OGGETTO: L’ombra lunga di Chávez sul tramonto venezuelano
DATA: 19 Settembre 2024
SEZIONE: Politica
FORMATO: Analisi
Il Sud America, terra di rivoluzioni e carismi, trova nell’eredità di Hugo Chávez e nel suo successore Nicolás Maduro un esempio di come il populismo possa evolversi in autoritarismo. Dal sogno bolivariano al socialismo del XXI secolo, la leadership chavista ha alternato nazionalizzazioni e politiche economiche instabili, portando il Venezuela a una crisi economica e politica senza precedenti. Il regime di Maduro, tra repressione e sanzioni internazionali, continua a dividere il paese e a sconvolgere l’intera regione.
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Il Sud America evoca molteplici atmosfere, passando dalla malia sensuale del Caminito di Gardel agli emuli reali del cinematografico e sanguinario Gunther Resa; anche se a media luz le rivoluzioni si sono succedute incessantemente nel tempo. Simon Bolivar, di certo consapevole dell’influenza politica generata, sarebbe forse stato meno convinto delle sue successive declinazioni. Del resto, non c’è stato mai titolo attribuito in via populista che non abbia attratto volenterosi ma meno capaci epigoni; così è stato per l’appellativo Libertador, evocazione di rara potenza quando preceduta dall’immancabile unzione popolare. El hombre de America è rimasto così vivo nell’immaginario collettivo da giungere fino a Hugo Chávez, demiurgo di una miscela dottrinaria di populismo caudillista di sinistra e lotta di liberazione. Da venezuelano a venezuelano, l’attuale Presidente Maduro ridesta dal passato con intensità medianica Chavez, di cui ama incarnarsi in un figlio, cui il padre è stato tuttavia avaro nella trasmissione del carisma. Del chavismo rimane un’ideologia la cui rigidità è indispensabile per chiunque non possieda adeguata vis politica, caratteristica del polarizzante Hugo capace di passare con nonchalance dallo status di golpista a quello di presidente legittimamente eletto, spezzando l’egemonia dei partiti tradizionali. Il carisma populista ha permesso a Chavez ed alla sua revolucion bonita di rimanere ininterrottamente al potere fino al suo trapasso nel 2013 grazie al sostegno dell’esercito, dalle cui fila proveniva, pur mantenendo una parvenza di democraticità con cui travisare un autoritarismo sempre più marcato, incompatibile con l’ispirazione bolivariana fisiologicamente di originale marca liberale, ed invece aderente ad un socialismo del ventunesimo secolo di stampo marxista e guevarista.

Già Silone nel ’38 si poneva domande circa la possibile esistenza di una tecnica della dittatura, ora attagliabile anche alle contingenze venezuelane; fermo restando che secondo Tommaso il Cinico, che spiega come nasce una dittatura e non il perché, la verità nascosta in ogni sistema politico è di preferenza reperibile presso gli oppositori. Leggere Silone, ricordare Machiavelli e collegare Caracas è un attimo: tradizionale arte politica e sue deficienze nell’epoca della civiltà di massa; inutilità dei programmi e pericolosità delle discussioni e sulla tecnica moderna per suggestionare le masse; consenso plebiscitario, compenetrazione stato-partito e allevamento intensivo di capri espiatori. Un buon dittatore, anche in Venezuela, è un uomo che conosce le masse, il loro malcontento per poterle controllare; deve essere capace di mestare patriottismo e senso di appartenenza; deve sapersi confondere con l’oggetto del desiderio popolare rispecchiandone le necessità. Ah, dimenticavamo: l’istruzione di alto livello non è necessaria, prova ne siano il critico stato economico e l’ignoranza del limite del ridicolo con l’anticipazione del Natale quale arma di distrazione di massa; il precetto romano del panem et circenses, poi previdentemente meglio definito dalle tre F borboniche, riprende piede.    

Ecco che le posizioni marcatamente antiliberiste conferiscono a Chavez una popolarità funzionale a confermare quanto di sulfureo e luciferino possano diffondere gli yankee, contro cui sia creare un blocco regionale, sia preservare i legami con Cuba, Russia, Cina, Iran, la crème del revisionismo internazionale. Ma l’amore, ancorché popolare, passa per la gola, per politiche economiche fondate su nazionalizzazioni e programmi di spesa alimentati dai profitti delle riserve petrolifere, tuttavia non indirizzati a durature riforme strutturali ma a provvedimenti contingenti, utili a rendere i poveri un po’ più felici pur rimanendo un po’ più poveri. L’evoluzione impressa dal delfino Nicolás Maduro, ha condotto al naturale epilogo della peggior crisi economica della storia venezuelana, già in nuce Chavez ancora vivente, in un contesto caratterizzato da un marcato autoritarismo privo di innovazioni e afflitto dal male olandese. La fortuna politica di Chavez è stata quella di essere scomparso all’apogeo del successo, lasciando in eredità tragiche conseguenze ad orologeria. Un tema ricorrente è tuttavia rimasto quello delle malversazioni elettorali, a cominciare dai sospetti del 2004, quando Chavez ha indetto un referendum chiedendo legittimazione per la propria riconferma, e giunte sino ad oggi con Maduro, prodigo dilapidatore di un capitale economico e di seguito politico.  

Ex conducente di autobus, sindacalista, Maduro ama l’oleografia che lo associa ad un gallo combattente da cui ha mutuato l’ostinazione mostrando una tenace devozione per il potere, che logora ma piacevolmente; un soggetto politico impopolare, criticato in ambito internazionale, indagato per crimini contro l’umanità, sostenuto da un cerchio magico composto sia dalla volitiva moglie Cilia Flores, sia dalle istituzioni nazionali incarnate sia dai giudici costituzionali, nominati dopo le elezioni del 2015, abili nel respingere la richiesta di referendum per la sua revoca ed a privare i deputati di  ogni immunità, sia dalle FA, detentrici di 12 dei 34 ministeri. Nicolás passa dalle linee metropolitane al ministero degli esteri, per arrivare all’8 dicembre del 2012 con la designazione presidenziale discesa direttamente dall’empireo dell’ormai morente Comandante Eterno. Diventa Presidente, carica che ricopre alla morte di Chavez per poi vincere di misura le elezioni successive, reprimere le manifestazioni studentesche del 2014, sciogliere il Parlamento nel 2017 per istituire la più acquiescente Assemblea Nazionale Costituente, vincere le altre consultazioni elettorali riuscendo pervicacemente a rimanere in costante odore di brogli. Alle critiche risponde togliendo la polvere dalla giacca e continuando dritto per la sua strada e sopravvive ad un attentato compiuto con droni armati. Maduro si appropria dell’ideologia socialista bolivariana, fa sua la retorica antimperialista ma vive in un contesto che, dalla morte di Chavez si è evoluto; è lo stile della leadership ad essere diverso: tanto Chavez è uomo di carisma, quanto Maduro è naturale elemento di un apparato burocratico che si muove più per purghe interne che per reali esigenze di giustizia. Mentre Chavez ha potuto fruire dei proventi delle vendite petrolifere a condizioni vantaggiose, Maduro ha dovuto affrontare una crisi economica che, evidenziando la sua impreparazione, è sfociata in defaillance umanitaria confermando le previsioni espresse dall’economista Sebastian Edwards nel 2010 nel suo libro Left Behind – Latin America and the False Promise of Populism; un’impreparazione sui fondamentali di governo che non gli ha impedito però di reprimere l’opposizione, la (violenta) nemesi politica di elezioni valutate come illegittime e dunque votata alla perenne mobilitazione sociale. Se Chavez è stato un leader populista con derive autoritarie, Maduro è un totalitarista naturalmente dimentico della democrazia reale, qualora l’abbia mai avuta presente.  

L’attuale crisi post elettorale venezuelana ha riportato alla luce le conflittualità latinoamericane  coinvolgendo anche soggetti politici extraregionali, come gli USA, ingessati dalla competizione elettorale novembrina, la Cina, la Russia, l’Iran, in un quadro di instabilità internazionale in cui il disatteso Accordo di Barbados, negoziato con l’Amministrazione Biden e volto a ridurre la violenza politica-elettorale, è stato funzionale solo ad alleggerire temporaneamente il carico sanzionatorio a carico di Caracas, gioco forza altrimenti dedita ad un commercio petrolifero ombra. A parte la parentesi dell’Operazione Gedeon, maldestro tentativo eversivo, il governo Maduro ha introdotto riforme economiche drastiche, ma l’esclusione della candidata presidenziale María Corina Machado, che ha poi sostenuto l’ex diplomatico Edmundo González Urrutia dato sempre in vantaggio ed ora esiliato politico in Spagna dopo essere stato raggiunto da ordine di cattura, ha indotto gli USA al ripristino di alcune delle sanzioni contro gas e petrolio venezuelani. L’opacità post elettorale, rafforzata dalle valutazioni del Carter Center, ha contribuito alle ripercussioni interne ed internazionali, cui Maduro ha risposto nel modo a lui più congeniale, ovvero non presentando alcuna documentazione a sostegno della sua elezione ed espellendo le rappresentanze diplomatiche di diversi Paesi sud americani e ritirando i propri ambasciatori. Le schede elettorali non risultano manipolate, semplicemente non ci sono più. Unico Paese d’area ancora in contatto, la Colombia di Petro, primo Presidente di sinistra di Bogotà, i cui rapporti riflettono un cambiamento più ampio della politica estera colombiana, un tempo vicina alle linee di Washington che non ha esitato a elargire, tra il 1999 e il 2021, 12 miliardi di dollari per combattere le organizzazioni del traffico di droga e la guerriglia. Solo ultimamente Bogotà ha assunto una postura più severa verso Caracas, ritenendo indispensabile poter contare su un Paese commercialmente più stabile ed in grado di contenere l’emigrazione. Politicamente, il Venezuela è un paese infranto i cui cocci sono adagiati su una faglia continentale, dove non esiste consenso unitario sulla posizione da adottare, dove le relazioni tra Brasile e Argentina sono contrassegnate da forti incomprensioni e dove le stesse liaison interne al governo Lula sono sempre più complesse. Intanto, milioni di venezuelani hanno dato vita ad una diaspora, seconda solo a quella siriana, che ha alimentato xenofobia e violenza e che ora cerca un’impossibile valvola di sfogo attraverso il Darién Gap al confine tra Panama e Colombia. La modesta liberalizzazione economica ha dato luogo a forti diseguaglianze, per cui saranno necessari anni per tornare ai livelli del 2013. Il sondaggio sulle condizioni di vita venezuelane, realizzato dall’Università CattolicaAndrés Bello, da considerarsi ufficiale per l’inesistenza di un sistema statistico nazionale, ha evidenziato che i ricchi guadagnano 70 volte più dei meno abbienti. Insomma, la crescita del PIL è prevista anche dal FMI, ma la ripresa è disarticolata e non coinvolge tutti i settori. 

È la politica estera che riserva in finale le sorprese migliori; il referendum per l’annessione della Guyana Esequiba, consultazione su cui la Corte Internazionale di Giustizia si è pronunciata negativamente, ha ricondotto all’attenzione una rivendicazione secolare, utilizzata di volta in volta in funzione delle necessità interne al regime venezuelano. La rivendicazione territoriale di Caracas rievoca sentimenti patriottici e anti-colonialisti finalizzati ad ottenere un ruolo regionale egemonico. Il disimpegno chavista del 2004 dall’Esequiba ha perso valore dal 2015, ovvero da quando nelle sue acque territoriali Exxon Mobil ha scoperto importanti giacimenti di petrolio e, soprattutto, da quando si è mostrato necessario distogliere l’opinione pubblica dalle querelle interne pur a fronte del principio a geometria variabile della preservazione di integrità territoriale e sovranità di chiunque. Rimane incombente l’imprevedibile sindrome da Isole Malvinas/Falkland; peccato (per Maduro) che Washington vegli su Georgetown dal 1966. 

Roma, Marzo 2024. XVI Martedì di Dissipatio

L’anima venezuelana è ormai divisa in due, tra i fedelissimi di Maduro ed i cittadini che, anche dai quartieri più poveri, da sempre bastioni chavisti, chiedono un cambio di passo. Crisi economica e sanzioni hanno fatto collassare il paese, incapace di garantire il potere d’acquisto di famiglie ormai avulse dal patto sociale stipulato da Chavez. I timori di una guerra civile agitati da Maduro risuonano ormai come un caveat. 

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