In Una breve storia del potere Simon Heffer riproduce un vasto affresco storico che ricostruisce le dinamiche evolutive del potere politico legandole a quattro variabili fondamentali utilizzate come lenti attraverso cui far procedere la sua analisi: territorio, ricchezza, religioni e ideologia. Tuttavia, nel suo percorso, ricchissimo di dati storici che vanno dalla classicità al XXI secolo, l’autore propone anche una certa idea del potere, un’interpretazione che cerca di tenere insieme due fondamentali schemi analitici, due regolarità della politica moderna, per usare una tipizzazione che era cara al politologo italiano Gianfranco Miglio: quella del realismo, che sottolinea l’ineliminabile conflitto interno ed esterno alle società umane, e quella del liberalismo, come metodo per la limitazione dello stesso potere politico e filosofia della libertà poggiata sull’individuo. Per quanto concerne la prima regolarità Heffer rifiuta qualsiasi interpretazione “universalista” che sia propensa a considerare la storia come ineluttabile progresso volto a delineare quello che, con una immagine carica d’ironia, il sociologo americano Christopher Lasch chiamava «il paradiso in terra».
Heffer contesta, dunque, l’idea che la storia stia volgendo al termine per la vittoria su scala globale della democrazia liberale dopo il collasso del comunismo, tanto in termini politici quanto ideologici. La teoria di Fukuyama di progressiva ed inevitabile espansione della democrazia liberale oltre i confini dell’Occidente non mostrava soltanto una fallacia ideologica, volta a costruire un’omogeneizzazione tra i caratteri peculiari dell’esperienza politica occidentale e il resto del mondo, ma anche la sua debolezza nella realtà storica già alle prime prove a cui è stata sottoposta tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila. Per quanto riguarda il liberalismo, Heffer assume una posizione di sintesi, quindi intrinsecamente realista, tra il liberalismo classico novecentesco e la critica che a questo veniva rivolta da autori come Max Weber e Carl Schmitt. Il liberalismo classico, infatti, intende limitare ed irreggimentare nel più ampio modo possibile il conflitto per il potere politico imbrigliandolo nel giuridico, cioè in regole fondamentali e inderogabili da chi detiene il potere stesso e nella contrattazione tra le parti, basata sul dialogo e sullo scambio. Sul punto, invece, l’autore cerca di dimostrare, ricorrendo ad un’ampia analisi di dati storici, come il conflitto per il potere possa essere al massimo temporaneamente addomesticato dal liberalismo, ma mai espunto dalla dinamica politica.
In altre parole, il libro mette in conto la possibilità sempre presente dell’avvento di movimenti politici estremizzati, di una degenerazione dei regimi politici verso forme illiberali e di un clima culturale con crescenti livelli di irrazionalità. L’autore mostra la consapevolezza che la politica possa produrre, con una certa regolarità storica, effetti che destabilizzano l’ordine politico. Un sistema di potere può, infatti, indebolirsi, decadere e collassare come Edward Gibbon, ripetutamente citato in tal sede da Heffer, ha dimostrato nel suo Declino e Caduta dell’Impero Romano. Questo perché le regole costituzionali, garanzia delle libertà personali, e l’organizzazione statuale, che ebbero una grande accelerazione a partire dal diciannovesimo secolo, hanno dato prova di non riuscire mai ad imbrigliare completamente la politica, a neutralizzarne gli effetti disordinanti. Per questo Heffer, da storico, sa che tanto i sistemi costituzionali così come gli equilibri nello scacchiere geopolitico devono considerarsi come fiumi sempre in movimento ed esposti alla tempesta delle trasformazioni imposte dal politico, dall’insondabile e allo stesso tempo ineliminabile conflittualità irrazionale della vita umana. Tuttavia, l’autore non abbraccia mai posizioni tout court schmittiane nella sua analisi del potere. Quest’ultimo non è, dunque, riducibile allo Stato che per Schmitt è teologia secolarizzata, cioè «la presenza nel politico, per il suo stesso costituirsi, di una trascendenza, o meglio un movimento di trascendimento della realtà empirica che è necessario e nello stesso tempo irrisolto, o mai risolto una volta per tutte», ma che resta concetto sfuggente, che vive prima e oltre lo Stato e si dipana su molteplici livelli, incluso quello spirituale, economico ed ideologico.
Heffer rimane, in definitiva, uno storico che ha maturato un approccio liberale nella sua concezione del potere, ma che resta saldamente piantato nella realtà dei fatti e del conflitto politico. Inoltre, l’autore è difficilmente inquadrabile in qualche categoria accademica proprio perché egli stesso si pone come eclettico, e questa è probabilmente la peculiarità più preziosa di questo libro, capace di fornire un grande affresco che spazia dalla storia delle relazioni internazionali a quelle delle istituzioni, dall’economia alla storia delle religioni ricordando al lettore che il potere ha sempre molteplici fonti d’estrazione e dimensioni temporali.
Senza dubbio uno degli spunti più interessanti forniti dal libro è quello legato alla storia dello Stato moderno e al suo ruolo come attore internazionale. Secondo la lezione weberiana lo Stato rappresenta un grande processo di razionalizzazione del potere politico in Occidente che è avvenuto prevalentemente attraverso due vettori: il monopolio legittimo della violenza e il dispiego dei suoi effetti sopra ad un delimitato territorio. Questo percorso si è poi raffinato attraverso la creazione di una burocrazia centralizzata e di un esercito, entrambi professionalizzati, legalizzati ed improntati a criteri organizzativi scientifici, coordinati da un vertice che si caratterizzava per l’impersonalità del comando. Lo Stato diviene, dunque, un edificio giuridico e fattuale capace di superare la vita dei suoi vertici politici e le proprie personalità. È, secondo Alessandro Paserin D’Entreves, semplicemente «violenza più mite» e «forza istituzionalizzata». Per dirla con lo storico Ernst Kantorowicz, due divengono i corpi del Re: l’uno fisico, personalizzato, carismatico e l’altro giuridico, impersonale, pubblico. È su questo aspetto che gioca molto, forse inconsapevolmente, il saggio di Heffer concentrato tanto sulla personalità degli Stati su scala internazionale quanto sulle personalità carismatiche che hanno animato il grande gioco delle potenze. Ritorna ancora, con grande evidenza, l’eredità weberiana e quelle due tipologie di potere che lo studioso tedesco classificava come tradizionale, quali la ricchezza ereditaria e i costumi, e carismatico, legato allo sviluppo di grandi personalità capaci di scalare le istituzioni pubbliche e condurle saldamente.
Quello di Heffer è un affresco del potere politico che richiama, per la sua durezza, la visione del sociologo tedesco Franz Oppenheimer per cui lo Stato è «una istituzione sociale, imposta con la forza da un gruppo vittorioso di uomini su di un gruppo sconfitto, con il solo scopo di regolare il dominio del gruppo vittorioso sul gruppo sconfitto, e di assicurarsi contro la rivolta dall’interno e gli attacchi dall’esterno». Nella concezione realista espressa dal libro c’è anche un richiamo implicito al problema della degenerazione delle democrazie in Stati totalitari, secondo la visione espressa da Bertrand de Jouvenel in Del Potere. Storia naturale della sua crescita. Per l’intellettuale francese mostrava con chiarezza il percorso di accrescimento del potere dalle sue origini nell’età moderna fino agli Stati totalitari del XX secolo e argomentava efficacemente sul fatto fondamentale per cui la democrazia, quando la penetrazione sociale dello Stato è profonda, non è in grado di fornire alcuna garanzia di tutela delle libertà individuali. Ciò, in particolare, quando tendevano a prevalere quelle correnti di pensiero, legate alla tradizione del diritto positivo, secondo cui tutto il diritto discendeva dall’autorità politica e per cui questa si trovava ad essere allo stesso tempo formalmente vincolata al diritto che solo essa stessa poteva creare. Un sofisma che si presta alla totalitarizzazione delle società e alla degenerazione del potere relativo in assoluto.
Una regolarità che vale anche quando ci si sposta nel campo delle relazioni internazionali. Infatti, pur essendo il libro di Heffer estremamente ricco di richiami alla storia delle relazioni tra Stati è molto povero di riferimenti al diritto internazionale. Un segno che l’autore consideri tribunali, regole ed enti sovranazionali come espressione dell’ordine politico globale istituito dai vincitori di una determinata fase storica e come rappresentativi di istituzioni estremamente fragili da poter essere spazzate via nel momento in cui il livello dello scontro tra potenze si alzasse. Ancora una volta la vena realista dell’autore fuoriesce con abbondanza mostrando come l’ordine liberale su scala planetaria possa reggersi, in sostanza, solamente sull’equilibro di potere tra Stati o imperi. Un potere e un bilanciamento dello stesso declinato in plurime forme politiche, culturali, economiche e religiose. Emergono qui anche interessanti considerazioni relative al rapporto tra politica e religione. Per l’Occidente il percorso di razionalizzazione del potere ha significato anche secolarizzare le istituzioni pubbliche e passare, secondo la lezione dello storico Paolo Prodi, dal patto-giuramento sacralizzato con Dio al patto tra cittadini come elemento fondamentale alla base del potere spersonalizzato dello Stato. Un percorso non privo di contraddittorietà come ha sottolineato uno dei maggiori storici del diritto tedesco Bockenfoerde per cui «Lo Stato liberale secolarizzato poggia su presupposti che non può garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà» e:
«Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altre parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali».
Queste parole al centro qualche anno fa del confronto tra l’allora Cardinale Ratzinger e il filosofo Habermas sono passate alla storia come il “paradosso di Böckenförde”.
Nel gennaio 2004 il dilemma sollevato dal giurista tedesco, è stato argomento di dibattito tra l’allora Cardinale Ratzinger e il filosofo Habermas. Il primo sosteneva che le istituzioni politiche democratiche non si reggono su loro stesse necessitando di «qualcosa di irrinunciabile», oltre il campo politico. Il secondo ribadiva che lo Stato liberale deve direttamente contribuire ai presupposti spirituali sui quali si fonda. Böckenförde s’inseriva nella querelle suggerendo una soluzione mediana: che se lo Stato liberale non può auto-creare tali presupposti, può tuttavia tutelarli e svilupparli. Neutralità dello Stato non coincide quindi con assenza di princìpi. Una questione che ci porta direttamente al cuore del rapporto con l’Islam che, seppure in termini storico-militari, Heffer tiene abilmente dentro alcune parti del suo saggio. Relazione conflittuale che inizia con la vittoria di Carlo Martello a Poitiers nel 732 dopo Cristo e che arriva fino all’11 settembre 2001. Un rapporto che illustra le due diversissime concezioni del potere delle civiltà islamica e di quella cristiana di cui ogni storico non può non tener conto. Mentre nel mondo cristiano la secolarizzazione ha dato vita alla teologia politica che ha trovato la massima espressione nello Stato moderno, con tutto ciò che questo ha comportato sul piano bellico e delle libertà personali, nel mondo islamico la separazione tra religione e potere politico non c’è mai stata. Ciò che è avvenuto in Occidente fin dal Codice di Giustiniano del 534 dopo Cristo, cioè con il divorzio tra diritto civile e quello divino, non si è mai verificato nel mondo islamico, per cui il Corano è ancora unica fonte primaria del diritto. Al mancato sviluppo della secolarizzazione e del costituzionalismo si è aggiunta una terza “razionalizzazione necessaria”, quella capitalista, che ha permesso al mondo Occidentale un formidabile sviluppo. Ciò ha permesso all’Occidente di governare il mondo non tanto, e non solo, sul piano militare quanto sul piano economico, culturale ed istituzionale. La reazione a questa aggressione occidentale subita dall’Islam, secondo un concetto coniato dallo storico inglese Arnold Toynbee, sarebbe il carburante primario del fondamentalismo. Reazione politico-religiosa all’homo saecularis, alla società di mercato e ad uno stile di vita fondato sulla concupiscenza. Una diversità tra due culture o meglio civiltà, termine coniato dall’impostazione anglo-americana propugnata da Huntington e Toynbee, che ancora oggi continua ad apparire insanabile.
Da ultimo emerge sullo sfondo del saggio di Heffer la profonda relazione tra ordine politico e sviluppo capitalistico. La ricchezza della produzione e del commercio, originata dal pluralismo istituzionale occidentale, si fonde con i destini degli Stati e la propria influenza geopolitica. L’apertura dei mercati oltre i confini nazionali, caratteristica attribuibile in primo luogo agli imperi della storia moderna e dal ventesimo secolo agli Stati Uniti d’America, diviene un potentissimo meccanismo per l’espansione del potere. Lo stesso capitalismo trasforma e viene allo stesso tempo trasformato dal potere politico nelle varie fasi della storia. Lo Stato si era abbondantemente servito del capitalismo per espandere la propria sfera d’influenza politica provvedendo a tutto ciò che ai grandi capitalisti pesava sostenere come le infrastrutture e l’assistenza sociale. Tuttavia, come anche Heffer mostra, una eccessiva interrelazione tra capitalismo e statalismo può scadere in pericolosissime degenerazioni: monopoli, cartelli, oppressione fiscale e burocratica, depressione economica e, in definitiva, collasso del sistema economico e politico. Uno strumento, lo Stato, può facilmente divenire padrone dei popoli, nemico della libera iniziativa economica, tiranno dei mezzi di produzione, pianificatore di un capitalismo concentrato e clientelare, bisognoso di conflitti esterni per giustificare la propria espansione e il mantenimento del potere da parte dei governanti. Una degenerazione che aveva investito il mondo Occidentale tra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso, la cui onda lunga si protrasse fino alla metà degli anni Settanta nelle democrazie liberali e fino al 1991 nei paesi del blocco sovietico. Come annotava profeticamente Hannah Arendt nel 1969:
«Oggi dovremmo aggiungere la più recente e forse più formidabile forma di dominio: la burocrazia o il dominio di un intricato sistema di uffici in cui nessuno, né uno né i migliori, né i pochi né i molti, può essere ritenuto responsabile, e che potrebbe […] essere definito come il dominio da parte di Nessuno.»
Tuttavia, a partire dalla fine del gold standard e la crisi della stagflazione degli anni Settanta, figlia di trent’anni di politiche keynesiane, le élite occidentali riescono a fornire risposte diverse da quelle della proliferazione dell’intervento pubblico e dell’espansione statale. Le politiche di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher aprirono i mercati mondiali alla concorrenza e fornirono una spinta ulteriore all’espansione del capitalismo globale. Un divenire che cambiò la fisionomia del potere. Da un lato si accrebbe il potere dei privati sul pubblico poiché il contratto iniziò a prevalere sull’obbligazione politica statuale, i cittadini si trasformarono rapidamente in consumatori e capitalisti di piccolo taglio, il patrimonio statale venne dismesso a favore della libera impresa, la burocrazia ridotta nel numero e pressata per divenire più simile al settore privato nella sua organizzazione. Dall’altro lato, però, sebbene furono in molti a parlare della fine dello Stato e del suo superamento ciò che accadde in realtà fu una trasformazione del potere pubblico. Lo Stato entrava meno nelle dinamiche economiche e i mercati globali si ampliarono tra metà anni Settanta e fine anni Novanta, ma come ha notato Beatrice Hibou, l’interventismo statale, ridotto nella scala economica, è aumentato a livello di volumi regolatori e adempimenti burocratici. Il potere delle burocrazie depoliticizzate nazionali e sovranazionali si è moltiplicato. Lo descrive bene il giurista italiano Sabino Cassese nel saggio Chi governa il mondo? che mostra la frammentazione dei regolatori globali, la loro composizione mista fra pubblico e privato e l’interventismo attraverso norme che discendono dal contesto internazionale o sovranazionale.
Per dirla con Pierre Rosanvallon, allievo del filosofo Michel Foucault, avviene in questo contesto l’esplosione delle controdemocrazie, cioè quegli organi depoliticizzati, come le authorities e le agenzie amministrative, che esprimono un nuovo interventismo statale e un diverso bilanciamento dei poteri volto a contrastare la rappresentatività democratica in favore di poteri spuri e sovrastatali. Il potere non è evaporato, ma si è disaggregato. Si è fatto infrastrutturale, come sottolinea il sociologo americano Michael Mann, cioè sottile e penetrante, volto ad estendersi in orizzontale più che in verticale, ad usare il diritto più della violenza come strumento di coercizione. Questa metamorfosi non rende il potere meno pericoloso per le libertà individuali né tantomeno riesce a neutralizzare il politico, come l’estremizzazione delle forze politiche delle democrazie occidentali dimostrano. Questa inquietudine si riverbera anche sul fronte geopolitico, come nota acutamente Simon Heffer, dove le democrazie liberali sembrano mostrare il fianco tanto militarmente quanto ideologicamente al fondamentalismo islamico. E dove le potenze a capitalismo autoritario hanno scoperto una nuova realtà del potere che coniuga l’adesione ai principi della concorrenza globale a quello dell’autoritarismo dispotico. Un altro mito, quello del rapporto speculare tra libertà economica e politica, sembra sul punto di cedere all’alba del ventunesimo secolo. Così se è certamente vero, come ha dimostrato Steven Pinker, che la violenza interna ed esterna alle società occidentali è drasticamente diminuita negli ultimi secoli e, in particolare, dopo la Seconda guerra mondiale, è altrettanto vero che il potere, la coercizione ineliminabile dell’uomo sull’uomo, ha trovato nuove e più sofisticate forme di espressione tanto a livello locale quanto globale. Infatti, non va mai dimenticato ciò che Guglielmo Ferrero ricordava nel suo saggio più famoso intitolato Potere:
«Le lotte per il potere tengono nella storia un posto così grande per una ragione più profonda che non sia il desiderio di migliorare lo Stato: per causa piuttosto di certe forze che agiscono nell’intimo delle società umane impedendo loro di cristallizzarsi in una forma definitiva. Forze la cui natura è assai oscura.».
Un concetto afferrato, seppur in termini diversi, anche dallo stesso Simon Heffer:
«Nell’ultimo secolo circa, il corso della storia mondiale è stato alterato da affermazioni di tutte e quattro le principali motivazioni alla base del perseguimento del potere che sono evidenziate in questo saggio. Considerazioni sul territorio, sul desiderio di ricchezza, sul fervore religioso e sul fervore ideologico hanno tutte provocato conflitto e cambiamento. Se la storia non è terminata, il suo corso ha accelerato. […] La rivalità esiste ancora, anche se lo sviluppo delle civiltà prescrive che alcuni dei rivali naturali debbano trovare metodi più discreti per entrare a far parte del gioco. Il trionfo della democrazia liberale resta una vittoria incompiuta.»
Lezioni che gli studiosi del potere e i difensori della libertà non devono mai dimenticare.
(Per gentile concessione dell’editore Liberilibri, sono stati pubblicati alcuni estratti del libro “Una breve storia del potere” di Simon Heffer)