A Palazzo Chigi si riuniscono i membri della task force diretta da Vittorio Colao per preparare la seconda fase, che sarà ancora più violenta della prima. A giudicare dalle misure ipotizzate per il futuro, nella convivenza col Covid-19, già si intravede un vero e proprio suicidio sociale collettivo. Che significa rimozione delle passioni, soffocamento della carne, morte delle libertà più autentiche. Si parla di mascherine obbligatorie e app da scaricare su base volontaria per tracciare i movimenti delle persone. Mentre nei luoghi pubblici, bar, ristoranti, stadi, teatri, cinema, spiagge, quando e se riapriranno, sarà vietato sedersi troppo vicini. Né non-luoghi (Augé) né iper-luoghi (Lussault), ma oltre-luoghi, in cui gli spazi di socialità saranno separati, sigillati, circoscritti, e c’è chi addirittura, nel nome del “buon senso”, esalta le strutture in plexiglas (sic) che circolano tra le proposte “creative” di contenimento del contagio.
“Per me, non v’è alcun dubbio: fra tutte le delle anomalie esistenti nella civiltà contemporanea la più evidente, quella che occupa il posto predominante, è proprio questa letteratura giornalistica, per l’azione demoralizzante e perniciosa che esercita sullo psichismo degli uomini”,
Georges Gurdjieff
Queste regole anti-virus non sono sbagliate, tantomeno anomale rispetto a quelle adottate in passato per affrontare le pandemie, ma sono insopportabili per qualsiasi comune mortale. In fondo chi ha studiato l’evoluzione delle paure e delle malattie come Giorgio Cosmacini, ci insegna che nella storia pestilenziale dell’umanità, sono sempre esistite epidemie e sono sempre state gestite allo stesso modo. Tra il Trecento e il Seicento, negli anni della peste, c’erano “patenti” o “bollette” di sanità per fermare i sospetti che provenivano dai luoghi infetti, insieme alle misure sanitarie da parte di tutti gli strati sociali, dalla nobiltà al clero, dalla classe media imprenditoriale alla gente comune. Eppure, dopo una prima fase di panico diffuso, la seconda sfuggiva il più delle volte alle autorità perché la popolazione reagiva alla coattiva gestione dell’emergenza con la rassegnazione e il fatalismo. E tramite la riattivazione dei circuiti dello scambio umano e commerciale si cercava di rendere la paura della morte (civile, fisica, morale, sessuale), legata più ai sentimenti che agli eventi, sopportabile e superabile.
Ogni momento di responsabilità sociale (Fase 1) richiede una risposta sociale. Non si tratta dunque di “decenza comune” perché in realtà si sta diffondendo un clima di paura generalizzata, amministrato da regole e auto-certificazioni, che non consente né fatalismo né socialità. Veniamo proiettati in una Fase 2 che sembra una sorta di neo-puritanesimo della sorveglianza, dove tutto è vietato e tracciato, dal contatto fisico agli spostamenti, con un controllo sempre più verticale tramite app per smartphone che orizzontale secondo il principio di delazione. È la conseguenza naturale della psicosi, il regno della diffidenza, il punto di rottura sociale.
Non si vuole negare la contagiosità del Covid-19, bensì sottolineare la percezione paranoica del Covid-19 connessa alla globalizzazione e alla velocità di diffusione. Insomma, queste ipotetiche misure anti-epidemiche forse fermeranno il virus, tuttavia accelereranno, di pari passo con la crisi economica, quella che è già stata definita la “malattia del secolo” o “malattia della civiltà”: la depressione. Definita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “la più umana delle affezioni” e che occupa tra i primi posti nella scala delle cause di morbilità. Tutto può cambiare, o forse no.