Il collasso del regime di al Assad ha ricondotto l’attenzione su primavere che, non a caso, hanno avuto parte nell’innescare l’inizio di una fine che, a suo tempo, pur distanziata da una repressione efferata, non poteva evitare profonde menomazioni politiche. Primavere private della naturale grazia dall’insorgenza dell’Islam politico, secondo un modello regressivamente restauratore. Il cuore della questione ha di fatto pulsato al centro di una carenza ideologica che ha prodotto rivolte estemporanee e non rivoluzioni; gli affratellamenti verbali a modico prezzo, come quelli algerino-tunisini, non hanno potuto evitare il naufragio del regime assadiano, lo scomodo parente infermo giocoforza compatito in pubblico ma da cui porsi, dietro le quinte, a prudente distanza di sicurezza per evitare di contrarre analoghe e virulente patologie. In un paradossale gioco di ombre, la Russia di Lavrov fino al giorno antecedente la caduta di Assad sosteneva i damasceni, pur negoziando con iraniani e turchi un’impossibile via d’uscita fondata sulla retorica securitaria; mai come questa volta l’invocazione del rieletto presidente tunisino Saïed, volta retoricamente a prevenire ingerenze straniere dopo anni di inesistente statualità sovrana, di frammentazione territoriale e di influenze, ha assunto parvenze farsesche, corroborate dalla presunta cattura di combattenti marocchini, solidali con Assad, ma invisi alla filosiriana Algeri poiché guerriglieri del Polisario.
Inevitabile che la parcellizzazione conducesse a politiche più assertive da parte di Tel Aviv, intervenuta prima a sostegno della base ONU Undof, attaccata da estremisti sunniti, per oltrepassare poi la linea rossa tracciata nel 1973 sul Golan e prendere, sul monte Hermon, le posizioni abbandonate dai siriani. Un’area silenziosa ma non per questo meno importante, che sovrasta la Valle delle Lacrime, campo di battaglia tra corazzati della guerra del 1973 e che domina Israele, Siria, Libano e Giordania, il cuore del Mashreq, dove l’acqua vale più del petrolio. Le alture del Golan sono esattamente ciò che sembrano: una grande zona di guerra, conclamata o potenziale non importa, secondo un processo che già dai suoi prodromi si indovina lungo ed inflessibile.
Il controllo dei valichi del Golan ha da sempre comportato il dominio delle vie lungo cui si svolgevano commerci ed attività militari che, dall’interno, arrivavano agli approdi della Palestina per giungere al più recente transito della Trans-Arabian Pipeline, oleodotto che, già dalla guerra civile libanese del 1975, trasportava il petrolio saudita fino a Sidone; gli scontri della Guerra dei sei giorni del 1967 e della Guerra del Kippur dell’ottobre 1973, hanno di fatto riconferito slancio ad una storia mai sopita che ha visto gli israeliani per due volte ad un passo dalle porte di Damasco. Malgrado la tecnologia abbia privato il Golan della sua funzione di sentinella della regione damascena e galilea, l’area rimane punto di passaggio e confluenza della gran parte delle risorse idriche israeliane: l’ostacolo alla definizione di qualsiasi trattativa rimane insito sia nella questione idrica, sia in una complessa percezione culturale che, sia in Siria, sia in Israele, sulla zona tende a focalizzarsi sugli aspetti socio-politici d’attualità e, attualmente, sul revival della continuità storico-ebraica. Pur essendo un fronte conteso, il Golan ha conservato una relativa tranquillità che lo ha visto siriano dal 1923, occupato da Israele nel 1967 per diventare, con decisione unilaterale del 1981 peraltro oggetto di reprimenda onusiana, parte integrante dello stato con la Stella di Davide, attento a rifiutare qualsiasi negoziazione precondizionata ad un ritiro dietro le linee del 4 giugno 1967. È il risultato dello Yom Kippur che, non solo non consente ai siriani di riprendere il Golan, ma fa correre loro per la seconda volta il rischio di perdere Damasco.
Area montuosa di circa 1800 Km2 , il Golan è stato posto dal 1974 per tre quarti sotto controllo israeliano e per la rimanente parte sotto amministrazione siriana; tra i due antagonisti si estende, da nord a sud, una terra di nessuno vigilata dai caschi blu della forza Undof che, con gli osservatori militari dell’UNTSO, mantengono il loro quartier generale a Quneytra. A est i rilievi sovrastano la pianura siriana; a ovest dominano il Lago di Tiberiade, l’alta valle del Giordano e parte della Galilea. Mentre a sud-est scorre lo Yarmuk, a nord-ovest si innalza il monte Hermon, con le installazioni radar israeliane e da dove Tel Aviv controlla sia la valle libanese della Bekaa, sia i sobborghi di Damasco, tutti elementi che tuttavia non hanno impedito l’attacco a Majdal Shams del 27 luglio 2024, quando un razzo lanciato da Hezbollah ha ucciso dodici bambini siriani appartenenti alla comunità drusa, un evento che ha sollecitato la paritetica comunità libanese ed il timore di una violenta rappresaglia israeliana. Se la comunità internazionale riconosce il Golan come territorio occupato, dal 2019 Washington, quale unico soggetto politico, riconosce un’ebraicità che vale anche come avviso a Mosca ora costretta a notevoli equilibrismi diplomatici. Non c’è dubbio che per Israele le alture rivestano un ruolo strategico che garantisce sia l’esistenza di un cuscinetto ante-siriano, sia un’impareggiabile visuale, un ruolo la cui importanza è stata amplificata dalle alleanze anti ebraiche incarnate dall’asse della resistenza teheranese che ha cercato di mantenere la Siria quale asset strategico spendibile. Non a caso l’8 dicembre Tsahal ha diffuso la notizia di essere penetrato nella zona cuscinetto all’interno della zona smilitarizzata, per impedire ai jihadisti di entrare in Israele. Mentre Tel Aviv ha tenuto a distanza le milizie iraniane, Mosca ha guardato agli attriti come a forme di un’escalation destabilizzante, malgrado Teheran, poco incline ad uno scontro diretto, prediliga un meno rischioso impiego di proxy, mentre una nuova ondata colonizzatrice ebraica potrebbe prepararsi ad arrivare oltre che in Cisgiordania anche in Golan.
Sykes-Picot hanno colpito anche qui, con la demarcazione tra protettorati franco-inglesi, con l’influenza imperiale di Parigi estesa fino a Quneytra, con la concessione delle vie per i mari caldi alla Russia e con il riconoscimento del valore strategico mediorientale benevolmente concesso dall’americano Mahan. Sul Golan convivono 24.000 drusi, che potrebbero preferire Tel Aviv ad al Qaeda, ed israeliani, circa 31.000, tutti in condivisione di un’area oggetto di un piano volto a raddoppiare la demografia ebraica, epigono di un progetto quinquennale già del governo Bennett affine al Deal of the Century trumpiano congegnato nel 2020 per i Territori Occupati della Cisgiordania, in un contesto di cui Netanyahu ha ora proclamato il possesso prima temporaneo e poi per l’eternità, cristallizzando la più ovvia delle domande: Israele può permettersi di rinunciare al Golan con gli integralisti sunniti ai confini? Anche l’economia dice la sua, con il governo di Tel Aviv che ha inteso presentare un bilancio atto a sostenere le esigenze securitarie ma riducendo il deficit e incoraggiando la crescita di quasi il 4,5%. Un programma troppo ambizioso stanti le necessità politiche di soddisfare le varie anime della coalizione al potere. Inevitabili le ambasce delle agenzie specializzate, che hanno già declassato il rating israeliano prevedendo il rischio di una crisi finanziaria che, già da ora, si preannuncia severa sia nei confronti delle imprese sia come prodromo ad una recessione. L’esecutivo finora ha finanziato i costi bellici elevando un debito che vede un rapporto con il PIL vicino al 70%, con il premio di rischio sui titoli di stato in aumento. Una crisi finanziaria porterebbe a una crisi fiscale quale precursore di una conseguente recessione. Tali eventi non solo danneggerebbero le capacità reattive del paese, ma anche l’intero sforzo bellico.
Intanto il recupero dell’area siriana è una tessera del più ampio mosaico strategico israeliano di contenimento dell’Iran nella più estesa regione siro-libanese, Golan compreso, senza contare che gli Accordi di Abramo hanno comunque agevolato l’avvicinamento di Tel Aviv al mondo arabo con Mosca indotta ad una competizione strategica con Teheran impegnata a lasciare aperto il corridoio mediterraneo; di scena dunque e ancora la sicurezza, con la condanna di Turchia, Egitto, Giordania, Qatar, Iran, Arabia Saudita ed EAU con questi ultimi che, pur avendo normalizzato le relazioni con Tel Aviv nel 2020, hanno stigmatizzato gli eventi come uno sforzo deliberato per espandere l’occupazione non osteggiata però da alcuno. Parallelamente, se Teheran percepisse gli eventi siro libanesi come una debacle irreparabile per la sua deterrenza asimmetrica, la teocrazia potrebbe scivolare su posizioni filo nucleari, costretta com’è da contingenze geopolitiche e più strettamente finanziarie, con una sfera d’intervento limitata all’Iraq. Necessario dunque il taglio dei sussidi energetici, necessario per ridurre il disavanzo fiscale e stabilizzare i prezzi al consumo, ma passando per la forca caudina inflattiva, minaccia esiziale per la sopravvivenza dell’establishment clericale.
Comprensibili in quest’ottica gli attacchi israeliani contro sistemi d’arma ed infrastrutture siriani per impedire il loro impiego successivo da parte del jihadista Hayat Tahrir al-Sham (Hts). Lo scopo è evidente: distruggere ogni capacità militare attuale e futura, ponendo a sistema la caduta di Assad con l’annichilazione del leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, eventi che hanno infranto i fragili equilibri di un’area in cui gli scontri sono destinati a perdurare, specie con le forze siriane democratiche a guida curda. Di fatto, le istanze istituzionaliste mai come ora trovano difficoltà nel dirimere le controversie insorgenti, dato il gioco politico che, tra veti e risoluzioni, inevitabilmente si scatena, come già accaduto a suo tempo in Crimea, dove la legittimità delle iniziative intraprese è stata sovente oggetto di appunti rimasti meri esercizi concettuali privi di effettività e rimbalzanti tra Assemblea generale e CIG.
Tiriamo qualche riga di provvisoria chiusura. Sia Mosca che Teheran avrebbero preferito un Assad ancora in sella; la sua caduta lancia nel piatto la fiche del futuro delle basi militari russe e la presunta fine della libera iniziativa iraniana in terra siriana, avendo sullo sfondo la guerra ucraina ed il conflitto mediorientale a fronte sia della considerazione di un investimento strategico ormai privo di ritorni sia della presa di coscienza di non poter contare su proprie capacità belliche da considerarsi ormai degradate. Inevitabile anche pensare che la caduta del regime siriano possa aver indotto Teheran ad aumentare i timori per la sua stessa tenuta politica, visto che peraltro gli ultimi attacchi israeliani hanno fortemente intaccato le capacità antiaeree iraniane, elemento che rafforza la valutazione già proposta circa l’incremento delle capacità nucleari. Anche la Russia può subire influenze dal crollo siriano, provenienti dalla considerazione di Teheran circa una parva affidabilità tale da consigliare sia pur prudenti aperture occidentali. La Russia, in Siria, dovrà mutare paradigma, passando dalle prove di forza all’esercizio della diplomazia, consentendo obtorto collo l’ingresso dell’influenza turca fin sul Golan. Attesa la nuova Amministrazione USA, verso cui in MO Mosca avrà meno leve da poter utilizzare a cominciare da quella navale, al momento a rischio. Israele ha bisogno di una strategia chiara per il giorno dopo la fine delle Spade di Ferro; Tel Aviv non sta giocando sul breve respiro, ma sul lungo termine, tanto da voler creare una realtà securitaria tale da indebolire l’Iran in un conflitto percepito come esistenziale, dove la rimozione delle minacce non è negoziabile. Indispensabile, dunque, dimostrare una superiorità indiscussa e indiscutibile, passando anche per una reprise degli Accordi di Abramo.
Se di gioco si può parlare, si tratta di un gioco lungo, di una svolta strategica di più ampia portata; gli obiettivi dichiarati sono a Gaza ed in Libano, quelli non dichiarati riguardano la creazione di una nuova realtà securitaria che contempli l’annichilimento di Hamas e Hezbollah, senza i quali quarant’anni di teocrazia iraniana possono essere archiviati. Ricorrendo ad un’immagine cara a questi ambiti, dopo la liberazione degli ostaggi, si tornerà a falciare il prato dove necessario, liberandosi dell’incubo della deterrenza reciproca con Hezbollah, posto che Israele è una delle parti in causa che può però determinare quali personaggi non arriveranno ad essere leader. Di fatto, si ripete quel che accadde nel 1973, dopo lo Yom Kippur, quando l’esecutivo di Golda Meir dovette prendere atto che mai sarebbe stata perdonata alcuna debolezza commessa.