OGGETTO: Spengler, il prussiano
DATA: 22 Maggio 2021
Lo Spengler di “Anni della decisione” è quello della reazione alla decadenza. Contro il nazismo e il liberalismo, a favore di una difesa della Kultur dei popoli
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L’Europa del primo Novecento, è un continente decadente, all’ombra dei lumi insonni del progresso e della tecnica. Stagnante nella sua ideologia democratica, nelle sue, confutate, ambizioni progressiste. Dove non c’erano sorti magnifiche, ma c’era la divisione sociale, la crisi economica ed ideologica. C’era la Germania impotente e umiliata della Repubblica di Weimar che si consegnava mefistofelicamente al nazionalsocialismo di Adolf Hitler. Mentre la propaganda e la tecnica costruivano la religione laica di questo nuovo faustiano Cesare. Pochi seppero capire ed analizzare questi fenomeni e contrastarli come Oswald Spengler. Spengler, nonostante un iniziale disincantato e poco convinto supporto, fu autore di uno dei più feroci saggi contro il nazismo, uscito nel 1934: Anni della decisione (Oaks Editrice). Critica che però non lo porta ad abbracciare la causa liberaldemocratica come il secondo Thomas Mann. Perché l’opposizione fatta dal filosofo tedesco è un opposizione in chiave rivoluzionario conservatrice. Opponendosi alla Germania delle croci uncinate, non in nome della civilizzazione, della democrazia dei “Moniti all’Europa”, ma in nome della difesa della Kulturtedesca. Una Kultur che minacciata ed antitetica all’ideologia nazista. Compiendo una feroce stroncatura del razzismo biologico hitleriano, dell’antisemitismo, “che non appartiene al popolo tedesco”, della pretesa di instaurare i valori della tradizione prussiana, il vero spirito tedesco, attraverso la coercizione, la propaganda. Vedendo i valori del prussianesimo distorti e deformati. Poiché la Kultur, cioè l’identità culturale, il patrimonio spirituale di una nazione, non può affermarsi tramite la dittatura, tramite le direttive di partito e le forme, ma è la norma collettiva che si incarna nella condotta particolare. Non è l’ordine di una autorità, ma il destino di un singolo e di un popolo.

Spengler in Anni della decisione non scrive un semplice pamphlet antinazista. Scrive il più lucido e infiammato trattato di politica degli anni trenta. In cui riesce a farsi, come dice Gennaro Malgieri nella sua prefazione, “anatomopatologo del 900”. Compiendo una sismografia delle idee e dei turbamenti del primo novecento, una critica spietata ai sentimentalismi politici ed al liberalismo. Se nel Tramonto dell’occidente, la bibbia della rivoluzione conservatrice, Spengler aveva descritto la decadenza dei popoli europei, appassiti e indeboliti soggiogati da un avvenire deterministico, negli anni della decisione l’uomo può reagire alla palude in cui sta sprofondando. Gli anni della decisione del titolo sono quelli di “un epoca forte, ma gli uomini sono tanto più piccoli”. Un’epoca che ha smarrito lo spirito tragico: 

“Non sopportano più alcuna tragedia, né sulla scena, né nella realtà. Essi vogliono miseri e stanchi come sono l’happy end dei romanzi superficiali. Ma il destino che li ha gettati dentro questi decenni li afferra e fa con loro quello che deve essere fatto. La vile sicurezza del secolo scorso si è conclusa. La vita pericolosa, la vera vita della storia, entra di nuovo  nel suo diritto. Giunge l’epoca- anzi è già qui!- che non concede nessuno spazio agli ideali deboli”.

Una visione che mischia e rinnova tutto ciò che è c’è di inaudito e  inaccettabile in Nietzsche e Schopenhauer. Dove gli ideali deboli in questione sono l’ideologia e la religione delle lacrime. La prima intesa come la menzogna pietosa della difesa dell’utopia contro la realtà, la scusante del mondo marcio, a cui si contrappone un ideale mondo fittizio, alimentato dagli utopismi dell’ottimismo borghese, dell’umanitarismo, della morale cristiana. Il secondo è il suo compimento. È il Terrore, ovvero l‘ideologia delle lacrime che si impone collettivamente, che si fa rifugio e guardiano delle masse, quando le anime stanche e appassite vogliono trovare un rifugio, una chiesa, per addormentarsi in oblio, come nei totalitarismi rossi e neri. Spengler non può che manifestare il suo disgusto verso queste “malattie dello spirito” contro le illusioni consolatorie e tutte quelle frottole che nascondono che l’unica concezione della vita possibile è quella tragica e nietzschiana, che l’unica vera realtà della storia è la lotta. L’epoca in cui Spengler si trova è ancora l’epoca “del razionalismo”, di cui tutti “sono sue creature”. In cui si è affermata “l’arroganza dello sradicato spirito cittadino”, che segna la vittoria della Zivilization contro la Kultur. Dell’oro sul sangue. Che è la cifra di un mondo “comodo”, tra svaghi e distrazioni, in cui il denaro e non l’uomo è il vero protagonista della società. In cui la società è malata della “paura comune di fronte alla realtà”, schopenhauerianamente, intrappolata tra menzogna e sortilegio, segno della “debolezza spirituale dell’uomo avanzato della città” estraniato dal confronto con la natura col proprio destino. “Egli vola al di fuori della storia nella solitudine, in sistemi inventati  ed estranei al mondo, in una fede qualsiasi, nel suicidio”. La fuga dalla realtà, dalla visione tragica, non è che la strada della decadenza, della sconfitta. Dell’estraneità alla vita, una estraneità molto in voga nelle odierne religioni delle lacrime, quali sono il politicamente corretto e il globalismo. Un sogno quello alla ricerca della fine della storia che il capitalismo e la tecnica offrirebbero all’uomo, che altro non è se non un oblio fatto di asterischi e beni monouso. Creando una cultura( forse meglio una sovrastruttura per dirla con Marx) di uomini che “non tollerano più la realtà”, i quali “sogni senza forza, senza vita, resteranno per sempre sogni”.

Di queste religioni delle lacrime i totalitarismi sono i figli, il cesarismo, ovvero la comparsa di cesari che guidano adamiticamente i popoli, non sono altro che una conseguenza della fuga dalla realtà, dall’ammissione del proprio destino e della propria scelta. Il nazismo stesso non è contro la modernità è una sua degenerazione. Il contesto in cui si muove Spengler è quello della crisi della civiltà dell’alba del cesarismo, dei dittatori e delle rivoluzioni colorate. Ovvero la rivoluzione dei popoli bianchi, la lotta di classe, e la rivoluzione dei popoli di colore, ovvero lo scontro di civiltà, tra popoli poveri e giovani e popoli ricchi e vecchi. Rivoluzioni che muovono l’azione dei cesari, che scardinano gli equilibri e che cambieranno lo status del novecento. Tale visione di Spengler ovviamente va contestualizzata ai tempi e al lettore contemporaneo può sembrare anacronistica. Però possono essere lette su queste categorie i cambiamenti della guerra fredda, lo sviluppo e le lotte commerciali tra Cina e Stati Uniti. Aldilà di alcune considerazioni vetuste e vari errori di valutazione, del resto Spengler fa il filosofo non il veggente, la diagnosi di Anni della decisione è illuminante. Dalla visione sul nazismo alla critica al liberalismo. Per cui ogni ordinamento liberale non è altro che “un anarchia divenuta consuetudine” che col nome di parlamentarismo, di opinione pubblica, racconta solo la perdita di potere dello stato rispetto ai settori commerciali, la scomparsa di una “autorità governativa consapevole”. Che le rivoluzioni nascono da una autorità in disfacimento, come reazione ad un vuoto di potere. Con la tirannide come peggiore degenerazione dell’estensione del dominio della lotta e dell’indebolimento dello stato portato dal liberalismo. “uno dei segni più gravi della decadenza della dignità dello stato sta nel fatto che l’economia sia più importante della politica”. Il liberalismo è, per Spengler, il portatore di quella cultura dello sradicamento della Kultur dei popoli, a favore della civilizzazione, che altro non è se non il vuoto, l’anarchia, la materia da cui nascono le solitudini, le fughe, in nome dell’oro, del denaro, del primato tecnico finanziario su quello identitario-spirituale. Scontrandosi con i sentimentalismi romantici e idealisti, contrapponendovi un realismo disincantato ed austero. Sostituendo allo spirito borghese quello prussiano. Il prussianesimo che è la volontà della tradizione e dell’educazione all’essere norma morale, all’avere una concezione tragica d identitaria. Pessimista e realista, drammatica ed eroica. Quella della civiltà del sangue, del lavoro, degli Juncker.

Ora la Prussia è un espressione geografica e il mondo e gli ideali definiti in anni della decisione sono ormai tramontati. Ma le logiche, le esortazioni contenuti in questo trattato, il più politico del filosofo tedesco, non vanno archiviati. Dalla permanenze delle religioni delle lacrime ai pericoli di una anarchia divenuta consuetudine. Alla definizione di una concezione tragica e prussiana della vita, antitotalitaria e ribelle, da opporre all’indifferenza e l’apatia della società opulenta, permeata di utopismi disincantati, dalla fuga della realtà, dal fatalismo. Dove le sfide dell’attualità pandemica e globale attendono l’uomo del ventunesimo secolo. Forse anche i successivi saranno anni della decisione: “eccoli i dadi dell’immane gioco . chi oserà gettarli?”. Quali decisioni prendere in tempi così fatidici, Spengler, in tempi forse più complicati, prese la sua. Spengler restò prussiano.

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