la situazione economica nel suo complesso continuarono a peggiorare nelle decadi successive, dando impulso ad un’ondata di proteste antizariste e insurrezioni popolari il cui esito finale fu la rivoluzione d’ottobre. Tenendo conto che, all’epoca delle negoziazioni, il bilancio imperiale era di circa 500 milioni di rubli, con un debito di 1 miliardo e 500 milioni, e che la cifra ricevuta corrispondeva a circa 10 milioni di rubli, si può comprendere ulteriormente l’irrilevanza di tale somma. Dieci anni dopo l’acquisto, i coloni americani scoprirono i primi immensi depositi di risorse naturali, come petrolio, oro ed altri metalli preziosi. La scoperta confutò la falsa convinzione di aver venduto una terra sterile e senza risorse.
Falsa era anche la tesi che cedere l’America russa avrebbe liberato le risorse umane ed economiche necessarie allo svolgimento delle campagne nell’Europa orientale, nell’Asia centrale ed in Siberia. In primo luogo perché le spese per il mantenimento della colonia erano sostenute dalla RAC e, in secondo luogo, perché delle 40mila persone residenti in Alaska all’epoca dell’affare, la stragrande maggioranza erano nativi. Ultimo, ma non meno importante, è il fatto che il motivo conduttore dell’intera operazione è stato confutato dalla storia: il ritiro dalle Americhe non ha portato ad alcun miglioramento nelle relazioni con gli Stati Uniti. Il ritiro dalle Hawaii è stato, probabilmente, anche più grave dell’affare alascano: la seconda guerra mondiale ha mostrato l’importanza dell’arcipelago ai fini dell’egemonia militare su Pacifico ed Estremo oriente.
Se l’impero russo avesse mantenuto il controllo sulle Hawaii e sull’Alaska, l’intero corso storico avrebbe seguito una linea differente. La crisi missilistica non sarebbe nata a Cuba, ma in Alaska (da parte sovietica). Gli Stati Uniti non avrebbero potuto aspirare ad alcuna posizione egemonica nel Pacifico. Anche la qualità del contenimento antisovietico in Eurasia ne avrebbe risentito, perché l’Urss avrebbe potuto implementare un contro-contenimento efficace e soffocante, attraverso Cuba, Alaska e le Hawaii, con il risultato finale di accerchiare gli Stati Uniti.
L’Alaska ci insegna che anche territori apparentemente irrilevanti da un punto di vista strategico in un dato periodo possono rivelarsi fondamentali nel destabilizzare gli equilibri di potere in un futuro indefinito. Sebbene sia vero che il futuro è imprevedibile, è ugualmente vero che alcune tendenze possono essere decifrate, come dimostra la profezia di Tocqueville. La sopravvivenza della Russia dipende dal modo in cui verrà trattato il Nuovo Grande Gioco nel prossimo futuro, perché il paese è già circondato ad Occidente dall’espansionismo euroamericano e nel resto del continente dalla Cina, sullo sfondo di pressioni militari e fragilità economiche che potrebbero spingere gli strateghi del Cremlino a ripetere l’errore di abbandonare avamposti geostrategicamente importanti.
Infatti, sebbene i costi di mantenimento di una sfera egemonica, non eccessivamente vasta, possano essere alti, i benefici sono sempre maggiori: l’Alaska è la dimostrazione di ciò. Le disparità negative fra costi e benefici sono tipiche del breve periodo e tendono a svanire gradualmente, man mano che i profitti si riverberano nel medio e lungo termine nelle dimensioni diplomatica, economica, geopolitica e militare.
Gli Stati Uniti recuperarono il prezzo pagato per l’Alaska in meno di 20 anni, ottenendo un ritorno economico centuplicato entro il 1917 per via del pieno sfruttamento delle opportunità offerte dal territorio. Inoltre, è stata proprio l’espulsione totale delle potenze europee dal continente che ha consentito agli Stati Uniti di concentrare ogni risorsa nella sottomissione e nell’egemonizzazione dell’America Latina. La presenza permanente dei russi in Alaska avrebbe ostacolato le iniziative di Washington nel resto del continente, per via dell’attenzione obbligatoria da dedicare al fronte settentrionale. L’Alaska ha anche garantito agli Stati Uniti un avamposto nell’Artico e, quindi, una giustificazione naturale per le rivendicazioni e le ambizioni egemoniche nella regione – che negli anni ha riassunto un’importanza centrale per via del surriscaldamento globale.
Non è per nulla azzardato sostenere che l’acquisto dell’Alaska abbia aiutato gli Stati Uniti a diventare la prima potenza del globo, perché il cambio di proprietà ha bloccato la Russia in Eurasia, congelandola in una dimensione continentale e permettendone l’accerchiamento multifronte, consentendo simultaneamente alla Casa Bianca di alzare un muro protettivo a difesa delle Americhe. Come la Russia, ogni potenza è costretta ad affrontare decisioni ardue inerenti la vendita, l’abbandono o la difesa di territori apparentemente poco o per nulla importanti, ma nel processo decisionale è obbligatorio tenere in considerazione la variabile dell'”incertezza del futuro”, perché se è vero che, come diceva Cicerone, “Historia magistra vitae” (la storia è maestra della vita), allora è legittimo sostenere che lo studio dell’Alaska dovrebbe fungere da maestro di geopolitica.
Ringraziamo la redazione di Vision and Global Trends per la gentile concessione dell’articolo