Troppo spesso si tende a rintracciare nei fattori economici la causa della crisi demografica. Questi però rappresentano solo elementi di superficie. In realtà ciò che veramente determina tale fenomeno è la perdita di senso della vita. La rinuncia a vedere nei figli noi stessi, la nostra continuazione, così come non vediamo più noi stessi come la continuazione dei nostri progenitori. È la morte della storia, il ripudio della continuità, l’appiattimento della nostra vita sul presente che rendono l’uomo sazio di sé stesso.
Il primo dicembre 2023 è uscito il 57° rapporto CENSIS sulla situazione sociale del paese. Uno dei temi centrali del rapporto è la grave crisi demografica che l’Italia sta affrontando e che, dalle previsioni, continuerà a peggiorare nei prossimi decenni. Le nascite diminuiscono e l’aspettativa di vita aumenta. Nel 2023 sono state registrate 379mila nascite, il minimo assoluto dall’unità d’Italia (1861). Secondo le proiezioni, la popolazione fino ai 34 anni che oggi conta 19,4 milioni di persone, nel 2050 si ridurrà a 15,6 milioni. Mentre la popolazione dai 65 anni in su che oggi conta 16,5 milioni di persone, nel 2050 sarà composta da 22,7 milioni di persone. Queste drammatiche prospettive richiedono una riflessione sulle conseguenze, ma soprattutto sulle cause che hanno determinato tutto ciò, poiché solo individuando i fattori scatenanti si potrà cercare di trovare delle soluzioni adeguate per tentare di invertire la rotta nel lungo periodo.
Riguardo le conseguenze, le possiamo raggruppare in economiche, socio-politiche e geopolitiche. Le più facili da immaginare sono senza dubbio quelle economiche. Una considerevole diminuzione della popolazione in età da lavoro e, al contempo, un aumento di quella in età pensionistica inciderà negativamente sulla produzione e quindi sul PIL nazionale. La spesa pensionistica sarà sempre maggiore ma la forza lavoro tenderà a diminuire. L’innovazione tecnologica potrebbe aiutare ad aumentare la produttività, ma compensare un simile divario sarà una sfida al limite dell’impossibile. L’aumento della popolazione anziana comporterà anche un cambiamento radicale nel settore produttivo e dei servizi. L’economia italiana cercherà di adattarsi alla struttura demografica. Probabilmente si moltiplicheranno le attività nei settori sanitari e di assistenza agli anziani. Tendenza già oggi abbastanza evidente. Molto presto ci si dovrà interrogare quanto potrà reggere il tessuto industriale italiano con una simile inversione demografica tra vecchi e giovani.
Ancor più drammatiche delle conseguenze economiche saranno quelle socio-politiche. In ogni nazione, la maggioranza condiziona inevitabilmente la minoranza. Non necessariamente in senso ideologico ma soprattutto emotivo e culturale. Una popolazione anziana è per sua stessa natura conservativa, focalizzata alla cura di sé. Guarda con malinconia al passato, con sofferenza al presente, con timore al futuro.
Essa rappresenta la “saggezza” della prudenza. Verrà così naturale ricercare nei (pochi) giovani i medesimi tratti caratteriali. Oltretutto, se la politica è lo specchio della società, i giovani saranno destinati ad essere sottorappresentati nella politica, la quale guarderà sempre più agli anziani come naturale bacino elettorale, rispecchiandone le necessità.
Si creerà un circolo dell’invecchiamento collettivo che non riguarderà solo l’età effettiva, ma anche l’età mentale e culturale del popolo italiano.
Audacia, ambizione, avventatezza, proiezione verso il futuro. Tipici tratti giovanili che talvolta portano ad errori, ma allo stesso tempo (o proprio per questo) a creare il nuovo nella propria vita e nella società, vivranno costantemente sotto la cappa della “saggezza” altrui. Saggezza che, come diceva una vecchia canzone, “troppo spesso è solamente la prudenza più stagnante”.
In una società che confonde la conoscenza con la semplice acquisizione di informazioni, si dimentica che la saggezza sorge dal viaggio che la precede. Non si può diventare saggi se non si è stati avventati. La saggezza non è una condizione che va al di là del tempo e dello spazio, ma il risultato di un’esperienza vissuta. Ecco perché, già oggi, i giovani che accarezzano col pensiero la senilità, nell’ostentare la loro (presunta) saggezza mostrano la propria dogmatica ideologia. Vengono insegnati loro principi e ideali di cui non hanno mai fatto esperienza (né dei loro contrari). Così, nel pretendere da loro il sacro rispetto, questi non possono che immagazzinarli in maniera dogmatica senza razionalizzarli, senza renderli pienamente parte di sé.
Ma le dinamiche demografiche devono tenere conto anche del contesto geopolitico attuale. La crisi dell’ordine internazionale a guida USA è ormai sotto gli occhi di tutti. Dall’Ucraina al Medio Oriente, dall’Africa all’Indopacifico, innumerevoli sono oramai i teatri di crisi che richiedono la nostra attenzione. Ovviamente si spera per il meglio, ma è necessario prepararsi per il peggio.
In particolare, la guerra in Ucraina e il dibattito sul maggior impegno europeo nel conflitto ha portato a riflettere sul ruolo e la composizione delle forze armate. Se c’è una cosa che la guerra in Ucraina ha insegnato, infatti, è che l’innovazione tecnologica in ambito militare non può sostituire (in parte o in tutto) il fattore umano. È necessario disporre di un gran numero di uomini, sia per difendersi sia per attaccare. Ma soprattutto è necessario disporre di giovani che siano disposti a difendere la propria patria. Questo non solo quando la guerra si impone sul proprio territorio (si veda appunto l’Ucraina e i problemi di mobilitazione), ma anche per quei “fortunati” che osservano la guerra da lontano e hanno il tempo di riflettere sulle strategie da mettere in campo (Italia e altri paesi europei).
Con una crisi demografica come quella italiana, la questione dell’arruolamento delle forze armate sarà un problema da non sottovalutare. Un problema che non riguarderà solo il numero ma, come più volte ripetuto, anche la mentalità: pochi giovani e comunque non attratti dall’idea di intraprendere un percorso nelle forze armate poiché non disposti a combattere per la propria nazione. Una popolazione con un’età mediana che sfiora (oggi) i 50 anni sarà inevitabilmente portata a rifuggire dai rischi che la circondano. Non è un caso che in Italia e in Europa si sia riacceso il dibattito sull’introduzione della leva obbligatoria e sulla possibilità di arruolare cittadini stranieri nelle forze armate.
Questo breve excursus sulle conseguenze, certamente non esaustivo, serve a prendere coscienza dell’importanza della tematica in oggetto, troppo spesso liquidata nel dibattito nostrano come fosse un mero problema di sistema pensionistico (non a caso) e di forza lavoro. Considerato però il ventaglio delle innumerevoli conseguenze negative a cui ci esporrà, si pone come necessario comprendere soprattutto da dove origina il problema demografico italiano, poiché solo individuando le cause si potrà sperare di trovare strategie per modificare gli effetti sin qui descritti. Non sorprende che in Italia, quando si parla di calo delle nascite, l’attenzione si rivolga quasi esclusivamente a fattori economici. Siamo intrappolati nell’economocentrismo.
Si prenda ad esempio la rilevazione di un sondaggio pubblicato nel giugno 2023 da “Demografica” (progetto editoriale di Adnkronos) nel quale gli intervistati, alla richiesta di individuare quali siano i principali fattori collegati al drastico calo delle nascite, hanno risposto come segue: 1) aumento del costo della vita; 2) precarietà del lavoro; 3) basse retribuzioni; 4) carenza di servizi per i figli. Se ci si sofferma sull’aspetto puramente intuitivo di tali risposte si potrebbe essere portati a pensare che tutto il problema sia di natura economica. Tuttavia non bisogna mai dimenticare che ogni azione e inazione, pur avendo un risvolto economico, non si esaurisce nell’economia. Anzi, spesso la componente economica è solo marginale. La punta dell’iceberg che si erge sopra un ben più ampio sostrato culturale e sociale.
Scavando più in profondità, dunque, i quattro fattori summenzionati possono essere inquadrati come prerogative di una società che, a differenza delle precedenti, non è più sicura di poter garantire ai figli un futuro migliore del proprio. I nostri padri e nonni, infatti, potevano contare sulla promessa sociale (effettivamente mantenuta) che assicurava per la progenie un futuro migliore. L’ascensore sociale era al centro delle garanzie offerte dalla politica. Oggi questo processo si è indubbiamente inceppato. È ben comprensibile, quindi, che i potenziali genitori di oggi siano riluttanti a procreare se la consapevolezza è quella di lasciare ai propri figli un futuro di pericolose incertezze piuttosto che raggianti di speranze. Oltre a questo, un altro aspetto da tenere in considerazione è la carenza di servizi per i figli, di efficienti politiche di sostegno alle donne lavoratrici. Se infatti non si supporta l’emancipazione della donna con adeguate misure di sostegno alla genitorialità, il risultato non può che essere un importante calo delle nascite.
Potremmo andare avanti con la descrizione di ulteriori fattori di “superficie” che incidono sull’inverno demografico italiano. Cose già sentite e risentite che, nonostante racchiudano porzioni di verità, rappresentano fattori di secondo livello. Non vanno al cuore del problema. Sono essi stessi effetti di cause ben più profonde. L’aspetto centrale, invece, riguarda la trasformazione da una logica collettiva incentrata su stato e famiglia, ad una prettamente individuale che negli anni ha avuto come bersaglio proprio lo Stato e la famiglia.
La famiglia è la precondizione dello stato. È qui che avviene per la prima volta la formazione di un’identità collettiva che trascende la mera individualità. Identità, riconoscimento, partecipazione all’interesse collettivo, relazioni di autorità e dipendenza; sono tutti elementi essenziali della vita sociale di uno stato che si apprendono prima di tutto nella famiglia. È tramite la famiglia che l’individuo inizia a percepire gli altri come parte di sé. Processo di riconoscimento reciproco che avviene similmente nello stato. Tutto ciò non ha a che fare solo con l’istinto primordiale che fa dell’uomo un’animale sociale per natura. Questo infatti potrebbe risolversi nella semplice negazione della solitudine, il ché non implica necessariamente la partecipazione al collettivo nel quale questo diventa parte di sé stesso, della propria identità. Si può infatti soddisfare il bisogno di stare con i propri simili erigendo un muro di invalicabile alterità con gli altri. Un’individualità assoluta, separata e disillusa, che vede negli altri niente più che un’innocua compagnia.
La compagnia è diversa dalla famiglia (e poi dallo Stato) per via dell’esigenza che da cui deriva. Negli animali le due dimensioni si intersecano, poiché la necessità di stare coi propri simili e di portare avanti la propria specie si risolve nella famiglia e questa non ha altro scopo se non questo. È l’uomo che scinde i due aspetti, costruendo sulle spalle delle necessità i propri desideri. Entrambi, quindi, sorgono per necessità, ma si alimentano per volontà. Il vero desiderio che per secoli ha alimentato la famiglia è l’immortalità. Il desiderio di non esaurire la propria individualità in sé stessi, condannandosi ad una infausta precarietà senza scopo. La famiglia, infatti, non offre solo un rifugio materiale nel presente, ma ci permette di volgerci al passato e ritrovare noi stessi nei nostri progenitori, per poi guardare al futuro e vedere nella discendenza la nostra continuazione.
La famiglia è usata come stratagemma per aggirare la caducità della nostra esistenza. Ci offre la continuità che tanto aneliamo permettendoci di non abbandonare la vita. Di disporre di uno scopo e di agire in virtù di questo. Lo Stato, la nazione, la comunità in generale, determinano desideri simili a quelli innescati dalla famiglia, ma con legami inevitabilmente più laschi per via del maggior livello di astrazione. Un tempo l’identità collettiva faceva breccia nei cuori degli individui nella forma dell’appartenenza familiare e nazionale. Dalla prima aveva origine l’esigenza di procreare. Non perché l’intento esplicito fosse l’immortalità. Questo si poneva come motivazione indiretta prima dell’azione e come appagamento al suo compimento. In altre parole, la convinzione diffusa che i propri figli fossero la continuazione del proprio sé nel futuro – il nostro lascito alla continuità della vita – così come noi siamo la continuazione diretta dei nostri avi, è all’origine di quel desiderio immediato di procreare che, ovviamente, non può presentarsi alla coscienza in siffatta forma. È necessario che si renda più appetibile all’intelletto soggettivo. Così, se la motivazione remota (o indiretta) è rappresentata da ciò che abbiamo testé descritto, quella prossima (o diretta) si mostra come un senso di incompletezza che deve essere colmato tramite la generazione di un sé che è, allo stesso tempo, un Noi e un Io.
Solo rendendo l’altro parte di sé è possibile agire per l’altro, anche a costo di limitare sé stesso. È così, quando si ha tra le mani la propria creatura, l’uomo raggiunge due dei suoi più importanti ed eterni obiettivi: (a) creare qualcosa di proprio e (b) riporre in esso sé stesso, così da rendersi “immortale”. In questo modo una parte di sé continuerà a vivere dopo di lui. In tale concetto giace il senso stesso dell’amore dell’uomo per la Storia. Cos’è, infatti, che anima lo studio del passato se non il profondo desiderio di conoscere da dove proveniamo (come esseri viventi, come specie, come popolo, come famiglia)?
Il futuro necessita del passato per essere pensato e anelato. Non si può ambire a creare una continuità nel futuro se non si crede nella continuità del presente col passato. Non si può aspirare alla continuità di sé stessi nei propri figli se non si è convinti, in primis, di essere noi stessi la continuità dei nostri avi. È la Storia che rende possibile il futuro. Appare forse più chiaro ora perché l’inverno demografico abbracci soprattutto quei paesi che hanno fatto della Storia il principale nemico. Si guarda alla storia umana solo per erudizione personale, come si farebbe con reperti archeologici del Cretaceo. La continuità è bandita, il passato riscritto. Il presente è il regnante senza predecessori né successori. Abbiamo deciso di rinunciare al più istintivo degli scopi umani per abbracciare il non-senso della vita. Un circolo di autodistruzione.
Senza la Storia si distrugge il senso stesso di comunità. La famiglia vien vista come accidente, lo stato come oppressore. Non vi può essere altro punto di vista se non quello individuale. Se un tempo il soggetto guardava al mondo, non solo come individuo, ma anche come membro di una famiglia e di una nazione, oggi queste ultime tendono a sparire (in psicologia sociale si direbbe che non sono più “appartenenze salienti”). Perdendo il senso di continuità si perde anche la consapevolezza dello sviluppo storico degli eventi. Libertà, diritti, appartenenza di territori. Cose che oggi si considerano acquisite poiché presenti in un foglio di carta che li certifica, ignorando lo sviluppo storico – fatto di lotte e guerre nelle quali si agiva come collettivo e non come individuo – che le ha portate ad essere impresse in quel foglio. Per un individuo che esaurisce la sua identità in sé stesso sarà dunque difficile trovare nella procreazione una fonte di arricchimento. Non andando a colmare quel senso di appartenenza collettiva di cui abbiamo parlato, i figli verranno visti esclusivamente come un impegno che sottrae tempo prezioso alla nostra breve esistenza.
Individui fortemente autocentrati non potranno che vedere nella procreazione un’inutile limitazione della propria libertà. Un impedimento alla propria realizzazione personale. Orfani di un passato giudicato patrigno, non manifestano il desiderio di lasciar traccia di sé dopo di loro. La storia inizia e finisce con sé stessi. Ecco dunque che l’idea che alla base del problema demografico vi siano principalmente fattori economici, appare semplicistica e fuorviante. Non si può analizzare un aspetto così umano come fosse una tendenza ai consumi. Ogni azione e inazione deriva in primis da fattori culturali e concettuali che si incarnano nella concretezza delle decisioni prese. Inoltre, più è profondo e complesso il problema, meno si è consapevoli delle proprie azioni.
È inevitabile che nel riflettere sulla propria condizione si abbia maggior consapevolezza di quei fattori che si possono concretamente individuare, come appunto gli aspetti economici. Ma anche questi hanno un’origine, la quale è rintracciabile come idea, cultura, costume. Ciò che non può essere rintracciato in un punto specifico poiché, come l’energia, si sviluppa tra le parti. Priva di baricentro e dai contorni sfumati, è sostanza sfuggente poiché si presenta e agisce solo come sintesi delle parti (queste sì evidenti e quindi rilevabili con certezza). Non per questo dev’essere scambiata per sovrastruttura, come vorrebbe Marx. Entrambi agiscono l’uno sull’altro modificandosi, ma non bisogna perdere di vista qual è l’origine di questo rapporto, che vede sempre un prodotto e un produttore. Per comprendere le ragioni della crisi demografica italiana è necessario scavare ben più in profondità.
Come la psicanalisi individuale rintraccia nel passato i traumi che spiegano i comportamenti e le sofferenze nel presente, allo stesso modo si dovrebbe fare per ciò che va al di là del singolo individuo. Ma, appunto, il ripudio della storia, oltre ad essere all’origine dei problemi discussi, impedisce anche di effettuare una corretta analisi. Analisi che potrebbe essere, al tempo stesso, diagnosi e cura.