Il saggio dell’economista Pier Giorgio Ardeni, intitolato Le classi sociali in italia oggi, edito da Laterza nella collana Anticorpi, è un lavoro che ha per oggetto qualcosa di cui non si sente spesso parlare. Infatti, gli scienziati sociali occidentali da tempo non hanno utilizzato più il termine classe per definire un’entità collettiva che raggruppa gli individui aventi interessi economici, sociali e culturali comuni. Proprio nell’epoca postmoderna in cui esse sono date per estinte, utilizzare questo concetto negli studi scientifici e divulgativi viene interpretato come anacronistico o provocatorio, come nei due saggi più famosi che sono stati iscritti sulla disfunzione del sistema capitalistico: Debito di David Graeber del 2012 e Il capitale nel XXI secolo di Thomas Piketty del 2014. Altri studiosi hanno preferito concentrarsi sul fenomeno sociale della “cetomedizzazione” e della “terziarizzazione“, come ha postulato Giuseppe De Rita.
A livello metodologico e concettuale, il lavoro di Ardeni ha l’obiettivo di mettersi in continuo con lo studio di Paolo Sylos Labini, Saggio sulle classi sociali pubblicato nel 1974, prima opera sistematica in cui venne tentato di inquadrare la struttura delle classi sociali in Italia tra il 1951 e il 1971 tramite l’utilizzo di dati statistici. Sylos Labini elaborò la tesi nella quale veniva sostenuto che l’appartenenza a qualsiasi classe sociale era determinata dal reddito, nelle sue diverse forme quali: rendite, profitti da capitale e salari. Proprio dalle fonti del reddito si andavano a costituire le due principali classi sociali: la borghesia, ovvero la fascia che percepiva le rendite e i profitti dal capitale e la classe operaia, subordinata alla prima, percettrice di salario. A queste due Sylos Labini aggiunse anche un’altra classe, definita “quasi classe“, che racchiudeva la piccola borghesia, artigiani. Classe, quindi, definita secondo una tassonomia ben precisa, contraddistinta da quattro parametri: il reddito, il tipo di professione, le condizioni di vita e i rapporti di potere tra le tre classi.
La lettura della società italiana interpretata da Labini, scatenò l’interesse sulla struttura della società italiana da parte di altri sociologi italiani. Tra questi c’era il sociologo Massimo Paci con il saggio La struttura sociale italiana. Costanti storiche e trasformazioni recenti edito nel 1982. Rispetto a Labini, Paci sosteneva che esistevano classi “spurie“, che non facevano parte della borghesia, né della classe operaia ma classi a cui appartenevano i lavoratori-studenti, artigiani, popolazione che viveva di sussidi , appartenenti della burocrazia pubblica. Queste classi sociali eterogenee, erano per Paci contraddistinte da “modernità e arretratezza“, ed erano protagoniste dello sviluppo capitalistico italiano perché lo Stato permetteva la sperequazione dei diversi ceti e ne determinava anche la stratificazione sociale.
Le tesi di Ardeni riprendono sia gli assunti di Sylos Labini, che in parte quelli di Paci, ma vengono reinterpretate a seguito dell’evoluzione storico-economica avvenuta in Italia negli anni Novanta e Duemila in cui si è avuta un’accelerazione della globalizzazione di ampia portata nei due domini: economici e culturali. Negli anni Ottanta, scrive Ardeni, l’Italia è entrata nell’età post-industriale. Conseguentemente a ciò, sono state introdotte nuove professioni nei servizi pubblici e privati, tecnici con posizioni da dirigenti non apicali e operai qualificati non manuali.
Negli anni Novanta lo sviluppo economico ha subito un rallentamento, per poi fermarsi completamente nel corso degli anni Duemila, causando il rallentamento dell’occupazione, sia di bassa che di alta qualifica. Questo processo ha provocato due effetti: il primo è stato l’aumento, in dimensioni, delle classi alte; il secondo la suddivisione in piccole parti della classe medio-bassa e bassa. Si sono andati così a creare differenti livelli di reddito, di condizione lavorativa e di welfare aziendale. Ardeni denomina quest’ultima congerie di nuova categoria sociale con l’appellativo di “proletariato post-industriale“, categoria che comprende i dipendenti salariati con contratti che assumono le molteplici forme: tempo determinato, a progetto, lavoratori part-time, dipendenti contractors; ma anche i disoccupati saltuari, che a loro volta vanno ad aggiungersi a quelli cronici. In tutto questo contesto così composito si è andata dissolvendosi l’identità di classe teorizzata da Marx: «Prima ancora che la coscienza di classe cambia quindi l’identità di classe stessa. L’idea di emancipazione di classe finisce per individualizzarsi, parcellizzarsi». (pag. 112)
Ciò ha causato un ulteriore effetto a caduta, come nel processo delle relazioni industriali in cui la frammentazione di nuove categorie ha sconnesso la forma contrattuale collettiva tradizionale. In questo contesto, oramai strutturale, il singolo lavoratore è costretto a negoziare da solo le proprie rivendicazioni contrattuali, senza l’intermediazione del sindacato di categoria.
Il concetto di classe quindi non svanisce, ma assume una nuova accezione della terminologia, dove ciò che è radicalmente mutato, sostiene l’autore, è un’altro fattore, l’identità di classe.
Oltre allo iato della differenza economica, vi sono anche altri fattori che in precedenza non avevano nessuna importanza ovvero quello del capitale sociale e culturale. Se a parità di salario tra un tecnico specializzato, un impiegato dei nuovi servizi emergenti e un operaio, ciò che fa la differenza è la tipologia culturale delle relazioni sociali e se queste sono di carattere localistico, oppure se spaziano oltre i confini geografici di residenza del lavoratore. Questi sono i nuovi fattori che, per Ardeni, determinano oggi la classe sociale e che possono anche influire sulla mobilità sociale, sia intragenerazionale che intergenerazionale.