OGGETTO: An elephant in the room
DATA: 18 Maggio 2020
Il cinema di Gus Van Sant.
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Se venissimo catapultati in un romanzo come La morte a Venezia di Thomas Mann probabilmente oggi ci troveremmo esattamente nella parte finale in cui la città si trasforma in luogo di epidemia, metafora della decadenza morale che attanaglia il protagonista Aschenbach. Non è difficile né errato vedere nella pandemia del nostro tempo, il Covid-19, la conseguenza inevitabile di un sistema insostenibile che ha traghettato l’uomo nell’epoca della sua autodistruzione, l’antropocene, facendogli dimenticare il suo essere ingranaggio di un progetto naturale. L’esser gettato nel mondo di heideggeriana memoria e la visione individualistica del mondo si sostituisce sempre più ad una visione organicistica, e la natura non tarda a darci le sue risposte. Non bisogna dimenticare che il salto di specie del virus all’uomo è stato agevolato dalla condotta dis-umana, in primis dalla compravendita e macellazione di animali selvatici e dagli allevamenti intensivi verticali e forse in seconda istanza dall’inquinamento atmosferico, che ne ha accelerato l’espandersi a livello globale.

Abbiamo prodotto con una rapidità così elevata che non ci rimane tempo nemmeno per compiangere il nostro mondo in declino, così come per le morti dei maiali sgozzati nei loro hotel a 13 piani. Era questo il gioco crudele a cui si mirava nel progetto della catena di montaggio dell’imprenditore americano Henry Ford? Dal Novecento in poi, col capitalismo moderno, si risparmia il tempo, anche quello per compiangersi dunque, per dedicarlo al tempo libero, dove il termine “libero” si fa sempre più paradossale, poiché si è liberi solo di consumare le cose prodotte nella catena lavorativa, macchine o cotolette che siano.

Henry Ford

Ma se fosse il 1985 probabilmente ci troveremmo nel momento in cui Aschenbach per la prima volta rimane ammaliato dalla bellezza efebica di Tadzio, e in particolare ci troveremmo in un film di Gus Van Sant, quello d’esordio, Mala noche, ispirato in parte alla trasposizione viscontiana della novella di Mann. Come per Aschenbach, infatti, la passione di Walt Curtis nei confronti di Johnny non è corrisposta, e questa non corrispondenza non fa che alimentare il fuoco, in un meccanismo romantico in cui il perdente-protagonista è un americano e la preda un messicano, una differenza culturale sottolineata a più riprese nel film. Non ricambiata, la pulsione sessuale di Walt si sfoga sull’amico di Johnny, Roberto, il quale si prende gioco del primo fino all’esito mortale, in cui si fa luce sull’indifferenza di Johhny per l’amico, da lui definito nel finale semplicemente “frocio”.

È un cinema sperimentale quello del primo Van Sant, giovane omosessuale di Louisville formatosi alla Rhode Island School of Design, e per “sperimentale” si intende anche “empirico”, poiché Van Sant la condizione di quei giovani la conosce bene, è immerso totalmente in quegli ambienti e in quelli della tossicodipendenza, che descriverà a modo nelle opere successive. Sin dal primo on-the-road movie in 16mm, in cui si cita persino l’entrata in scena di Orson Welles ne Il terzo uomo, il regista si fa portatore di un canto generazionale che arriverà ad abbracciare anche il senso di abbandono e solitudine dei Duemila.

Non è facile trovare qualcuno che abbia descritto in modo così minuzioso i sentimenti di un’intera coltre di adolescenti senza cadere nel patetico. Vi ritroviamo nella sua poetica il mito a stelle strisce del viaggio che ha segnato tutta la letteratura americana da Melville in poi. Se in quegli anni, in risposta al disagio, si inseguiva un mito oggi si segue un post, e il disagio, la rabbia e la voglia di scoperta sono stati anestetizzati dai collegamenti ipertestuali che conducono all’entropia informatica. Al Melville nomade sostituiamo il Melville di Bartleby lo scrivano (il sottotitolo originale è A Story of Wall Street), il quale fa proferire al protagonista solo le tre parole lancinanti, mai così contemporanee come oggi: “Preferirei di no”. Sono gli idoli del nuovo millennio ad essere sbagliati, i vari imprenditori rampanti che nei talks dichiarano “anche tu ce la puoi fare!”, quelli del “less is more but more expensive is better”, del capitalismo avanzato.

Gus Van Sant nel 2018

Se da film come Drugstore Cowboy (1989) e dal più celebre Belli e dannati (1991) scaturisce un’agitazione ravvisabile in ambito musicale nel grunge di Seattle, negli anni 2000 è lo stesso Van Sant a porre la pietra tombale sul decennio precedente e, infine, sull’ultimo dio del rock, Kurt Cobain, col film Last days (da considerarsi quest’ultimo, su consiglio del sottoscritto, un film sugli ultimi giorni di una rockstar, scordandoci possibilmente di Cobain stesso). Dal 2015 in poi, con le morti di Scott Weiland e Chris Cornell in circostanze tutt’altro che felici, il grunge sembra aver esalato l’ultimo respiro, soffocato da questa decadenza interstiziale. Drugstore Cowboy descrive il mondo della tossicodipendenza in cui tre scelte ti si aprono davanti: drogarti, morire, o provare a smettere, con la paura matta che il passato ritorni in agguato. 

Il bisogno di afferrare il futuro, un’illusione, quella dei giovani Bob, Diane e Nadine, a cui ognuno risponderà a modo suo, facendo a calci con l’impotenza di fronte all’avvenire. Un film sul vizio, dunque, come lo era stato il sublime L’uomo dal braccio d’oro (1955) e come lo sarà undici anni dopo Requiem for a Dream. Dopo l’invettiva anti-mediatica messa in scena nella commedia nera Da morire, Van Sant sale sul palco di Hollywood con tre film che hanno una grossa risonanza: Will Hunting – Genio ribelle (1997), scritto e interpretato dagli amici Matt DamonBen Affleck, e in cui fa breccia la colonna sonora del fragile cantore del decennio, Elliott Smith (pugnalatosi nel 2003), il remake frame-by-frame di Psycho (1998), molto in voga in ambito accademico per il suo rappresentare l’apoteosi manierista e maniacale del cinema postmoderno, e Scoprendo Forrester (2000), un omaggio a Salinger che ha più di qualcosa in comune col primo film.

Chris Cornell

La storia di Will Hunting, un bidello del M.I.T. e genio matematico il quale ha bisogno della guida di uno psicologo per scegliere la strada giusta, raggiunge un culmine di ilarità nella scena in cui Robin Williams (ennesimo suicidio del nostro ventennio) racconta al paziente della flatulenza notturna della moglie defunta: battute totalmente improvvisate dall’attore che seminarono scombussolamento in tutta la troupe, persino nel cameraman; si può notare, infatti, la cinepresa traballare a causa delle risate del tecnico. Il film è dedicato alla memoria degli scrittori William S. Burroughs (sceneggiatore non accreditato di Drugstore Cowboy, in cui recita nei panni di un prete tossicodipendente) e Allen Ginsberg, entrambi morti nel 1997, con cui lo stesso Van Sant aveva realizzato rispettivamente un cortometraggio e un videoclip.

Grazie per il tacchino selvatico e per i colombi migratori, destinati ad essere cagati da sani culi americani […] Grazie per le grandi mandrie di bisonti da sterminare e scuoiare lasciando le carcasse a imputridire […] Grazie per l’ultimo e più grande tradimento dell’ultimo e più grande sogno dell’uomo”, questi alcuni versi di Thanksgiving Prayer di Burroughs immortalata da Van Sant, che sembrano parlare ancora del nostro tempo, così come quelli di Ginsberg nel video musicale del regista in questione: “Lo Scheletro ecologista ha detto: conserviamo i nostri cieli blu. Lo scheletro della multinazionale ha detto: per voi quanto vale? […] Lo Scheletro delle maquiladoras ha detto: lavoriamo sodo, siamo sottopagati […] Lo Scheletro del talk show ha detto: fanculo, te lo dico dritto in faccia.

Con la trilogia della morte Gerry (2002), Elephant (2003) e il già citato Last days (2005), Gus Van Sant ritorna alla sperimentazione, stavolta nel segno del piano sequenza memore della lezione dell’ungherese Béla Tarr. Nel primo i dialoghi raggiungono i dieci minuti sui 103 totali, poiché l’attenzione in tutta la trilogia si focalizza sull’immagine, sulla fotografia gelida e simbolica del fedele Harris Savides che raggiunge l’apice nel capolavoro assoluto del 2003, sulla reiterazione dei gesti, sull’isolamento e la freddezza angosciante del mondo, scelte stilistiche che colgono appieno il malessere giovanile dei 2000. Se la scelta di un Cobain era tra la strage “in stile” Columbine o la musica (e lui ha scelto per fortuna la seconda), per un giovane d’oggi la strage si propone come alternativa al “Preferirei di no”, come affermazione sconcertante di un “si” nichilista.

Paranoid Park (2007) è l’ultimo tassello di Van Sant sull’adolescenza, miglior film dell’anno secondo i Cahiers du Cinéma, ambientato nella Portland degli skaters, che vede il sedicenne Alex fare i conti con un omicidio commesso per sbaglio e con un senso di colpa troppo ingombrante da affrontare. È ancora una volta la musica di Elliott Smith a suggerire i sentimenti più reconditi del protagonista di questo film esemplare, molto più del mediocre L’amore che resta (2011), sull’amore tra due giovani con malattia terminale annessa, che sembra inaugurare l’incapacità del mondo di comprendere gli anni Dieci.

Qualche passo falso nell’ultimo periodo non ci fa certo dimenticare il biopic da manuale realizzato nel 2008, Milk, sulla vita del primo omosessuale ad entrare in politica negli Stati Uniti. Un’opera che valse il premio Oscar al protagonista Sean Penn e allo sceneggiatore Dustin Lance Black. Distribuito in anteprima il 26 novembre per ricordare l’anniversario dell’assassinio di Harvey Milk per mano di un politico omofobo proprio durante l’amato Thanksgiving Day, a dimostrazione di come il cinismo di Burroughs fosse solo realismo: “Thanks for Kill a Queer for Christ stickers” diceva un verso della preghiera sopracitata. Dalle radici sperimentali al palco degli Oscar, Gus Van Sant non ha mai dimenticato di guardarsi allo specchio, che si è rivelato essere lo specchio di intere generazioni del ventennio a cavallo tra il vecchio e il nostro secolo.

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