È passato oltre un anno da quando Israele, colpita al cuore dal massacro del “sabato nero”, porta avanti una guerra regionale contro i suoi nemici atavici. L’operazione Spade di Ferro, volta a sradicare Hamas dalla Striscia di Gaza, ha ben presto assunto i connotati di un obiettivo immane e dalle conseguenze umanitarie disastrose: ristabilire la deterrenza dello Stato ebraico ai danni dell’asse della resistenza, la “piovra” costruita negli anni da Qasem Soleimani. È il sistema di alleanze messo in piedi dalle IRGC, la cui testa siede a Teheran e i cui tentacoli – da Hamas in Palestina e gli Hezbollah in Libano, fino agli Houthi yemeniti e le milizie sciite in Siria a in Iraq – cingono il perimetro della regione.
Lo sciame sismico che è conseguito all’operazione oltre-barriera di Hamas, e le cui scosse di assestamento non si sono certo ancora esaurite, ha determinato la transizione della regione a uno stato di caos generalizzato. Per Israele, minacciata alle fondamenta del proprio patto sociale, è l’occasione di cambiare il paradigma della sicurezza ai suoi confini e oltre. Dopo aver cooptato le monarchie sunnite in un’alleanza in chiave anti-iraniana con gli Accordi di Abramo, l’annichilimento dei vari elementi della piovra iraniana rappresenterebbe un successo colossale.
Il conflitto ha però determinato una serie di mutamenti anche in direzione contraria. Il mito dell’inattaccabilità di Israele è crollato, sia via terra che via aria, mettendo in risalto l’indispensabilità degli aiuti militari occidentali, in primis statunitensi. In meno di un anno, Teheran ha colpito in due diverse occasioni obiettivi sensibili israeliani direttamente dal proprio territorio, in una saga di tit-for-tat destinata a protrarsi. Al contempo, dopo anni di oblio, le potenze regionali hanno ritrovato nella difesa della causa palestinese, e nell’ambizione di assurgere al ruolo di garante e protettore del suo popolo, un privilegiato fattore di strumentalizzazione delle tensioni domestiche ed esterne.
«Quello attuale è un conflitto che segnala la volontà di tutti gli attori in causa di migliorare la propria posizione, ma che per nessuno deve alterare lo status quo regionale» dice Lorenzo Trombetta, Limes, intervistato sul tema da Dissipatio. Da Doha al Cairo, è un continuo avvicendamento di negoziatori, emissari governativi, capi delle agenzie di intelligence di mezzo mondo, da mesi al lavoro per cercare una quadra bilanciata, preposta a riportare in auge uno status quo che soddisfi gli interessi di ognuno.
All’interno di questo quadro, un capo di stato in particolare ha assunto una posizione di assoluta rilevanza nel sostengo pubblico e mediatico dei gazawi: Recep Tayyip Erdoğan. A partire dal 7 ottobre, la narrativa di Stato turca rispetto agli eventi che da Gaza hanno gradualmente contagiato tutta la regione si è nel tempo radicalizzata e cristallizzata. Solo pochi mesi fa, in tutto il Paese, veniva commemorata l’uccisione di Ismail Haniyeh, con le bandiere a mezz’asta e il lutto nazionale. Nel suo recente discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il leader turco ha accusato Israele di aver trasformato Gaza nel “più grande cimitero di bambini e donne del mondo”.
Storicamente, le relazioni tra Turchia e Israele hanno fluttuato attraverso fasi di forti oscillazioni. Nonostante il voto contrario al piano di partizione dell’ex Palestina britannica in sede ONU, già nel 1949 la Turchia di Ismet Inonu fu il primo Paese a maggioranza musulmana a riconoscere Israele. E così, specialmente a partire dagli anni ‘90, si è assistito, da un lato, a una propensione reciproca alla collaborazione in campo militare e di intelligence, su cui è stata anche costruita una fitta rete di accordi commerciali, scambi diplomatici e turistici. Dall’altro, a partire dal riconoscimento dell’OLP nel 1970, Ankara non ha mai fatto mancare il proprio sostegno ai leader politici e militari palestinesi. Una tradizione cominciata nel 1988, quando la Turchia offrì asilo politico al governo palestinese in esilio, che si è tramandata fino ad oggi, tanto da permettere ad Hamas di avere un ufficio di rappresentanza sulle rive del Bosforo.
Con l’avvento degli anni 2000, caratterizzati dall’inizio dell’era Erdoğan e l’intensificarsi delle operazioni militari israeliani nei territori palestinesi, il perimetro delle relazioni bilaterali ha cominciato a incrinarsi. A beneficiarne, su tutti, è stato proprio Hamas, nobilitato dal leader turco quale espressione legittima del popolo palestinese e rappresentante della resistenza contro le politiche di occupazione dello Stato Ebraico.
A rinforzare però la narrazione politica e mediatica turca nei confronti di Israele, e a spiegare la vicinanza di Erdoğan alla causa palestinese, non basta l’immedesimazione nella sofferenza di un popolo fraterno e la comune appartenenza con Hamas al sovra-pensiero ideologico della Fratellanza musulmana. Dietro l’epiteto di “macellaio di Gaza”, affibbiato a Netanyahu, vi è infatti un intreccio di eventi che toccano tanto la componente domestica quanto quella di politica estera e che rischiano di complicare il futuro ruolo della Turchia nella regione.
In primis, la tornata delle elezioni locali svoltesi a marzo 2024. Per la prima volta dal 2002, il principale partito di opposizione, il partito repubblicano del popolo (CHP), è riuscito nell’impresa di affermarsi a livello nazionale nei confronti del Partito della Giustizia e dello Sviluppo (AKP) di Erdoğan. Tra le motivazioni che sono costate all’AKP un’emorragia di voti, oltre alla disastrosa gestione dell’economia, figura lo scontento dell’elettorato islamista e conservatore proprio nei confronti della posizione assunta dal governo turco a seguito degli eventi del 7 ottobre, divenuto il tema cardine della campagna elettorale del Nuovo Partito del Benessere, fondato da Fatih Erbakan, figlio di Necmettin, padre politico dell’islam politico turco a cui si ispira lo stesso AKP, terzo partito in assoluto con il 6% dei consensi.
Non è un caso dunque che la retorica anti-israeliana dell’establishment turco si sia inasprita a seguito della sconfitta elettorale dell’AKP. Hamas, nella narrazione di Stato, è assurto a “gruppo di liberazione”, mentre lo stesso Erdoğan – in occasione di un comizio a Rize, città sul Mar Nero, regione di origine della sua famiglia e tra i suoi principali bacini in termine di consensi – ha manifestato la possibilità che la Turchia potesse inviare i suoi soldati a difesa del popolo palestinese, citando a sostegno di questa eventualità i successi ottenuti dall’esercito di Ankara in Libia e Nagorno Karabakh. Questo episodio, al pari del recente tentativo da parte del governo di convincere il parlamento dell’esistenza di un’imminente minaccia alla sovranità turca da parte di Israele, ben evidenzia l’inscindibile legame tra la politica domestica di Ankara e il suo posizionamento su scala internazionale.
Boutade a parte, lo scontro tra Israele e Turchia rimane – e rimarrà – confinato a un perimetro squisitamente mediatico e diplomatico, come altrimenti non potrebbe essere. La Turchia, fianco sud della NATO, ed Israele, da sempre avamposto della politica estera statunitense in Medio Oriente, ricoprono una posizione di primaria importanza per il bilanciamento dell’influenza iraniana nella mezzaluna sciita e nel Caucaso. Tuttavia, la narrazione impostata dal governo turco parrebbe segnalare una volontà di esacerbazione dei rapporti che, a prescindere dalla capacità di aver superato momenti di alta tensione anche in passato, pone diversi interrogativi su quello che sarà lo stato delle relazioni nel day after.
Pochi si ricordano però che lo stesso Erdoğan visitò Gerusalemme nel 2005 ed incontrò l’allora Primo Ministro israeliano Ariel Sharon, figura certamente non apprezzata dai sostenitori della causa palestinese. A questo si aggiunge, solamente un anno fa, a margine della scorsa Assemblea Generale delle Nazioni Unite, l’incontro tra Erdoğan e Netanyahu che poneva le basi per una possibile visita nelle reciproche capitali. L’incontro bilaterale era stato preceduto da una visita di Stato del Presidente israeliano Herzog in Turchia a marzo 2022, a cui hanno fatto seguito poi gli incontri tra i capi delle diplomazie di Ankara e Tel Aviv.
Un risultato frutto di un raffinato lavoro diplomatico, da intendersi quale parte integrante di uno schema più esteso che includeva, da un lato, la firma degli Accordi di Abramo e, dall’altro, l’operazione di normalizzazione dei rapporti con i vicini regionali portata avanti da Ankara, al fine di ridurre i confini del proprio isolamento, creatosi a partire dalle cosiddette primavere arabe del 2014. Oggi le relazioni bilaterali si trovano a un punto ancora più critico rispetto al 2010, quando l’incidente della Mavi Marmara, in cui dieci cittadini turchi, attivisti pro-palestinesi, vennero uccisi dall’esercito israeliano nel tentativo di avanzare verso Gaza a bordo di una nave umanitaria.
La recente escalation è poi proseguita con l’interruzione totale degli scambi commerciali a seguito della decisione unilaterale da parte di Ankara. «In passato – anche a fronte di momenti di alta tensione – la comunità degli imprenditori ha giocato un ruolo importante nel mantenere attivo un certo tipo di cooperazione bilaterale, ma questa volta non è bastato, anche a causa dell’interruzione dei voli e delle restrizioni turche al commercio con Israele» sostiene Nimrod Goren, presidente e fondatore del Mitvim Institute e Senior Fellow del Middle East Institute, interpellato da Dissipatio. Tuttavia, anche in questo caso la realtà è più sfumata. Se da un lato il commercio è ufficialmente fermo, gli esperti segnalano un aumento vertiginoso dei dati relativi ai beni in transito attraverso Paesi terzi, aprendo a diversi interrogativi.
Sfruttando le reti commerciali con Grecia, Azerbaigian, ma anche Eritrea e – soprattutto – la stessa Autorità Palestinese, le merci che lasciano la Turchia continuano a finire nei porti israeliani. Tra i beni più importanti che continuano ad essere esportati figura inoltre l’acciaio, materiale di fondamentale importanza per l’industria bellica e militare. Ankara non può permettersi di subire i contraccolpi che deriverebbero da un’effettiva cesura degli scambi commerciali. L’economia, rappresenta l’elemento secondo cui per il governo turco vale sacrificare un po’ di ideologia in cambio di risultati nel breve termine.
Da questo quadro emerge dunque come le relazioni tra Ankara e Tel Aviv siano dunque governate da un ecosistema ad alta pressione, in cui si alternano fasi distensive a momenti di tensione. L’imprinting tra i due Paesi è sempre stato basato su una diplomazia abituata a lavorare nell’ombra, facendo forza sui rapporti ad altissimo livello sia di intelligence che militari, con la sfera della sicurezza a ricoprire un ruolo cruciale nell’agenda bilaterale.
In linea con la sua politica estera multidimensionale e di bilanciamento, la Turchia ambiva a ritagliarsi un ruolo quale possibile artefice di un cessate il fuoco nella Striscia, ricalcando il modello che ha visto Ankara protagonista nel riuscire a siglare la Black Sea Grain Initiative, l’accordo sul grano tra Russia e Ucraina. Gli stessi Stati Uniti hanno cercato di coinvolgere la Turchia in fase embrionale, puntando sulla possibilità che Ankara facesse valere la propria influenza su Hamas e, in potenza, potesse ambire a un ruolo di rilevo nella gestione della Striscia.
Roma, Dicembre 2023. XIII Martedì di Dissipatio
Speranze che sono presto evaporate davanti all’impatto sulla popolazione civile delle operazioni militari di Tsahal nella Striscia – a cui si è poi aggiunto l’allargamento del conflitto al Libano meridionale – che hanno reso la pressione interna insostenibile. Sono lontani i tempi in cui Erdoğan, era il 2008, mediava l’accordo tra Israele e la Siria per la disputa legata alle alture del Golan, ricevendo luce verde da parte dell’amministrazione Bush.
Se è chiaro dunque che il 7 ottobre ha finito per rendere totalmente incompatibili le leadership di Israele e Turchia, rimane concreta la possibilità che i due uomini forti al loro comando potrebbero presto cedere il passo ai loro rivali. “In futuro, alla luce del completato riavvicinamento tra la Turchia e l’Egitto di Al-Sisi, se in Israele dovesse emergere una leadership moderata, e contestualmente la postura di Ankara nei confronti di Israele cambierà in meglio – continua Nimrod Goren – la Turchia potrà avere l’opportunità di giocare un ruolo più significativo anche in questo quadrante del Mediterraneo”.
A lungo andare, il delicato equilibrio tra la narrativa domestica e la proiezione esterna turca rimarrà un elemento centrale nei rapporti con Israele. L’impellenza di Tel Aviv nel ristabilire una forma di cooperazione in materia di sicurezza con i vari attori regionali si sposa con la volontà turca di sancire rapporti di “buon vicinato”. A modellare il quadro regionale parteciperà anche il risultato delle elezioni presidenziali USA, appuntamento che, seppur consacrato a spartiacque storico per il futuro della regione, evidenzia le difficoltà di un ordine liberale internazionale sempre più impotente di far fronte alle poli-crisi che ne minano le fondamenta.
Di Stefano Mazzola e Riccardo Gasco