L’Ucraina di Zelensky ha fin da subito tentato di ottenere lo status di membro osservatore all’interno del Consiglio di Cooperazione dei Paesi Turcofoni, anche conosciuto come il Consiglio Turco, un’organizzazione internazionale con sede ad Ankara. Questa notizia, in realtà, è una non-notizia per chi sta seguendo l’evoluzione delle dinamiche ucraine sin dal dopo Euromaidan. Vincendo la battaglia per l’Ucraina, l’Occidente è riuscito nell’obiettivo di avvicinare il compimento del sogno di Zbigniew Brzezinski di espellere la Russia dall’Europa, trasformandola in un “impero asiatico“. Fra questo scenario e la sua definitiva realizzazione vi sono soltanto più tre ostacoli: Bielorussia, Moldavia e Serbia.
In breve, quello a cui stiamo assistendo, è la scomparsa dell’intero sistema degli stati-cuscinetto costruito da Stalin nel periodo interguerra per proteggere la Russia da invasioni esterne. Quel sistema è sul punto di collassare perché è stato inglobato nell’orbita euro-americana attraverso l’allargamento dell’Unione Europea e dell’Alleanza Atlantica. Oggi la Russia è accerchiata ovunque – non soltanto in Europa, pensiamo ad esempio a quanto sta accadendo nel Caucaso meridionale e in Asia centrale. Ma torniamo in Europa. La Bielorussia è stata scossa da un’ampia mobilitazione di una parte cospicua della società sin dalla notte del 9 agosto 2021; la Moldavia è un giocatore vulnerabile per via del suo costante bisogno di investimenti stranieri e per la presenza di una minoranza turcica in Gagauzia che la Turchia sta abilmente soggiogando, mentre la Serbia è quasi completamente circondata dai Paesi Nato, anche se la sua posizione all’interno dell’orbita russa non sembra per ora scricchiolare (a ben vedere anche dalle manifestazioni filo-russe di questi giorni).
Tornando all’Ucraina, l’ingresso nel Consiglio Turco si piega ad una sola interpretazione: il Paese stava rapidamente transitando dal mondo russo al mondo turco. Si è trattato di una situazione che non sta caratterizzando soltanto Kiev ma molti altri Paesi, come gli –stan dell’Asia centrale ex sovietica e l’Azerbaigian, e regioni, come la suscritta Gagauzia e le repubbliche russe a composizione turca, dal Caucaso settentrionale alla Siberia. La notizia riguardante l’ambizioso progetto del governo ucraino è stata data da Emine Dzheppar, una politica ucraina di origine tatara che è stata recentemente nominata primo vice primo ministro agli Esteri. La Dzheppar, intervistata in passato dall’agenzia di stampa turca Demirören, ha spiegato che la presidenza Zelensky vorrebbe aderire al Consiglio Turco perché:
Siamo Paesi confinanti. L’Ucraina è erede della cultura turcica. I tatari crimeani sono un ponte tra l’Ucraina e la Turchia.
Emine Dzheppar
Sebbene sia vero che i tatari rappresentino un utile punto di connessione fra l’Ucraina e la Turchia, è discutibile il passaggio inerente la presunta identità turca dell’Ucraina. In effetti, non è discutibile: è tutto sommato antistorico. È un tentativo di riscrivere sia la storia che l’identità dell’Ucraina, che è, fu e sarà sempre la culla della civiltà russa. I tatari rappresentano una minoranza molto esigua – circa 70mila secondo il censimento del 2001 – ma sono la chiave di volta dell’Ucraina con cui entrare nelle grazie della Turchia e dell’Occidente.
Fin dall’inizio la decisione di aderire al Consiglio Turco è stata preceduta da molte altre iniziative e l’eventuale entrata nell’organizzazione era semplicemente la tappa naturale di un percorso iniziato da Volodymyr Zelensky nell’agosto 2019 con una visita ufficiale ad Ankara. Da allora i due Paesi hanno costruito in tempi brevi un partenariato strategico molto solido che, oggi, è esteso dal commercio all’industria, dalla difesa alla sicurezza regionale, dalla politica estera alla Crimea. Quest’ultima è di particolare rilevanza per entrambi dato che è un modo con cui minare la grande strategia russa per il mar Nero.
Ma perché in passato l’Ucraina è sul punto di diventare parte integrante del mondo turco? Non è soltanto il Consiglio Turco, molti altri eventi sono accaduti nel corso degli ultimi anni. A luglio 2021, l’ambasciatore turco a Kiev, Yagmur Ahmet Gulder, aveva annunciato che la Turchia costruirà una maxi-moschea nel cuore della capitale ucraina. I negoziati riguardanti il terreno sono stati già risolti e prossimamente dovrebbero iniziare i lavori. Una volta completata, la moschea sarà la più grande del Paese: il progetto prevede una capienza di almeno 5mila fedeli. Per la sua realizzazione il governo turco ha messo a disposizione cinque milioni di dollari. L’idea di edificare una nuova moschea a Kiev non è stata turca ma di Mustafa Dzhemilev, il capo del Mejlis, il corpo di rappresentanza ufficiale dei tatari – che è stato dichiarato fuorilegge in Crimea con l’accusa di estremismo – secondo il quale il Paese avrebbe bisogno di una nuova moschea alla luce dell’arrivo di decine di migliaia di tatari dalla penisola negli ultimi sei anni.
Sullo sfondo delle negoziazioni per la moschea, la Turchia sta lavorando da anni alla costruzione di appartamenti residenziali per centinaia di famiglie tatare nelle città di Kharkiv, Lviv, Odessa, Kherson e Dnipro. Entrambe le iniziative hanno ricevuto grande accoglimento presso la minoranza turcica e miglioreranno sensibilmente l’immagine di Recep Tayyip Erdogan quale protettore dei popoli turchi e dei musulmani in generale. Ma prima ancora che la moschea fosse annunciata, il 18 maggio è avvenuto qualcosa di storico. Zelensky aveva inserito due importantissime celebrazioni islamiche nel calendario nazionale delle festività pubbliche: la festa del sacrificio (Eid al-Adha) e la festa della rottura del digiuno (Eid al-Fitr).
La data dell’annuncio è stata scelta con scrupolo perché l’obiettivo era quello di aumentare la rilevanza simbolica dell’atto: infatti, il 18 maggio di ogni anno, i tatari osservano il cosiddetto “Giorno della memoria delle vittime del genocidio dei tatari di Crimea”. Dal 2014, quello storico evento è entrato ufficialmente nell’elenco delle guerre della memoria (memory wars) relative alla seconda guerra mondiale che dividono l’Occidente e la Russia. Oggi, quella data, grazie a Zelensky, ha assunto un’importanza equivalente per gli ucraini, per i tatari e per i turchi. Secondo il presidente ucraino, il riconoscimento ufficiale delle feste islamiche era un passo fondamentale da fare verso la costruzione di una “nuova Ucraina all’interno della quale chiunque possa sentirsi cittadino“.
Lo stesso giorno, Zelensky aveva anche dato notizia della formazione di un gruppo di lavoro all’interno dell’ufficio della presidenza specializzato in questioni tatare. Obiettivo: migliorare le condizioni di vita della minoranza all’interno del Paese. Sono stati i tatari, quindi, a guidare l’evoluzione del sodalizio turco-ucraino formatosi nell’ultimo anno. Ad agosto scorso, Zelensky aveva partecipato all’inaugurazione dell’apertura di un ufficio di rappresentanza dei tatari di Crimea ad Ankara. A febbraio, invece, era stato il turno di Erdogan a Kiev: lì, il presidente turco aveva annunciato il piano di risistemazione abitativa per i tatari fuggiti dalla penisola, reiterando che il suo governo non riconoscerà mai il nuovo status quo perché la “Crimea è la patria storica dei tatari“.
La carta tatara è utile a entrambi: Kiev può migliorare la propria immagine in Occidente, Ankara può aumentare il proprio prestigio nel mondo turcico e islamico e, simultaneamente, allargare il proprio spazio di manovra all’interno dell’Ucraina nell’aspettativa di colmare il vuoto di potere lasciato dal Cremlino. Infine, come già scritto, giocare la carta tatara è l’unico modo che hanno i rivali o i pacificatori della Russia per mantenere aperta la possibilità di destabilizzare la penisola attraverso un’insurrezione di stampo etnico – oppure come in questo momento di mediare tra i due contendenti. La Russia ha davanti a sé una sfida storica, perché il tanto temuto scenario dell’accerchiamento che tormentava i sogni di Stalin è divenuto realtà, e la caduta degli stati-cuscinetto porterà allo spostamento dell’attenzione sulle repubbliche russe a composizione turco-musulmana. Il rischio di un’implosione di sovietica memoria è elevato, e i dirigenti del Cremlino sono chiamati a elaborare un ripensamento strategico a 360 gradi: in gioco c’è la sopravvivenza stessa della Russia, come la conosciamo oggi.