Nel giugno del 1844 giunse a Londra la nave dello zar Nicola I. Ciò avvenne a completa insaputa degli inglesi. La regina Vittoria lo aveva invitato senza stabilire con certezza una data e apprese del suo arrivo soltanto poche ore prima che il piroscafo russo attraccasse. Personaggio inquieto, che nel corso del tempo mosterà in misura crescente l’avventatezza del proprio carattere, lo zar era convinto di doversi interfacciare, lui autocrate assoluto di tutte le Russie, solamente con i propri pari. Come se i rapporti tra le potenze fossero dettati dai colpi di testa e dalle decisioni dei propri vertici – effettivi in Russia, poco più che simbolici nel Regno Unito – e non dagli obiettivi strategici delle rispettive nazioni.
La fine delle guerre napoleoniche, il ripristino dell’autorità (non dell’autorevolezza) delle case regnanti legittime in tutto il continente con il Congresso di Vienna del 1815, avevano prodotto un assetto che, sordo alle crescenti richieste nazionaliste e riformiste, era basato sul principio dell’equilibrio inglese e sugli ideali reazionari austro-russi. Eppure lo slittamento che portò in qualche decennio l’Impero Russo a divenire da principale vincitore nelle guerre napoleoniche e protagonista indiscussa del concerto delle grandi potenze a “barbarica” nazione autocratrica, era già in atto e da tempo in quel di Londra. Nell’Europa occidentale (Francia e Inghilterra) investita dalla temperie rivoluzionaria atlantica o già investita messianicamente dal proprio afflato liberale, la Russia diveniva non tanto una potenza alla pari, quanto un orrendo “gendarme”, nonchè una minaccia stessa alla civiltà europea.
Evidente fraintendimento d’intenti, a coprire gli interessi ormai divergenti tra la massima potenza globale ed imperiale britannica e qualunque potenza in grado di compromettere, dal cuore dell’Eurasia, il suo potere marittimo centrato sulla propria perla indiana. Per l’Inghilterra, fattasi Gran Bretagna, il continente è fonte di terrore e di pregiudizio. Un luogo lontano dal loro parlamentarismo liberale e da quell’arrogante pretesa civilizzatrice che troverà degni allievi oltre Atlantico. Gonfiata dal pregiudizio nei confronti di regimi autoritari o presunti tale. Nei fatti, caratterizzata da un terrore atavico verso qualunque soggetto in grado di ergersi ad egemone continentale. Così l’impero napoleonico o la Russia con ambizioni continentali non fanno eccezione. Come non faranno eccezione i tedeschi del Kaiser o di Hitler. Pericolosi affronti al necessario divide et impera inglese attuato senza scrupoli per quasi due secoli ed ereditato dall’impero statunitense.
Dall’altro lato la Russia manifesta ancestrali tendenze egemoniche e claustrofobiche al tempo stesso. Estrema esemplificazione dell’inganno della storia, in grado di mascherare sotto diversi nomi e sovrastrutture un’evidente matrice psicologica insita nella profonda umanità delle nazioni. Allora la missione della Russia era lo zarismo ortodosso, di matrice già quasi panslavista. Devoto alla conservazione dell’ordine europeo per farsene essa stessa garante, assieme agli austriaci. A manifestare l’orgogliosa pretesa russa di essere, oltre che una delle massime potenze del concerto europeo, anche la più decisiva. Con quel piglio autoritario, da protettrice e guida, ossessivamente gelosa tanto dei propri “figli” ortodossi quanto della sopravvivenza della “matrigna”, la Sublime Porta, ancora saldamente ancorata nei Balcani per concessione degli stessi russi. In perenne tensione espansionistica verso i famigerati mari caldi, veicolo di indubbia espansione e di potenza assoluta, come pure in maniera fallimentare aveva già intuito lo zar Pietro il Grande. Quest’ultima tendenza aveva trovato uno sfogo nella mai sanata ambizione russa di far propria Costantinopoli e di ripristinare l’impero romano d’Oriente, di cui i russi si sentivano e si sentono eredi. Un secolo prima ci aveva provato anche l’“illuminista” zarina Caterina, peraltro ideatrice del colonialismo russo in Crimea e degli insediamenti della Nuova Russia, oggi cuore del fronte ucraino della “Guerra Mondiale a pezzi”. All’epoca dello zar Nicola I e già sotto suo padre Alessandro I, fu la contesa per l’accesso dei pellegrini russi cristiano-ortodossi al Santo Sepolcro ad accendere la rivalità tra la Sublime Porta e l’impero zarista. Tale rivalità era destinata a sfociare in guerra aperta, in un’“ultima crociata”, come è stata soprannominata dallo storico Orlando Figes, destinata a deflagrare in quella Crimea divenuta autentica faglia naturale della contesa anglo-russa (o russo-occidentale) fino ai nostri giorni. A perpetuarsi, carsicamente, fu però anche l’immagine e la reciproca incomprensione tra le parti. E nel voler riportare la stizza dello zar dinanzi alle critiche occidentali dei modi adoperati per reprimere le rivolte polacche, sembrano riecheggiare tutti i decenni e i secoli successivi di presunto doppiopesismo, tanto caro secondo i russi agli ambienti liberali:
«I polacchi erano e rimangono tuttora in ribellione contro il mio governo […]. Cosa direste se diventassi protettore di O’Connell [leader dell’indipendenza irlandese] e pensassi di nominarlo mio ministro?»
Ha radici lontane l’amore tutto inglese e francese per i destini della Polonia, ritenuto autentico baluardo contro l’avanzata della “barbarie” asiatica. In seno ad una crescente russofobia degli ambienti istituzionali francesi (a trazione ultracattolica) e inglesi (devoti all’idea di un’Inghilterra paladina della libertà), la lotta per l’indipendenza polacca assunse un significato particolare. L’Inghilterra si fece portavoce di una propria auto-proclamata guerra tra la civiltà e la barbarie, o presunta tale, della difesa dei “piccoli” dai “soprusi dei grandi”, evidentemente dimentichi della stazza dell’impero britannico; idea che puntellò le guerre inglesi dal 1854 al 1939. Fino alle più recenti, ancora congelate nella dimensione apparentemente per procura. Gli anni ‘40 dell’Ottocento segnarono la rottura delle relazioni con la Russia. Tracciarono le linee guida della scontro tra Occidente e Impero Russo, lungo tutta la storia:
«La Russia è una potenza aggressiva e basta uno sguardo alle acquisizioni territoriali realizzate nel corso di un secolo a dimostrare tale fatto al di là di ogni possibile obiezione.»
Così scriveva Krasinski, uno degli esuli scampati alla repressione russa dei moti indipendentisti polacchi. Il timore che la Russia potesse spazzare via con il suo “barbarico” autoritarismo la civiltà europea, prese piede nelle principali cancellerie europee. Si diffuse già allora, in un misto di paternalismo e velato razzismo, la compiaciuta consapevolezza occidentale che mai la Russia avrebbe adottato il sentiero costituzionale tracciato dalle nazioni occidentali. La demonizzazione era già in corso, anche in ambienti filosofici ed intellettuali. Così Karl Marx stesso denunciò nel 1849 da Londra – lui pienamente occidentale e occidentalista – la Russia come nemica della libertà. Sembrano riecheggiare, due secoli prima del conflitto in corso, la temperie russofoba e l’incomprensione delle reciproche aspirazioni, mascherate da sovrastrutture ideologiche (difesa della libertà contro tutela dell’ordine; tutela della civiltà occidentale contro aspirazione russa a difendere il proprio cortile di casa slavo, slavofono e ortodosso). Coltivate negli apparati occidentali e amplificate da ambienti intellettuali progressisti; affiancati da consuete paternali sulla forma di governo autocratica dei russi. Come se solo in essa si esprimesse il maggiore o minore grado di consapevolezza di un popolo. Per citare Dario Fabbri:
«È occidentale convinzione che i popoli s’esprimano soltanto nelle urne, nella rappresentatività individualistica dei nostri sistemi elettorali. Migliore dei mondi possibili, certo. Ma il plurale già segnala imparzialità.»
Riecheggiava già allora la risposta stizzita dei Russi, convinti a un tempo di essere legittimamente una grande potenza europea e mondiale e incapaci di comprendere le manovre occidentali. Nell’amarezza dello zar, vistosi abbandonato dagli inglesi ritenuti dei partner affidabili per una futura spartizione e gestione dell’impero ottomano al collasso, risuona tutta la costernazione russa, dinanzi all’incredibile comportamento dei propri presunti pari.
«Non comprendo il comportamento di Lord Palmerston. Se sceglie di fare la guerra contro di me, che lo dichiari apertamente e lealmente. Sarà una grande sciagura per i nostri due paesi, ma sono rassegnato ad essa e pronto ad accettarla. Dovrebbe però smettere di giocarmi dei tiri a destra e a manca. Una tale politica è indegna di una grande potenza. Se l’impero ottomano esiste ancora, questo lo si deve a me.»
Arroganza, certo, mista però soprattutto ad incredulità per il comportamento degli inglesi, con colpevole ignoranza della crescente e profonda ostilità occidentale verso San Pietroburgo. Al 4 ottobre del 1854, lo scoppio della guerra tra Russia e Impero ottomano, cominciata per i pellegrini russi in Terra Santa, estesasi alla difesa degli ortodossi balcanici, trascinò con sé proprio l’Inghilterra e la Francia – coadiuvati dai bersaglieri piemontesi, tatticamente impiegati da Cavour come pedina di scambio per la ricerca di alleati al tavolo dei vincitori – a fianco dei turchi. Nata come crescente incomprensione, nutrita dalla fobia tutta occidentale nei confronti dei russi e dalle ambizioni russe scollegate dal riconoscimento delle stesse da parte delle cancellerie occidentali, la guerra esplose su forzatura del “piccolo” Napoleone III, nipote del condottiero, espressione dell’esigenza francese ad esprimere con una manifestazione muscolare il ritorno della Francia tra le grandi potenze. Parallelismo, ad oggi, oltremodo inquietante. Telefonare a Macron per conferme o smentite.