Eravamo pronti a contarlo tra i dispersi quando, una volta esauritosi il dramma ucraino, si sarebbero dovute tirare le somme di questa nuova carneficina slava; un gesto di cortesia per celare ai cari superstiti — ossia a noi stessi — l’avvenuta morte per abbandono. E invece, contro ogni previsione, il gigante atlantico della NATO vive e combatte (metaforicamente, almeno per il momento) insieme a noi: strappato al suo sonno pluridecennale dai cannoni di Putin, vorrebbe muovere ora verso Kiev a grandi falcate. Il condizionale, ahilui, è d’obbligo; scopertosi zoppo proprio all’arrivo del nemico, il meglio che gli riesce è una camminata claudicante ed incerta. Colpa di una moltitudine di vecchie ferite, vergognosamente autoinflitte nel tentativo di marcare visita e ai cui nefasti effetti si sta tentando in queste settimane di rimediare con un copioso afflusso di truppe e denaro. Utili stampelle, sì, ma pur sempre stampelle: non bastano a fermare la cancrena che da quelle piaghe, divenute infette, pare essersi estesa a tutto il corpo della NATO.
Viene spontaneo chiedersi come sia stato possibile arrivare a questo punto. Una necrosi, specie una così vasta, non si sviluppa da un giorno all’altro; significa che il vulnus che l’ha causata è profondo e antico. L’anno è il 2008. In aprile l’amministrazione Bush Jr. apre all’ingresso nell’Alleanza di Ucraina e Georgia. L’ultimo colpo di coda di W. ribalta i paradigmi del Patto: per la prima volta è l’Organizzazione a sollecitare l’ingresso dei Paesi interessati, non viceversa. Una timida ma significativa incursione nello spazio post-sovietico a cui i russi reagiscono quattro mesi dopo invadendo la Georgia; per qualche giorno — il conflitto è prevedibilmente breve — la competizione tra grandi potenze torna a tener banco sul palcoscenico internazionale. Troppo poco per trarne le opportune lezioni, men che meno per rendersi conto che l’ordine globale emerso dopo l’implosione dell’URSS è finito. La pax americana e l’unipolarismo che l’aveva accompagnata hanno dato l’ultimo, tardivo sussulto. Tutta un’epoca si chiude in sordina, la sua conclusione offuscata dal crollo di Lehman Brothers e dell’immobiliare a stelle e strisce che in un attimo manda a picco l’economia globale.
Arriva novembre e porta con sé un nuovo inquilino della Casa Bianca. La parola d’ordine per Obama è cambiamento: in politica estera ciò si traduce in un’accresciuta attenzione per l’Asia-Pacifico, con l’Europa occidentale di fatto declassata a teatro ancillare in cui gli statunitensi intendono limitarsi a mantenere lo status quo. Complici il periodo di vacche magrissime e la conseguente austerity, finiscono ignorati gli accordi NATO del 2006, in base ai quali ciascuno Stato membro dovrebbe destinare almeno il 2% del proprio PIL al comparto difesa; il Dipartimento di Stato, in cerca di sostegno per il rinnovato avventurismo americano in Medio Oriente, lascia correre. Quando la recessione e il (primo) mandato di Obama giungono al termine, nel 2012, quell’intesa può dirsi lettera morta: nel Vecchio Continente si guarda alla NATO con crescente indolenza, mentre prosegue la sistematica riduzione delle spese militari . Sotto l’egida tedesca, gli europei aspirano a costituirsi in una “superpotenza civile”, sostenuta dal libero commercio e da una postura internazionale ostinatamente multilateralista e pacifista.
Un progetto assai fragile, che si regge per intero sulla duplice scommessa che Washington continuerà a farsi carico della nostra sicurezza e che il Cremlino abbia gli artigli spuntati: se il primo azzardo paga ancora oggi, il secondo si rivela grossolanamente miope. Non ci interessa addentrarci in una disamina dei nebulosi eventi di Euromajdan, né prendere una posizione nel conflitto che ne è seguito e di cui oggi viviamo presumibilmente la fase finale; al lettore basti il dato di fatto che, dopo il collasso del regime filorusso ucraino, rimpiazzato nel 2013-14 da un governo pro-UE e pro-USA, la Federazione procede ad occupare la penisola di Crimea e ad installare entità amiche nella regione orientale del Donbass. Messo di fronte al fatto compiuto senza poter realmente intervenire, l’Occidente si contenta di rispondere con una serie di sanzioni, timoroso di vedersi tagliate di riflesso le preziose forniture di gas e petrolio. Ancora una volta sfugge la reale portata dell’accaduto; di corsa si torna al business as usual, con sommo sollievo della Germania che è così libera di continuare a camminare sul filo teso dei condotti Nord Stream nell’ennesima, funambolica esibizione di equilibrismo tra Ovest ed Est.
Sotto, nessuna rete; solo l’abisso della faglia che, è chiaro anche ai più disattenti, va aprendosi tra Berlino e gli Stati Uniti. Il lungo flirt teutonico con Mosca irrita gli americani, che correttamente vi intravedono un tentativo di svincolarsi dallo sposalizio forzato sigillato nel 1945; in gioco c’è la ricchissima dote europea della consorte. Trascurata, disorientata dagli avvenimenti e presa nel mezzo di uno scontro al rallentatore come la figlia di questa coppia in crisi, la NATO sembra pronta a saltare dentro il baratro. Una iniziale spintarella gliela dà la Turchia: abbandonato l’idealismo filoccidentale dei primi anni Duemila sotto Erdogan il Paese, isolato dai suoi partner tipici per via dalla febbre neo-ottomana che lo ha ghermito, guarda impudente ad altri lidi pur di soddisfare le sue rinnovate velleità imperiali. Nostalgia canaglia, il contagio passatista buca la quarantena de facto imposta ai turchi e arriva a Parigi, da dove Macron piccona brutalmente l’Alleanza nel malcelato intento di rimpiazzarla con un novello Sistema Continentale reminiscente quello di napoleonica memoria.
L’obiettivo è come allora isolare l’ingerente potenza anglosassone di turno (e i fratelli-coltelli tedeschi) e lasciare campo libero all’egemonia francese. Ma di egemone ce n’è uno solo, totale, e ha messo gli occhi sull’Ucraina. Gli apparati burocratici e d’intelligence di D.C.— rimasti largamente gli stessi nonostante l’imprevisto cambio ai vertici del 2016 — continuano indefessi l’opera di assorbimento cominciata nel 2014, coadiuvati tanto dall’UE quanto dal sempre più anemico blocco atlantico. I due organismi divengono loro malgrado garanti, l’uno politico e l’altro militare, di Kiev e del ruolo di intransigente surrogato antirusso che oltreoceano ci si aspetta ricopra. Né l’uno né l’altro sono davvero disposti o capaci di assolvere al compito loro assegnato, ma gli ucraini s’illudono del contrario, blanditi dai robusti finanziamenti e da fiumi di retorica: un sostegno vuoto, privo di una reale sostanza e il cui solo effetto concreto è stato acuire le tensioni. Eccoci qui, dunque. Con l’Ucraina abbiamo bluffato, e i russi non hanno fatto altro che smascherarci.
E ora? Ora si susseguono le dichiarazioni roboanti, le assicurazioni di unità, i dietrofront a parole. Dato conto di alcuni segnali incoraggianti, c’è poco altro; mentre l’espansione del Patto pare essere stata fermata, quella della cancrena che lo ha colto va avanti. Presa in scacco da Putin e verosimilmente estromessa dal tavolo dei negoziati, la Turchia si vede per il momento costretta a mantenere un’imbarazzante equidistanza tra i due poli che rischia col tempo di trasformarsi in un limbo senza via d’uscita, a tutto vantaggio della Francia. La partita mediterranea che da qualche anno giocano con Ankara vogliono vincerla, e l’arbitro NATO gli è d’intralcio: anche per questo i francesi si preparano a sopprimere quello che considerano un caso terminale. L’occasione potrebbe presentarsi già la prossima settimana, durante il summit europeo straordinario convocato da Macron a Versailles.
È più che lecito aspettarsi che in quella sede il presidente transalpino rilanci l’idea di un sistema di difesa UE. L’Eliseo sa bene che ne assumerebbe la leadership; si tratterebbe nientemeno che della mossa diplomatica del secolo, un colpaccio con cui Parigi riuscirebbe a cacciar via dall’Europa gli Stati Uniti e stroncare le ambizioni turche nel Mare Nostrum. Anche l’influenza della Germania sull’Unione ne uscirebbe inevitabilmente ridimensionata: basta questo per capire che l’annunciata svolta tedesca sulla difesa non è affatto la professione di ritrovata fede atlantista per cui Scholz vorrebbe farla passare. Nel mentre, dagli USA non giunge che un silenzio surreale, e forse è meglio così. Joe Biden è incerto e confuso, Kamala Harris del tutto inadeguata; riesce difficile credere che questa amministrazione possa (voglia?) battere le forze centrifughe che turbinano nell’Alleanza e riportarvi una parvenza d’ordine. Per salvare la NATO potrebbe essere tardi.