Non esiste la geopolitica a compartimenti stagni, ancor più quando si tratta di grandi potenze globali. Verità che molti hanno iniziato a scoprire solo di recente, ora che le illusioni della seconda Belle Époque (1991-2022) iniziano a sgretolarsi, lasciando spazio ad una serie di crisi globali che, seppur talvolta emerse per motivi endogeni, presto si legano a dinamiche ben più ampie. La recente svolta americana nei confronti della Russia va inquadrata all’interno di una strategia più ampia, dove il dossier ucraino non è che uno dei tanti temi in gioco. In realtà, Washington mira a spezzare l’asse Mosca-Pechino e indebolire quello con Teheran, offrendo alla Russia qualche concessione nel proprio “estero vicino”. Questo approccio finisce per saldare la questione ucraina ad altri due grandi teatri di crisi: l’Indo-Pacifico e il Medio Oriente.
Proprio in quest’ultimo scenario, la Turchia – potenza a cavallo tra più mondi, cerniera tra Oriente e Occidente – intravede la possibilità di rafforzare ulteriormente la propria posizione, soprattutto se la crisi ucraina e le tensioni in Asia occidentale si intrecceranno ancor di più, consentendole di massimizzare il proprio peso geopolitico. Tra i più abili attori della scena odierna, Ankara ha dimostrato le sue enormi capacità nell’insinuarsi tra le faglie generate dai cambiamenti, tra i mutamenti geopolitici di una realtà che corre lesta, cogliendo puntualmente alla sprovvista i suoi rivali. Gli ultimi sei anni ne sono la prova: la Turchia ha sfruttato le incertezze europee per radicarsi in Libia, le fragilità di Russia e Iran per rafforzarsi nel Caucaso Meridionale e in Siria, la débâcle francese nella Françafrique per estendere la propria presenza nel Sahel, e la guerra in Ucraina per consolidare la sua influenza nel Mar Nero. Ora che il dialogo tra Washington e Mosca è ripreso, Ankara si è pone nuovamente alla finestra, pronta a trarre vantaggio da ogni esitazione altrui. Così come nel 2019 la riluttanza e l’impreparazione italiana nel sostenere militarmente il governo di Tripoli (assediato dalle forze del generale Haftar) offrì ai turchi l’occasione di inserirsi in Libia, oggi un possibile passo indietro degli Stati Uniti e l’impreparazione europea potrebbero aprire loro la strada per proporsi come garanti della sicurezza dell’Ucraina, con tutti i vantaggi che ne deriverebbero.
Fin dal febbraio 2022, quando ebbe inizio l’invasione russa, la Turchia ha optato per una strategia ambigua che le ha permesso di massimizzare i propri guadagni. Da un lato, ha evitato di aderire alle sanzioni occidentali contro Mosca, continuando a mantenere rapporti commerciali ed energetici con i russi e sottolineando la necessità di un canale di dialogo per futuri negoziati di pace. Dall’altro, non ha esitato a fornire armamenti all’esercito ucraino, in particolare i droni Bayraktar TB2, rivelatisi decisivi nelle fasi iniziali del conflitto per rallentare l’avanzata russa. Inoltre, pochi giorni dopo l’inizio dell’offensiva, Ankara ha invocato la Convenzione di Montreux, chiudendo Bosforo e Dardanelli alle navi da guerra russe e ribadendo così il proprio ruolo di ago della bilancia nell’accesso al Mar Nero.
L’ambiguità turca è intrisa di puro realismo politico: Ankara, da secoli, ha in Mosca uno dei suoi rivali regionali principali, con il quale si è contesa l’influenza nel Caucaso Meridionale, nei Balcani, nel Mar Nero e, negli ultimi anni, anche nel Levante e in Africa. Tuttavia, per evitare che tale rivalità si trasformasse in uno scontro diretto, ha dovuto alternare con cura competizione e cooperazione. Approccio inevitabile tra imperi contigui che si contendono le medesime aree di influenza. Si tenta di cooperare quando le forze si bilanciano, e si agisce con decisione non appena l’avversario mostra il fianco scoperto.
È ciò che è accaduto, ad esempio, nei due conflitti (2020-2023) in Nagorno Karabakh, quando Ankara – cogliendo segnali di debolezza nella postura russa – ha sostenuto con maggiore intensità l’Azerbaigian contro l’Armenia, tradizionalmente sotto la protezione di Mosca, erodendo così la sfera d’influenza russa nella regione.
Più di recente, Ankara ha approfittato delle distrazioni russe nella guerra d’Ucraina e delle fragilità iraniane derivanti dalla sfida con Israele, per sparigliare le carte in Siria e spingere le fazioni ribelli del nord-ovest, da lei sostenute, alla conquista di Damasco e alla cacciata di Bashar al-Assad. Un duro colpo sia per Mosca che per Teheran.
Al di là delle dichiarazioni anti-occidentali di facciata, gli interessi vitali di Ankara si concentrano in aree in cui i principali antagonisti non sono americani né europei, bensì russi e iraniani: il Mar Nero, il Caucaso Meridionale e il Medio Oriente. Qui si fronteggiano potenze confinanti, in lotta per il controllo dei medesimi spazi. L’obiettivo della Turchia è affermare la propria egemonia in competizione con Mosca e Teheran, ma farlo in maniera autonoma rispetto all’Occidente. Ankara, infatti, pretende che gli Stati Uniti le lascino margine di manovra in quei territori che considera parte della propria sfera d’influenza. Finora, però, gli Stati Uniti hanno esitato a concederle “campo libero” – come dimostra la presenza americana in territorio siriano ed iracheno – temendo che l’accrescimento di potenza turca le si potesse rivoltare contro.
Tuttavia, l’acuirsi delle rivalità internazionali e il delinearsi di un’intesa tattica tra Pechino, Mosca e Teheran in funzione antiamericana, ha imposto a Washington un cambiamento di approccio. Ed è proprio in virtù di tale mutamento che Ankara può cogliere l’opportunità di rafforzare ulteriormente la propria posizione, insinuandosi tra i diversi schieramenti.
Se finora le opportunità che si erano schiuse per la Turchia riguardavano principalmente il fronte meridionale (Siria) e orientale (Caucaso meridionale), oggi sembra profilarsi anche la possibilità di consolidare la presenza sul versante settentrionale, mirando a rafforzare ulteriormente il controllo del Mar Nero. Obiettivo per niente inedito: la volontà di controllare quest’area risale infatti alle prime sconfitte subite dall’Impero Ottomano nella guerra russo-turca del 1768-1774. Fu in quell’occasione, col Trattato di Küçük Kaynarca, che Costantinopoli dovette cedere la Crimea e parte dei territori circostanti ai russi, consentendo a Mosca di ottenere l’agognato sbocco sui mari caldi.
La guerra in Ucraina, dunque, ha preoccupato Ankara proprio per il rischio che Mosca estendesse il controllo sui territori della sponda nord, appropriandosi di città e porti fondamentali come quello di Odessa e Kherson. Il sostegno verso Kiev è da inquadrare anche in quest’ottica.
Tuttavia, finché gli Stati Uniti sono rimasti l’attore principale nel sostegno all’Ucraina, l’impegno turco è passato in secondo piano: da un lato, ciò ha avvantaggiato Ankara, che non ha dovuto assumersi il costo maggiore delle operazioni; dall’altro, un coinvolgimento più ridotto le ha impedito di assumere un ruolo di primo piano nelle dinamiche del conflitto.
Ora che gli Stati Uniti intendono porre un freno al supporto all’Ucraina per portare la Russia al tavolo negoziale, per Ankara si aprono scenari ben più interessanti.
Le recenti mosse dell’amministrazione Trump, infatti, hanno lasciato intendere una possibile riduzione, se non un parziale disimpegno, del sostegno statunitense all’Ucraina. Sebbene resti da verificare se tali annunci si tradurranno effettivamente in azioni concrete, il semplice mutamento di postura ha già prodotto un effetto tangibile: la percezione di un vuoto strategico nella sicurezza dell’Ucraina.
Un vuoto che, da un lato, gli europei – o almeno una parte di essi – ambirebbero a colmare, pur scontrandosi con evidenti limiti operativi e politici; dall’altro, Mosca osserverebbe con favore, auspicando che tale spazio rimanga indefinito, consolidando così il proprio margine di manovra nella regione.
Di conseguenza, come più volte dichiarato dai vertici di Ankara, la Turchia potrebbe proporsi per riempire almeno in parte quel vuoto.
Se Ankara si assumesse la responsabilità della sicurezza dell’Ucraina, gli Stati Uniti ne potrebbero trarre un immediato beneficio: contenere la Russia senza dover impiegare direttamente le proprie forze. Un vantaggio che risponde a un’esigenza di riequilibrio strategico da parte di Washington, impegnata a ridurre (non eliminare) il proprio coinvolgimento in Europa per concentrare gli sforzi nel contrasto alla Cina, considerata la principale minaccia del XXI secolo. Non si tratta di un abbandono della regione, ma di una presa d’atto che il conflitto ucraino, nelle attuali condizioni, non è sostenibile a lungo termine: da qui la ricerca di un compromesso con Mosca, che possa prevedere la cessione di alcuni territori occupati in cambio di un graduale allontanamento della Russia da Pechino e Teheran.
Tuttavia, il tipo di impegno turco in Ucraina andrebbe definito con estrema attenzione. A differenza di altri teatri dove Ankara ha operato con successo – dalla Siria alla Libia, fino al Caucaso Meridionale – in questo caso si è di fronte ad una guerra convenzionale su larga scala, con un massiccio impiego di uomini, mezzi corazzati, missili e artiglieria pesante. Qualunque intervento turco dovrebbe quindi essere calibrato con estrema prudenza.
Ankara potrebbe assumere un ruolo di garante della sicurezza ucraina, ma resta da chiarire quale sarebbe l’effettivo livello di coinvolgimento. Sarebbe disposta a inviare uomini e mezzi, o si limiterebbe a fornire armamenti e tecnologia? E se si trattasse solo di armamenti, di che tipo? Inoltre, a differenza della Siria o del Caucaso Meridionale, la posta in gioco per la Russia in tale contesto è decisamente più alta: per Mosca, l’Ucraina non rappresenta un semplice “cortile di casa”, ma un vero e proprio “pezzo di casa”. Non sorprende, dunque, che Mosca abbia dimostrato di voler impiegare ingenti risorse umane e materiali pur di mantenerne il controllo. Questo significa che, se Ankara decidesse di sostenere attivamente Kiev e questa utilizzasse il supporto turco per rilanciare le ostilità, la Turchia potrebbe trovarsi esposta a ritorsioni dirette. L’equilibrio diplomatico con Mosca, già fragile in altri scenari, potrebbe rompersi, con conseguenze difficili da prevedere.
Ma Ankara potrebbe anche pensare che i rischi possano essere compensati dagli indubbi guadagni. Essa, infatti, tornerebbe a esercitare una presenza diretta (seppur di diversa natura) sulla sponda settentrionale del Mar Nero, per la prima volta dalla cacciata ottomana nel XVIII secolo. Questo avrebbe implicazioni di vasta portata. Ankara acquisirebbe un’influenza enorme nella regione, trasformandosi nel principale arbitro degli equilibri nel bacino del Mar Nero, con un accesso privilegiato alle rotte commerciali e una posizione dominante nei rapporti con Kiev. In cambio della protezione militare, gli ucraini potrebbero vedersi costretti a concedere alla Turchia vantaggi significativi: concessioni portuali, accesso a materie prime, accordi commerciali esclusivi. Ankara, già attiva in settori strategici dell’economia ucraina, potrebbe espandere ulteriormente la propria influenza, consolidando un rapporto di dipendenza reciproca che rafforzerebbe il suo peso nella regione.
Ma il dossier ucraino non può essere considerato separatamente dagli altri scenari nei quali si gioca il futuro degli equilibri globali. In geopolitica, i vasi comunicanti tra i diversi fronti sono spesso inevitabili e in questo caso il teatro ucraino potrebbe intrecciarsi con quello mediorientale.
La Turchia ha già avuto un ruolo determinante nel contenere l’influenza russa e iraniana, specialmente in Siria, dove il suo intervento ha ridotto lo spazio d’azione di Teheran e Mosca, con benefici indiretti per gli Stati Uniti e Israele. Sebbene i rapporti tra Ankara e Tel Aviv siano oggi in tensione, Washington sa che senza l’azione turca Assad sarebbe rimasto saldamente sotto il controllo russo-iraniano, con conseguenze potenzialmente più rischiose per la regione. Per questo motivo, gli Stati Uniti, se vorranno ridurre l’impegno in Medio Oriente, così come hanno annunciato di voler fare in Europa, dovranno bilanciare gli interessi dei vari attori coinvolti per evitare una rottura con Ankara.
Sebbene Turchia e Israele convergano nel voler arginare l’influenza iraniana, per Israele risulta indispensabile mantenere una presenza militare nel sud della Siria: da un lato per la scarsa fiducia nel nuovo assetto politico di Damasco, dall’altro perché da lì può esercitare pressione anche sul sud del Libano, area cruciale per il contenimento di Hezbollah. Al contrario, Ankara giudica inaccettabile questa ingerenza e mira a estrometterla.
A complicare ulteriormente il quadro vi è la questione curda: mentre gli Stati Uniti hanno sostenuto in questi anni le Forze Democratiche Siriane, Ankara le considera una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale ed è determinata a eliminarne la presenza.
In questo complesso scenario geopolitico, potrebbe entrare in gioco la logica dello scambio: se Washington guardasse con favore le intenzioni turche nell’assumere un ruolo attivo nella sicurezza dell’Ucraina, dovrà probabilmente offrire qualcosa in cambio, ad esempio sul fronte siriano. Un impegno più incisivo di Ankara a sostegno di Kiev potrebbe spingere i turchi a pretendere un ridimensionamento del sostegno americano alle forze curde, guadagnando così maggiore libertà d’azione in Siria – il recente accordo firmato dalle forze curde e il governo di Damasco sembra andare in questa direzione.
Tuttavia, questa rete di equilibri non si esaurisce nel rapporto tra Stati Uniti e Turchia. Israele, preoccupato dall’espansione turca, sta facendo pressioni sugli Stati Uniti affinché venga concesso alla Russia di mantenere le sue basi militari in Siria per contrastare la crescente influenza della Turchia – è chiaro che, non essendo tale decisione nella disponibilità di Washington, ciò implica che Tel Aviv voglia che gli Stati Uniti facciano pressioni su Ankara e Damasco.
Potrebbe così delinearsi un accordo incrociato: se la Turchia si impegnasse a non ostacolare il mantenimento delle installazioni militari russe in Siria, Mosca, in cambio, potrebbe accettare un maggiore protagonismo turco in Ucraina, seppur con le dovute contromisure.
Questa rete di vasi comunicanti dimostra chiaramente come il teatro ucraino e quello mediorientale possano facilmente intrecciarsi.
Per Washington, uno dei nodi centrali è quello di trovare un compromesso che soddisfi i tre obiettivi primari: preservare la sicurezza di Israele, evitare che si inasprisca la tensione con la Turchia e impedire che la Russia si rafforzi eccessivamente. Ciò significherebbe negoziare un compromesso che possa soddisfare tutte le parti in gioco.
Sul fronte russo, la Turchia dovrà muoversi con estrema cautela. Se da un lato Ankara potrebbe assumere un ruolo di primo piano nella sicurezza dell’Ucraina, dall’altro non può permettersi uno scontro diretto con Mosca. Com’è noto, il rapporto tra i due paesi è caratterizzato da una costante ambivalenza: competono e si ostacolano su molteplici fronti – dalla Siria al Caucaso, dalla Libia al Mar Nero – ma hanno sempre trovato spazi di dialogo e di scambio quando i loro interessi lo rendevano necessario. In questo contesto, la Russia potrebbe accettare il coinvolgimento turco in Ucraina se accompagnato da adeguate contropartite. A differenza dei paesi europei, Ankara ha strumenti di negoziazione più efficaci da poter giocare con Mosca e potrebbe offrire un compromesso. Uno scenario possibile, come precedentemente accennato, è che, in cambio del via libera russo alla protezione turca dell’Ucraina, Ankara conceda a Mosca la possibilità di riutilizzare le basi militari recentemente abbandonate in Siria (Khmeimim e Tartus), vista la rilevanza che queste hanno svolto nella più ampia strategia russa degli ultimi decenni. Questo rappresenterebbe per la Russia un ritorno in un teatro in cui la sua influenza si è bruscamente ridotta a favore della Turchia, e al tempo stesso risponderebbe a una precisa richiesta di Israele.
Ma l’impatto del nuovo assetto delineato si farebbe sentire soprattutto nel Vecchio Continente, costringendo i paesi europei a confrontarsi con un dilemma: da un lato la necessità di garantire la sicurezza del fianco orientale; dall’altro, il pericolo di scivolare in una dipendenza strategica sempre più marcata nei confronti della Turchia.
Per molti governi, il coinvolgimento turco rappresenterebbe una soluzione pragmatica, dal momento che né le capacità né la volontà politica permettono loro di sostenere autonomamente la difesa dell’Ucraina.
Con la sua postura assertiva e la sua esperienza nella gestione dei conflitti regionali, Ankara potrebbe quindi imporsi come il principale garante della sicurezza nella regione, sollevando l’Europa dall’onere di un intervento diretto. In breve: i turchi potrebbero fornire la forza operativa sul campo, gli europei il sostegno economico.
Tuttavia, tale scenario, se si concretizzasse, avrebbe un costo politico significativo. Concedere alla Turchia un ruolo di primo piano nella sicurezza europea ne rafforzerebbe inevitabilmente l’influenza su una serie di dossier e le permetterebbe di ergersi a polo inaggirabile nel dialogo con la Russia. Inoltre, sfrutterebbe il suo nuovo peso geopolitico per ottenere concessioni su questioni irrisolte come la disputa su Cipro Nord e le tensioni nel Mar Egeo.
Questa dinamica accrescerebbe la dipendenza europea dalla Turchia, rendendola un attore ancora più centrale e consolidando così il suo ruolo di potenza imprescindibile nello scacchiere eurasiatico.
Recentemente, abbiamo assistito ai primi passi di Ankara in questa direzione, in particolare quando Erdogan e il ministro degli Esteri Hakan Fidan hanno affermato che l’Europa dovrebbe includere la Turchia nella ristrutturazione della sua architettura di sicurezza.
Approfittando della confusione e dello smarrimento che regnano nelle cancellerie dell’Europa occidentale, la Turchia tenta di riproporsi come un partner indispensabile per la sicurezza e la stabilità del continente, così da ottenere vantaggi economici – come la ridiscussione dell’accordo doganale del 1995 – e strategici.
Ma oltre alle dichiarazioni, si intravedono segnali concreti di un cambiamento: i paesi dell’Europa orientale, sempre più preoccupati per l’incerto esito della guerra in Ucraina e insoddisfatti delle esitazioni dell’Europa occidentale, iniziano a guardare con maggiore interesse alla Turchia come possibile pilastro di sicurezza sul fianco orientale. Le recenti aperture della Polonia verso Ankara confermano questa tendenza, suggerendo la nascita di un possibile asse Varsavia-Ankara – scenario che potrebbe godere anche del beneplacito di Washington.
Il rischio è che, mentre in Europa occidentale si continua a tentennare e a rimandare decisioni cruciali, nell’Europa orientale si consolidi un di sicurezza, lasciando i paesi dell’Europa occidentale nuovamente isolati e con il cerino in mano.
Sebbene vi siano diverse incognite nella realizzazione di quanto sin qui descritto – dall’ingente sforzo politico-militare che Ankara dovrebbe sostenere, alla potenziale diffidenza degli Stati Uniti, fino alla resistenza di alcuni Paesi europei e all’incertezza riguardo alla riuscita degli scambi diplomatici su più fronti – l’ipotesi di una Turchia pronta a inserirsi come garante della sicurezza ucraina resta un’opzione potenzialmente sul tavolo. Al netto di tutte queste criticità, infatti, la possibilità che Ankara cerchi spazi di manovra per incrementare la propria proiezione di potenza non va mai sottovalutata: la storia recente mostra quanto la Turchia abbia saputo sfruttare fratture e incertezze internazionali per rafforzare il proprio ruolo regionale e globale, e le nuove dinamiche potrebbero offrire, ancora una volta, un’occasione per mettere in atto tale strategia.
Del resto, ci troviamo in un contesto geopolitico del tutto inedito, dove le due superpotenze globali, Stati Uniti e Cina, sono collocate per la prima volta nella storia agli estremi opposti del pianeta, lontane dallo “snodo euroasiatico” che collega Europa, Asia e Africa. In passato, almeno una delle grandi potenze aveva sempre un piede in quest’area cardine – fossero le nazioni europee o l’Unione Sovietica. Col crollo di quest’ultima, l’Europa è rimasta saldamente ancorata all’orbita americana, mentre in Medio Oriente gli Stati Uniti, non avendo più la necessità di arginare l’espansionismo sovietico (Dottrina Eisenhower) e dopo le insensate “Guerre al terrorismo”, hanno progressivamente allentato la presa.
È in questo contesto che sono riemersi vecchi attori, pronti a reclamare un nuovo “impero del centro” approfittando del disimpegno di Washington, della lontananza di Pechino e delle fragilità di Mosca e Teheran. Un quadro in cui Ankara si muove con crescente decisione e formidabile destrezza, e le cui mosse andranno seguite con la massima attenzione.