Cento anni fa veniva profetizzato il trionfo del cesarismo sul denaro, fase estrema di una civiltà ormai calante, al termine del secondo volume del Tramonto dell’Occidente di Spengler. Spengler però non visse abbastanza per contemplare le rovine dell’Europa lacerata dalla Seconda Guerra Mondiale, né la contrapposizione tra i blocchi, né il trionfo apparente di quell’unica e potente visione incarnata dal mito del progresso, della tecnica, del capitalismo, dalla consapevolezza – o dall’autoconvincimento – occidentale e ormai mondiale, di vivere al culmine della civiltà umana. Spengler non vide insomma affermarsi e crollare repentinamente quel cesarismo profetizzato, incarnato dai regimi totalitari destinati a soccombere con la guerra; né fu in grado di prevedere la prosecuzione quasi ininterrotta delle dinamiche del declino attraverso tutta la seconda metà del ‘900 e fino ai primi decenni del nuovo millennio. Nel saggio edito Mimesis, Per la critica della notte, il più recente traduttore italiano del Tramonto dell’Occidente di Spengler, Giuseppe Raciti sintetizza sulla base di un racconto di Manfred Schröter il senso del tramonto euro-occidentale:
«Schröter indicò la finestra davanti alla quale vorticava la neve e disse: – Il simbolo di questa fase della nostra civiltà. – Sì – rispose con vigore Spengler, – ma è un inverno al quale non seguirà mai più una primavera.»
Giuseppe Raciti
Proprio nel dialogo di Spengler con Schröter, l’inverno diviene “eterno”. Una morte perenne. La ciclicità e il susseguirsi di rinascita e decadenza tra le varie civiltà sembrano arrivare ad un punto di non ritorno. All’apice – o nel fondo – di tale processo, nel bel mezzo della più grande pandemia globale nella storia dell’uomo, affermatasi sull’onda di un processo di globalizzazione inarrestabile; nel cuore di un allargamento illimitato delle possibilità dell’essere umano di mettersi in collegamento con ogni angolo della terra in ogni momento, siamo così giunti ad un secolo dalla pubblicazione del Tramonto, ed è oggi emerso uno “Spengler italiano”.
Trattasi del professor Beniamino Massimo Di Dario autore, per la prestigiosa casa editrice Nino Aragno di Torino, di un lavoro monumentale e dal titolo eloquente: Del declinare del mondo pubblicato nel 2021. Trattasi di un testo che, a differenza di quanto avvenuto con Spengler, è passato incredibilmente – o forse volutamente – sottotraccia. La simbologia richiama a Spengler, ma la matrice e la fattura del testo richiamano a Plotino, Vico, Guénon, Cioran, Nietzsche, Heidegger, Jünger – solo per citarne alcuni – ed è frutto di un’elaborazione durata dieci anni. Più che di un trattato, che in Spengler si sviluppa ponendo innanzitutto le basi di una interpretazione delle forme e delle caratteristiche delle singole tappe di formazione e disfacimento delle civiltà, il lavoro di Di Dario somiglia ad un epitaffio, un congedo dalla realtà declinante. Un requiem vero e proprio, dato da un susseguirsi di lettere che l’autore rivolge a diversi grandi uomini e pensatori del passato, ai cantori di una visione ciclica e metafisica della storia, come anche ai cittadini della cosmopoli presente. Un epistolario che è riaffermazione di una visione ciclica e metafisica della storia del mondo, ma è anche e soprattutto una disincantata contemplazione delle rovine di un mondo già in decomposizione.
In principio vi è dunque il ritorno ad una metafisica della storia. Una lettura analogica tra le diverse fasi evolutive delle civiltà umane e l’individuazione di “simboli”, che lungi dal rappresentare delle semplici manifestazioni casuali o il prodotto di condizioni economiche e sociali definite e circoscritte, sono la naturale espressione della fase di vita di una determinata civiltà. Così, nella lettera a Plotino, nel pieno della crisi dell’Impero romano, Di Dario spiega l’importanza del meccanismo analogico:
«Ancor più del medico esperto che scruta pochi segni per dedurre uno stato di salute, chi considera il sostrato metafisico della manifestazione può decifrare i fenomeni storici come simboli. Allora quel che affiora, indipendentemente da quanto affiora, basta a ricostruire interi scenari.»
Beniamino Massimo Di Dario
La prospettiva metafisica permette anche di fuggire da quella che già in Spengler era definita una prospettiva da rana, che in Di Dario diviene prospettiva da pesce rosso, il quale vede nel proprio acquario l’unico mondo concepibile. In altre parole, è la prospettiva esemplificata dalla civiltà occidentale e globale al tramonto che prova a porre rimedio al declino ricorrendo agli strumenti generati all’interno di quelle stesse condizioni, nel grembo del declinare stesso: un pesce rosso destinato “a girare in tondo in una boccia delirante”.
Liquida è una fase estrema che non è più declinante, ma è già declinata. Il liquefarsi segue al rigor mortis, che Di Dario identifica nell’irrigidirsi delle forme nei regimi totalitari, in apparenza un argine al divenire e al disfarsi del mondo delle forme, di fatto una manifestazione ulteriore del dominio delle masse, inquadrate nella rigidità del totalitarismo che da esse pure dipende. Come a dire che totalitarismo e democrazia sono prodotti della medesima ascesa delle masse in politica (e su questo lo stesso Emilio Gentile è concorde). La storia è già finita. Il ciclo mondiale è giunto al suo compimento. Tale ciclicità si sviluppa nella lunga lettera che Di Dario riserva ad Ernst Jünger, in cui si definiscono le caratteristiche del susseguirsi ciclico e sferico delle civiltà umane. Le caratteristiche di ognuna sono quelle antropologiche, fisiologiche e psicologiche di ogni individuo umano in sviluppo, che richiamano a Vico.
Così le civiltà dell’infanzia sono quelle del bambino che “apre i suoi occhi avidi sul mondo e ne prende possesso tra naturalezza, incoscienza e limitazioni.” Le civiltà mesopotamiche, quella egizia o quella cinese arcaica, civiltà dominate dalla bellicosità del fanciullo, dominato dalla sua incosciente volontà di possesso, in forme quasi giocose. La morte è lontana, “un sogno”, come viene definita nell’ Epopea di Gilgamesh. È incomprensibile, avvolta nel mistero.
Alla fanciullezza segue un’adolescenza che è crisi e trauma. Pura esplosione vitale, sul finire della quale subentra un momento di raccoglimento e di riflessione – caratteristico, assieme al trionfo graduale della moltitudine atomizzata e al trionfo della vita cittadina, di ogni fase calante – che coincide con l’avvento della filosofia. Di Dario mette a confronto tale interpretazione con la definizione che diede già Jaspers del periodo tra l’800 e il 250 a.C., quale periodo assiale dell’umanità e del pensiero filosofico. La filosofia greca, Buddha, Zoroastro, Confucio e le Cento Scuole sorsero tutte in questo periodo. Soprattutto però, è il sorgere del pensiero razionale che fa scattare il declino della fanciullezza e il successivo passaggio all’età adulta.
Con le dovute differenze dalla lettura storico-analogica di Spengler, che pone l’impero romano non tanto al culmine di una fase di maturità dell’uomo, quanto piuttosto al tramonto dell’antichità greca-ellenistica, Roma diviene in Di Dario l’emblema della maturità della civiltà umana, come gli Han in Cina, o i Gupta in India. La potenza diviene ordine e controllo. L’estate adolescenziale cede il posto ad un autunno in cui si ha chiara coscienza del proprio compito, ma già si preannuncia l’inverno della vecchiaia. Qui il simbolismo più importante è dato certamente dal crescente incedere dell’elemento religioso e dalla individualizzazione di tale processo. Il rapporto diviene sempre più personale. La maturità si forgia nell’insicurezza e nel crescente timore della morte e della finitudine. Il trionfo delle masse, simboleggiato già dall’esercito di leva e di “massa” romano, si accompagna al rapporto sempre più ampio con la propria interiorità ed individualità (come emerge nelle riflessioni di Marco Aurelio).
Ecco che l’umanità entra nella sua ultima fase. Gli ultimi cicli imperiali cinesi, fino alla Cina moderna; il mondo islamico; la civiltà occidentale che germoglia dal collasso del sistema imperiale romano e dalle radici medievali ed è destinata a rivestire delle proprie forme gli scheletri già senza vita delle civiltà mondiali. La civiltà occidentale è destinata a diventare civiltà mondiale, e ad accompagnare il mondo verso l’ultima fase del proprio ciclo vitale. L’ascesa delle moltitudini che conserva l’irruenza della gioventù e dell’adolescenza, ancora nell’anno 1000, si va così definendo come il ciclo vitale di un “vecchio” che alla fine dei suoi giorni “conosce la vita e sa che non vale la pena fare determinate cose, che tutto prima o poi viene a noia, che alla fine non vale la pena far nulla: giungerà il momento in cui neanche vivere varrà più la pena”. Al caos originario, che precede la visione del mondo del fanciullo, segue un caos nuovo che è quello di un essere definito in Goethe “morente, prossimo alla decomposizione”. L’uomo occidentale della civiltà liquida, è l’uomo della megalopoli e della rete internet. Il trionfo delle masse è trionfo dell’egualitarismo e del conformismo:
«Internet concretizza l’egualitarismo; privo di qualsiasi gerarchia, conosce solo rapporti orizzontali, acefali e adespoti. Chiunque può trattare da pari a pari con chiunque altro in qualsiasi campo.»
Beniamino Massimo Di Dario
Oppure è la società del progresso tecnico, giacché il morto per tenersi in vita necessita di un supporto tecnico, che non è altro che l’evoluzione di una metafisica della salvezza già insita nel cristianesimo. Così, Di Dario dà merito a Nietzsche di aver compreso la radicale influenza dell’escatologia cristiana sul mondo occidentale, giunto ai suoi ultimi fuochi:
«La salvazione individuale, promessa che il cristianesimo non è riuscito a mantenere, può essere ora adempiuta dall’uomo, attraverso la scienza»
Beniamino Massimo Di Dario
La tecnica che già Emanuele Severino richiamava come l’estremo limite dell’estremo errore dell’umanità. Il dominio sul divenire dispiegato all’ennesima potenza e il tentativo di porre argine a quel timore della morte che, nel maturare delle fasi di crescita della civiltà-uomo, è divenuto sempre più ossessivo. Nella legge fisica e matematica, nel sacramento della scienza vi è l’insorgere dell’uomo contro la propria finitudine. Una verità ritenuta eterna ed immutabile, che serve solo a lenire l’animo di una umanità già priva di appigli metafisici.
Non si illude il metafisico della storia che tale processo possa avere un termine:
«La storia della civilizzazione mondiale non è altro che la storia del post-mortem. La tecnica che la tiene artificialmente in vita e che prolunga in maniera spettacolare l’ultima fase del ciclo è tecnica disanimata, glaciale, cadaverica. Che essa sia in grado di estendere con artifici titanici e straordinari la vita mondiale per decenni o per secoli cambia davvero molto poco.»
Beniamino Massimo Di Dario
Non si illude, Di Dario, nemmeno del ruolo e dello scopo che può attribuirsi chiunque giunga ad un grado di consapevolezza tale da cogliere un simile processo, senza esserne del tutto assorbito. Il destino di un’umanità del post-mortem, afflitta dalla consapevolezza della morte del mondo, è quello di essere un’umanità di privilegiati. Ma tale privilegio consiste nell’essere i primi nella storia dell’umanità a contemplare lo spegnimento della civiltà.
Le ultime lettere di Di Dario, una destinata a Hiroo Onoda, soldato giapponese che rimase a combattere nella giungla per altri trent’anni dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, l’altra a Yukio Mishima e alla sua sortita dal mondo di cui sente di non far più parte, sono molto esemplificative. Simboleggiano l’idea di un destino portato avanti fino alla fine, come testimoni delle rovine del mondo. Al reazionario che vorrebbe far rivivere elementi di un passato irrecuperabile, Di Dario contrappone l’immobilismo e la coscienza del Fato destinatoci. Viene così esemplificata l’immagine di decaduta potenza dell’ Ozymandias di P.B Shelley, con cui Di Dario apre il suo Del declinare del mondo, simile ai dipinti che ritraggono le rovine di Roma divenute pascoli per animali, o agli scenari dei racconti di Clark Ashton Smith, ai ruderi maestosi degli Antichi in Antartide nelle “Montagne della follia” di H.P. Lovecraft o al canto della ginestra di Leopardi. Una decadenza perenne, tenuta in vita dalla tecnica. Decomposizione infinita o inverno eterno come in Spengler, di cui il metafisico della storia, come un “sacerdote della fine”, può solo contemplare le ultime vestigia.