OGGETTO: Ménage à deux
DATA: 05 Giugno 2023
SEZIONE: Geopolitica
FORMATO: Scenari
Il dialogo globale non può che essere fra "due e soltanto due superpotenze". Per questo la Cina finisce spesso marginalizzata da Russia e Stati Uniti.
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È decisamente curiosa la circostanza per cui a seguito di un esplicito tentativo di accomodamento da parte USA verso la Russia nella mai estinta questione kosovara, sia seguito un importante irrigidimento diplomatico da parte cinese nell’emisfero opposto, quasi a distogliere l’attenzione USA da un sempre più fitto dialogo con una Russia sfiancata dai ritmi diplomatici statunitensi. Forse per riportarla all’importanza globale della questione taiwanese. In questa prospettiva, non è la prima volta che qualcosa del genere accade nella storia del XX e del XXI secolo, anzi. Tutto comincia nell’agosto del 1958 con la seconda crisi dello stretto di Taiwan, ma quale la ragione di fondo? Come suggerisce il fantomatico professor Killaloe, personaggio fantastico di uno dei racconti paradossali del Gog di Giovanni Papini, proviamo a ripercorrere “la storia a ritroso” e partiamo dal presente.

Come fa notare Mireno Berrettini nel suo volume “Verso un nuovo equilibrio globale” (Carocci editore, 2021), John Gaddis in un saggio del 2000 intitolato “on starting all over again”, invitava gli storici contemporaneisti a smettere di concentrarsi sullo “specifico albero” nello studio della guerra fredda, e ad ampliare il proprio sguardo piuttosto alla “foresta” delle relazioni internazionali. Raffinata metafora applicabile (forse) anche al presente, dove l’attenzione per i singoli eventi oscura la visione complessiva dell’architettura globale del sistema di rapporti tra le nazioni e la distorce attraverso il filtro magico di un bipolarismo inesistente almeno dal 1950, anno del detonante debutto diplomatico della Repubblica Popolare Cinese.

Jeffrey M. Hovenier, ambasciatore statunitense in Kosovo, il 30 maggio scorso, alle otto del mattino circa (6 GMT ca.), durante una conferenza stampa presso l’ambasciata americana di Pristina, si è espresso senza mezzi termini attorno all’operato di Albin Kurti, condannando esplicitamente i suoi tentativi di insediare sindaci albanesi nei comuni a maggioranza serba nel nord della nazione, nonostante l’insofferenza delle popolazioni locali, appoggiate politicamente da Aleksandar Vucic, il Presidente serbo, il quale, come ben noto ai lettori, beneficia del tradizionale supporto diplomatico russo. In seguito ai gravi scontri che ne sono derivati tra i cittadini locali e i contingenti militari NATO della missione KFOR – a presidio degli edifici comunali in questione – l’ambasciatore americano ha confermato pubblicamente l’esclusione del Kosovo dalla partecipazione all’esercitazione NATO “Defender Europe 2023”, onde evitare inutili frizioni diplomatiche tra Stati Uniti e Russia, direttamente implicati nella questione su fronti opposti, parallelamente alla guerra di Ucraina. Nell’emisfero opposto, a distanza di poche ore, la Corea del Nord ha dichiarato che avrebbe lanciato in orbita un vettore spaziale, e che questo avrebbe sorvolato lo spazio aereo giapponese. A Tokyo sono risuonate le sirene anti-aeree e il governo nipponico ha dichiarato esplicitamente che avrebbe abbattuto qualsiasi oggetto straniero avesse sorvolato il proprio spazio aereo. Il caso, forse, ha voluto che tale lancio nord-coreano si sia risolto in un fallimento, tale da precipitare nel mare meridionale di Corea, in acque internazionali, la sera del giorno dopo, verso le 23:30 (EST 17:30). Potenzialmente un messaggio diretto verso i principali partners degli USA nell’Asia-Pacifico in prossimità degli Shangri-La dialogues (2-4 giugno), ma il tempismo tra le due crisi spinge ad una riflessione storica più approfondita sulle interessanti coincidenze tra gli attriti diplomatici sino-statunitensi in Asia-Pacifico e di quelli tra Mosca e Washington sul rimland europeo-balcanico

A fine marzo scorso Lukashenko annunciava che armi nucleari strategiche russe sarebbero state dislocate su territorio bielorusso, e a distanza di pochi giorni, l’8 aprile iniziava quasi a sorpresa l’esercitazione militare per l’accerchiamento di Taiwan da parte delle forze aree e navali della RPC, per concludersi nella fine della stessa settimana. Il 25 maggio effettivamente tale dichiarazione è stata confermata da un discorso in diretta nazionale da parte di Vladimir Putin e il giorno seguente un aereo da ricognizione militare statunitense è stato intercettato da un caccia cinese in un’aggressiva manovra per cui il J-16 delle Forze Aree di Liberazione Popolare si è posto davanti al muso dell’aereo RC-135 dell’U.S. Air Force, “costringendo l’aereo statunitense a volare attraverso la sua scia di turbolenza”. Questa la versione del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti in un comunicato rilasciato quattro giorni dopo lo sfiorato incidente, avvenuto in un punto del Mar Cinese meridionale conteso (de facto) tra USA e RPC, e rivendicato da Brunei, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan e Vietnam. Nonostante le numerose rivendicazioni incrociate in quell’area un atteggiamento di simile aggressività da parte cinese ancora non si era manifestato. 

Tornando indietro all’estate scorsa, invece, ovvero al luglio-agosto del 2022, è sconcertante notare la somiglianza, perlomeno cronologica, degli eventi di allora, con quelli del presente. Il 31 luglio risuonavano le sirene di allarme nel settentrione del Kosovo a seguito delle barricate erette dai cittadini serbo-kosovari per una disputa con il governo di Albin Kurti circa una questione amministrativa riguardante il riconoscimento – da parte dell’amministrazione kosovara – dei documenti d’identità dei cittadini di origine serba. La crisi sarebbe rientrata nel dicembre, ma poco tempo dopo il suo inizio, già nell’agosto, la visita di Nancy Pelosi a Taiwan – disconosciuta per altro dalla stessa amministrazione americana al fine di mantenere l’ambiguità strategica e formalmente in rispetto della “one China policy” – avrebbe causato l’irrigidimento diplomatico della Repubblica Popolare Cinese e segnato l’inizio della quarta crisi dello stretto di Formosa, quando l’isola veniva accerchiata dalle forze della RPC portando la tensione alle stelle tra Pechino e Washington. Se si volesse ora parlare della terza crisi di Taiwan, si noterebbe che questa ebbe inizio nella fine del luglio 1995 – a ridosso della conclusione degli accordi di Dayton che nel dicembre dello stesso anno congelavano la guerra di Bosnia-Erzegovina – per concludersi nel marzo del 1996. Qui non si vuole portare alla luce alcuna prova concreta dell’universalismo della sincronicità di junghiana memoria, ma piuttosto portare all’evidenza “coincidenze” che il lettore concederà di definire perlomeno “significative”, in quanto spostando lo sguardo ancora più indietro nel tempo, la seconda crisi dello stretto di Taiwan è certamente quella più rilevante. 

Questa ebbe inizio il 23 agosto del 1958 e si concluse il 6 ottobre dello stesso anno. La tregua che si era conclusa tre anni prima si interruppe all’alba di quel giorno d’agosto quando Mao Tse-tung ordinò i bombardamenti delle isole di Quemoy e Matsu per mandare un chiaro messaggio agli Stati Uniti. Pechino sarebbe stata disposta a fare la guerra con Washington se questa fosse riuscita nel proprio intento di legare Chiang Kai-shek al progetto di Southeast Asia Treaty Organisation formalizzato con il Trattato di Manila del 1954, il quale istituiva una sorta di “NATO del sud-est asiatico” composta da Filippine, Tailandia, Australia, Nuova Zelanda, Pakistan, USA, Francia e Regno Unito in chiave anti-comunista, ma soprattutto diretta contro Pechino. La seconda fase della guerra civile cinese tra comunisti e nazionalisti aveva visto le forze della Cina Repubblicana di Chiang Kai-shek sostenute dagli Stati Uniti, la superpotenza “imperialista” che de facto aveva contribuito ad impedire una conclusione definitiva della guerra civile cinese, che si vuole formalmente conclusa con il 1949-1950, quando le forze nazionaliste del Kuomintang si rifugiarono sull’isola di Formosa, ma che de facto si trascina sino ad oggi. Ad ogni modo, riprendendo il filo del discorso, Mao temeva che Chiang Kai-shek avrebbe tentato di coinvolgere gli Stati Uniti in una guerra diretta o per procura contro la Cina popolare. Tale sospetto era condiviso anche dallo stesso Eisenhower, che infatti recepì il messaggio di Mao e siglò con Chiang Kai-shek un’alleanza meramente formale, che però imponeva al leader nazionalista di rinunciare all’ostilità nei confronti della Repubblica Popolare cinese.

Questo evento rappresentò un momento di dialogo e intesa, seppur contraddittoria, tra Pechino e Washington, a cui seguì la pronta risposta dell’Unione Sovietica sul rimland europeo, per riportare l’attenzione degli Stati Uniti sulla questione della riunificazione della Germania. Cruchev propose ad Eisenhower una riunificazione della Germania neutrale, fuori sia dal Patto di Varsavia che dalla NATO. Proposta che avrebbe significato l’abdicazione americana al proprio impegno militare di difesa del Vecchio Continente, dunque inaccettabile. Questo Cruchev lo sapeva, ma il tempismo della proposta non era casuale e mirava a marginalizzare Pechino da un dialogo con gli USA in un momento in cui il Cremlino pretendeva il controllo su tutti i partiti comunisti, incluso quello cinese, in quanto l’URSS ambiva a mantenere il ruolo di unica superpotenza globale dopo gli Stati Uniti d’America, così da rimarcare l’esistenza di “due superpotenze e due soltanto”. Questa l’ipotesi dello storico delle relazioni internazionali Ottavio Barié. Dal punto di vista cinese, invece, questa era la prova che Stati Uniti e Unione Sovietica, sin dalla morte di Stalin, non avevano fatto altro che spingere il mondo sull’orlo di un’apocalisse nucleare, per poi, ogni volta raggiungere un’intesa. 

Dopo la morte di Stalin e l’avvento del rollback di Eisenhower questo era accaduto durante le crisi del 1956, ovvero con la crisi d’Ungheria e quella del Canale di Suez. Specialmente in quest’ultima l’URSS aveva inviato tre ultimatum a Francia, Regno Unito e Israele, minacciando l’utilizzo dell’arma atomica, forte della propria presunta superiorità missilistica. In questo caso gli USA, attraverso l’ausilio dello strumento della Nazioni Unite, riuscirono in fine a convincere Londra e Parigi a ritirare le proprie truppe e a far rientrare la crisi. La posizione cinese al riguardo era chiara: Mosca si stava “imborghesendo” nel suo dialogo con gli USA e con le sue riforme interne. Mao allora si erse a custode della Rivoluzione globale pronunciando il celebre discorso del 9 novembre 1957 in cui sosteneva che “il vento dell’Est sarebbe prevalso su quello dell’Ovest”. Con l’ottobre 1958 e la proposta di Cruchev a Eisenhower per una riunificazione della Germania prendevano forma nuovi incontri al vertice tra Washington e Mosca parallelamente allo sviluppo della crisi di Cuba. La questione di Berlino si sarebbe “risolta” con l’edificazione del Muro – simbolo dell’ostpolitik tedesca preparatoria alla distensione del 1975 – da parte della Repubblica Federale Tedesca nella notte tra 12 e 13 agosto del 1961 e la Crisi di Cuba nel 1962 con il “telefono rosso” tra Kennedy e Cruchev. Inoltre, nella guerra sino-indiana dello stesso anno, sia gli USA che l’URSS avevano rinunciato a sostenere i rispettivi alleati nella contesa tra Pechino e Nuova Dehli. Nella guerra del Vietnam, inoltre, non si era venuto a creare un fronte comunista unito contro gli Stati Uniti e dunque si confermava a più riprese il “sospetto” cinese nei confronti di Mosca, culminato poi nella rottura dell’asse sino-sovietico e infine con la distensione verso gli Stati Uniti iniziata nel 1972 con il volo di Nixon a Pechino, che nel frattempo allentava le tensioni anche con Mosca. La diplomazia britannica già negli anni cinquanta aveva intuito che le dimensioni del Cremlino non sarebbero bastate a controllare il peso della Città Proibita e del suo retaggio millenario. Oggi la partita pare essersi ribaltata, i ruoli si sono invertiti, ma Mosca ha un nuovo oggetto di “dialogo” con gli USA: l’Ucraina.

Oggi, di fronte alla guerra tra Kiev e Mosca noi occidentali osserviamo con sgomento il conflitto in corso nel timore che questo si espanda e travolga le nazioni di un’Europa-centro occidentale impreparata per una guerra, ma trascuriamo di osservare lo scenario globale unendo tutti i puntini. Uno di questi puntini è stato omesso in precedenza per portarlo all’attenzione del lettore qui nelle conclusioni. Provando ad osservare ciò che succede in Europa da una prospettiva asiatica, è rilevante il Summit di Ginevra del 16 giugno 2021 tra Russia e Stati Uniti, nel quale si incontrarono Joe Biden e Vladimir Putin a porte chiuse. Di questo Summit si parlò ben poco, e si scrisse frettolosamente che non si fosse risolto un granché, semplificando. Biden era stato eletto da pochi mesi, giusto nel gennaio dello stesso anno e il 17 marzo aveva dichiarato, in un’intervista rilasciata ad ABC News, che era certo Putin fosse un “killer”. Un fulmine a ciel sereno nell’onda lunga del “Russia gate”, almeno per il pubblico civile occidentale in ascolto. Di lì a pochi mesi, verso la fine dell’anno si sarebbe accesa la crisi migratoria ai confini tra Polonia e Bielorussia con la costruzione del muro tra le due nazioni. Tra il 23 e 24 febbraio 2022 è scoppiata la guerra di Ucraina, dove nonostante l’oltrepassare di Washington di un po’ tutte le linee rosse stabilite da Mosca, il conflitto diretto tra Occidente e Russia non è mai arrivato. Eppure gli incidenti e le situazioni in cui il rischio che le cose potessero sfuggire di mano sono stati numerosi. Ricordiamo: il blocco dell’exclave di Kaliningrad da parte della Lituania, fatto rientrare dagli USA; l’esplosione del Nord-stream; i numerosi attentati in territorio russo; missili nel territorio polacco che hanno fatto due vittime innocenti e per cui gli USA non hanno ritenuto opportuno attivare l’art. 4 della Carta Atlantica; il drone USA abbattuto nel Mar Nero dai jet russi e non solo. 

L’elenco potrebbe allungarsi ancora. Dal punto di vista cinese tutto questo è però osservato e interpretato come l’ennesimo dialogo, seppur violento, tra USA e Russia, basato su una violenta logica di deterrenza e di rappresaglia massiccia. Un dialogo che eleva Mosca ad interlocutore di rango globale e che rischia di rivoltarsi contro Pechino nell’Asia centrale qualora questo giunga ad un accordo definitivo con Washington. Dopo un anno di guerra in Ucraina è emerso chiaramente che Russia e Stati Uniti non vogliono farsi una guerra e che un negoziato sotterraneo sta portando i primi risultati. L’entrata della Finlandia nella NATO e la fine del ricatto energetico nei confronti dell’Unione Europea, in cambio di una riconduzione definitiva della Bielorussia nella sfera di influenza russa garantita dalla presenza di armi nucleari sul proprio territorio sovrano e lo status quo nei Balcani, dove salvo pulsioni di violenza incontrollabile tra le nazioni oggetto di influenza più o meno indiretta delle due superpotenze, gli Stati Uniti cercheranno di non spingere per una situazione in cui la Russia si veda costretta a venire in soccorso della Serbia. Tutto questo per Pechino, è fumo negli occhi.

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