Cioran scriveva che un popolo non è altro che una somma di ossessioni. Ossessioni di grandezza o di paura; sindrome dell’accerchiamento o deliri di onnipotenza. Nel decifrare le convulsioni e i repentini cambi di rotta nella storia politica italiana, emerge come la scomparsa di Silvio Berlusconi, abbia riaperto ferite e nostalgie mai sopite. Mai nella storia repubblicana un solo uomo ha monopolizzato ogni aspetto della vita pubblica e politica italiane (dal discorso giornalistico e mediatico, all’immagine stessa dell’Italia all’estero), per un tempo così esteso. Da ciò si spiega la sequenza di reazioni imponenti e fuori controllo anche dopo la sua morte: è scomparsa una figura pop, divisiva oltre ogni misura, più che un semplice capo politico.
Da taluni ritenuto una stortura e un male assoluto, quasi che la sua vicenda ventennale abbia costituito la quintessenza di una frustrante limitazione posta al sistema Italia di rinnovarsi, dopo la caduta della Prima Repubblica. Da altri mitizzato, idolatrato al di là del bene e del male. Lungi da qualsiasi interpretazione di merito sulla portata storica e sull’effettivo impatto economico e politico dei governi Berlusconi sul Paese, resta indubitabile che tale portata storica ci sia stata. Ristampata quasi fatalmente in questo 2023, l’opera di Giovanni Orsina, professore di storia contemporanea alla Luiss di Roma, dal titolo Il berlusconismo nella storia d’Italia, costituisce oggi – forse ancora più che in passato – una chiave di lettura imprescindibile. Talmente complessi sono il periodo, il personaggio e la sua politica che Orsina deve precisare già all’inizio:
«Questo libro non parla di Silvio Berlusconi. Non intende cercar di capire quali obiettivi egli abbia perseguito, perché si sia comportato come si è comportato, se abbia governato bene o male, se sia stato colpevole o innocente.»
Specifica, successivamente, che questo non sia per scarsa importanza delle tematiche suddette, ma perché l’obiettivo è studiare il berlusconismo. Quali coerenze, di un progetto politico comunque vincente – almeno a livello elettorale – hanno catturato un sistema come quello repubblicano italiano già profondamente annichilito da Tangentopoli e dalla caduta del muro? L’assunto di partenza è che il berlusconismo non sia stato affatto un’anomalia o un incidente di percorso lungo la strada della “normalità” tanto agognata dalla politica italiana. Costituisce semmai esso stesso una risposta a tale anomalia. Se in passato ci sono voluti Renzo De Felice ed Emilio Gentile per scardinare l’assunto crociano di una storia lineare, progressista, liberale, contraddistinta solamente da traumatiche interruzioni e storture – come a lungo fu ritenuto, e viene ancora ritenuto, il fascismo – è necessario collocare e analizzare, con le dovute misure ma in una medesima prospettiva, il berlusconismo.
Così, il ventennio del berlusconismo, percepito dagli oppositori come emblema di una paralisi che ha lasciato l’Italia indietro rispetto a tutte le democrazie occidentali ed europee, va letta semmai, da un punto di vista politico, in maniera radicalmente opposta: prima che in qualsiasi altra nazione occidentale, come evidenzia Orsina, il berlusconismo ha proiettato l’Italia verso il post-novecento e la post-democrazia. Ciò è avvenuto perché il berlusconismo ha rappresentato una risposta adeguata alle esigenze della società italiana uscita dalle macerie del sistema della Prima Repubblica. Il crollo di quest’ultima, nella lettura di Orsina, non è stata che una manifestazione – ultima in ordine temporale – del meccanismo di superamento e di clamoroso voltafaccia da parte della popolazione italiana nei confronti di sistemi politici e di élite ormai eticamente screditate e prive di ogni sostegno popolare. Due sono i fili che tengono insieme la storia nazionale dall’Unità fino a Berlusconi: il pessimo rapporto tra élite e popolazione e la costante volontà delle prime di intervenire profondamente nel “modificare” la seconda per rendere l’Italia un Paese “normale”. Come sottolineato da uno dei maggiori giuristi italiani del primo novecento, Guglielmo Ferrero, citato da Orsina:
«In Italia […] lo spirito pubblico ha sempre voluto bruciar le tappe; sempre impaziente delle inevitabili inferiorità del giovane Stato, non ha mai ammesso né le lunghe attese della preparazione necessaria, né gli scacchi momentanei.»
Tale politica, definita dal filosofo inglese Oakeshott “politica della fede”, basata sull’indiscussa fiducia in un élite con una chiara idea del bene e del male, in grado di prendere il controllo dei processi storici, è stata caratterizzata in Italia da una costante impazienza; inoltre ha fatto scaturire la spesso traumatica –talora drammatica – sostituzione delle élite al potere, dall’oligarchia liberale al fascismo per arrivare al sistema di partiti della Prima Repubblica. Caratteristica di queste élite è sempre stata quella di costituire o di percepirsi come gli elementi modernizzanti della nazione. Caratteristica, d’altro canto, delle opposizioni, è stata invece quella di aver rappresentato essenzialmente delle forze “antisistema”. Se elementi di compattezza e coerenza sono riscontrabili in alcuni degli esordi dei momenti della storia italiana citati, con annessa carica “etica” ricevuta dall’esterno (come negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento o negli anni Quaranta e Cinquanta del Novecento), Orsina evidenzia come tali élite si siano poi storicamente arroccate nelle proprie posizioni, facendosi scudo di virtù morali ormai assenti ed estremizzandone i contenuti:
«L’élite punta a consolidare la propria legittimità, prosciugare l’acqua nella quale nuotano le opposizioni antisistema, costruire un robusto rapporto di fiducia con il “popolo”. Allo stesso tempo essa ritiene che quest’obiettivo possa essere raggiunto soltanto postulando a priori la propria inamovibilità, isolandosi e difendendosi il più possibile dall’ambiente esterno, imponendo dall’alto le scelte del Paese.»
All’iniziale – sempre presente – diffidenza dal basso, segue pertanto una parabola discendente nei consensi. Percepite come meri strumenti in funzione di questo o quell’interesse particolaristico, le élite – tutte le élite – nella storia unitaria hanno finito per diventarlo realmente, senza peraltro attenuare la propria tendenza a mostrarsi imprescindibili e necessarie al Paese. Magistrale il monologo di Servillo-Andreotti ne Il Divo di Sorrentino, laddove il deus ex machina della travagliata storia repubblicana si proclama depositario del volere imperscrutabile di Dio:
«Tutti a pensare che la verità sia una cosa giusta, e invece è la fine del mondo, e noi non possiamo consentire la fine del mondo in nome di una cosa giusta. Abbiamo un mandato, noi. Un mandato divino. Bisogna amare così tanto Dio per capire quanto sia necessario il male per avere il bene. Questo Dio lo sa, e lo so anch’io.»
La Democrazia Cristiana però è già, essa stessa, un serbatoio di voti privi di quel rapporto di fede e fiducia tra classe politica e cittadini da cui scaturirà la fine della Prima Repubblica (secondo il meccanismo del “turarsi il naso e votare comunque Dc”) e che confluiranno nel berlusconismo. Arci-partito e simbolo di un’idea di incorruttibilità e moralità, fu invece – secondo Orsina – il più grande partito d’opposizione dell’Europa occidentale: il Partito Comunista Italiano. Congiunture storiche e vicende di politica estera hanno fatto scaturire quel bipartitismo incompleto che fu la Prima Repubblica in quasi cinquant’anni di governo. Silvio Lanaro ha però evidenziato tutti i limiti pratici dell’etica esasperata del PCI:
«Il pedagogismo esasperato, l’ipocrisia prelatizia, l’identificazione del partito-padre con la mano provvidenziale della storia […] di chi s’illude di poter costruire una democrazia in cui crede sinceramente adoperando un armamentario etico e concettuale buono per rinsaldare una dittatura o per combattere una guerra civile.»
Se le forze “di sistema” sono dunque rappresentate – in misura diversa nella DC e nel PCI – da intenti pedagogici e di guida morale del Paese, ciò che resta dell’anti-sistema italiano viene incarnato da una parte dei partiti di destra e, agli inizi della storia repubblicana, dall’Uomo Qualunque di Giannini. Il centro-destra, costituito dal “polo escluso” di Alleanza Nazionale, dal secessionismo scettico e anti-statale della Lega Nord e dalla chiave di volta del berlusconismo di Forza Italia, è la più naturale evoluzione e conseguenza di decennali insofferenze manifestate da larghi strati di popolazione italiana nei confronti della Prima Repubblica. Ciò che sfugge alle maglie del dirigismo elitario della Repubblica dei partiti è dunque un individualismo e uno “scetticismo” che verranno poi canalizzati nel fenomeno berlusconiano. La “politica dello scetticismo” si pone in antitesi alla “politica della fede” calata dall’alto. I governanti occupano posizioni di prestigio, ma non sono posti in una condizione di assoluta separazione dai governati. Sarà il Sessantotto a far esplodere ulteriormente tali pulsioni, andando ad indebolire e svuotare di autorità le già fragili istituzioni repubblicane e le ambizioni platoniche ed etiche dei suoi ceti dirigenti:
«L’onda lunga i pensiero critico amplificata e accelerata dal Sessantotto non si è scontrata con una tradizione statual-nazionale antica e solida e con istituzioni robuste, ma con il fragile e provvisorio tessuto connettivo che il Paese era riuscito a darsi in cent’anni di vita unitaria.»
L’esplosione di tali contraddizioni, la “liberazione” dell’individuo, non trovano una corrispondente risposta istituzionale. Così, alla fine della lunga e sanguinosa stagione del terrorismo, idealmente indebolite, le élite repubblicane costituenti il sistema del Pentapartito, nell’Italia di Craxi e della “Milano da bere” possono solo constatare l’assoluto trionfo della politica dello scetticismo. Nel 1994 la discesa in campo di Berlusconi è l’effetto e non la causa dello sconvolgimento già pienamente compiutosi nel Paese. La novità è clamorosa:
«Prima di lui, dal Risorgimento ad oggi, nessun leader politico di primo piano, capace di vincere le elezioni e salire alla guida del governo, aveva mai osato dire in maniera così aperta, esplicita e sfrontata, impudente che gli italiani vanno benissimo così come sono.»
L’anticomunismo, apparentemente fuori tempo massimo dinanzi all’avvenuta trasformazione del PCI di Occhetto, diviene semmai l’emblema di una serrata opposizione alla più pedagogica delle classi politiche. È il trionfo di un’esaltazione della società civile in opposizione allo Stato, che finirà con il diventare propria di tutte le componenti della società e della politica italiana nei decenni successivi. Si può affermare che l’elettorato berlusconiano fosse presente prima dell’affermarsi del suo stesso leader: l’elemento di novità assoluta è stato politicizzare l’antipolitica, trasformare i leader politici in uomini comuni, con gli stessi difetti di questi ultimi. Scomparso Berlusconi, permangono i suoi potenziali elettori, non necessariamente legati a Forza Italia, ma devoti a quello scetticismo e a quella ostilità istituzionale vivificate dal ventennio berlusconiano e in grado di superare i confini nazionali. E come un’autentica avanguardia politica, tale scontro tra élite e oppositori si è riprodotto su scala più ampia, a livello globale. La post-modernità comincia in Italia, nelle viscere della sua stessa storia:
«Incapace di raggiungere la modernità occidentale, l’Italia come spesso le è accaduto ha reagito puntando direttamente alla postmodernità – da inseguitrice sta cercando di farsi lepre. Operazione rischiosa, che alla penisola finora non ha mai portato fortuna.»