La Democrazia Cristiana è stata per molti aspetti il “partito italiano” per eccellenza. Un partito capace di incarnare profonde contraddizioni, ma anche di realizzare sintesi impensate. In grado di essere conservatore e riformista, spirituale e profano, dirigista e particolarista. Una forza politica che ebbe importanti limiti, ma che nel bene o nel male riuscì a garantire una continuità strategica e una flessibilità politica che appaiono oggi impensabili. Per comprendere il ruolo e i caratteri principali della DC abbiamo intervistato il Professor Guido Formigoni, tra i principali biografi di Moro, storico e docente, autore di saggi cruciali sul cattolicesimo politico e sulle relazioni internazionali, che insieme a Paolo Pombeni e Giorgio Vecchio ha pubblicato recentemente per il Mulino “Storia della Democrazia cristiana (1943-1993)”. Un testo che inquadra e rivela la storia della Democrazia Cristiana in maniera inedita, ricostruendo il ruolo e i caratteri di quella Balena Bianca che ha incarnato per cinquant’anni il vero volto del nostro Paese. Una eredità che a ottant’anni dalla sua fondazione (commemorata dalle attività del Comitato DC80 presieduto da Ortensio Zecchino) oggi più che mai sembra cruciale in una dialettica politica sempre più giocata e contesa al centro.
–“Partito società”, “Partito Stato”, “Partito italiano”. Professor Formigoni quali sono le caratteristiche e gli elementi fondamentali della Democrazia Cristiana?
La Dc è stata un partito complesso e composito, che ha trovato occasione di affermarsi nella transizione italiana alla democrazia dopo il crollo del fascismo, sia per la collocazione antifascista della sua élite politica, ma anche per il carattere moderato e rassicurante, che le ha permesso di intercettare un consenso conservatore, spesso precedentemente vicino al regime. Ha quindi svolto così a lungo funzioni di potere perché ha saputo costruire un consenso esteso nel paese, gestire le leve dello Stato democratico e sociale immaginato dalla Costituzione, costituire un’alternativa al più forte partito comunista d’Occidente e accompagnare il Paese tra la ricostruzione, il boom economico e la modernizzazione sociale collegata. La capacità di costruire coalizioni (dal centrismo, al centro-sinistra, alla solidarietà nazionale) era l’altra faccia della straordinaria flessibilità interna, che le permetteva di assorbire posizioni, culture e orientamenti anche marcatamente diversi. Quindi è stata sia partito-Stato che partito-società, sia partito moderato che partito riformista. Fu certamente un partito della nazione o partito italiano in quanto orientato a una sintesi nazionale tra territori, ceti, classi, e a costruire un sobrio volto nazionale all’estero.
–Secondo lei la Dc fu il Partito Perno della transizione dal sistema del Partito-Stato del Ventennio a quello repubblicano, da molti definito come di Partiti-Stato?
Non c’è dubbio che la Dc visse nella stagione d’oro dei partiti di massa novecenteschi, recuperando qualcosa della tradizione di esperienze che si erano formate fuori dello Stato e delle istituzioni, nel libero gioco sociale, prima del fascismo. Ed ereditando anche qualche aspetto del ruolo del partito nel corso del regime. Ma io non sono convinto della tesi della continuità del ruolo dei partiti-Stato tra totalitarismo e democrazia: mi paiono più forti le discontinuità (il pluralismo, la libera dialettica, la competizione sul consenso, la mediazione dei rispettivi insediamenti sociali) rispetto al ruolo istituzionale di trasmissione di istanze del potere che il Pnf svolse nel ventennio.
–Oggi perché non esiste, un grande partito cattolico centrista, ed anzi i cattolici non trovano più una formazione politica definente e di ampia portata?
Dopo la fine della Dc l’impegno cattolico in politica non è finito (ci sono – contrariamente a quello che spesso si dice – molti segni di un influsso che è continuato), ma certo è finita la stagione del «cattolicesimo politico» come impegno di formazioni politiche visibilmente e organizzativamente ispirate da ragioni collegate alla fede cristiana. O meglio, si è esaurito tale modello, dopo alcuni persistenti ma sterili tentativi di costruirne delle versioni «di destra» o «di sinistra» (si pensi al Ppi o al Cdu-Ccd), per accompagnare il bipolarismo politico della seconda fase della Repubblica. Oggi l’ipotesi di un partito definito in termini religiosi è piuttosto difficile da immaginare. Sia per le divaricazioni di una cultura politica cattolica sempre più polarizzata (si pensi alle idee diffuse su temi come la pace, le questioni bioetiche, la giustizia sociale…), sia per il carattere ineluttabilmente ancora più confessionale e minoritario che esso assumerebbe. E la stessa ipotesi centrista è stata spazzata via dai cambiamenti di sistema elettorale.
Ma la causa più radicale di questa condizione di irripetibilità è la debolezza di un mondo cattolico sempre più fragile, introverso, eroso dalla fine del cristianesimo di abitudine, incapace di elaborare cultura, letture della storia, progetti, abilità organizzative: cioè tutti i principali elementi necessari per costruire una buona politica. Occorrerebbe quindi chiedersi dove sono finiti i credenti, forse, prima di chiedersi dove sia finito l’impegno politico. Se ci fosse un soprassalto, sarebbe forse opportuno che i cattolici si interessino alla politica e facciano politica in altro modo, prendendo le proprie responsabilità come singoli o gruppi rispetto alle questioni in gioco nella storia di oggi, non pretendendo di farsi interpreti di una tradizione consegnata al passato. Si pensi agli stimoli enormi per la politica che derivano dal papato di Francesco: egli pone problemi radicati nell’appello evangelico, ma aperti a essere compresi da chiunque abbia a cuore le sorti del bene comune. Naturalmente però quello del papa non è un programma politico, ma costituisce piuttosto una sollecitazione che andrebbe pienamente politicizzata, e per questo tradotta in termini operativi, strutturati e chiari fuori dal contesto ecclesiale.
–“Una forza senza forza, un potere senza potere, una realtà senza realtà” così Sciascia descrive la DC. Secondo lei fu più partito di potere e contenitore di poteri, più padrona o più vittima degli interessi e dei particolarismi che incarnava? E come la DC ha incarnato la doppiezza del partito dell’immobilismo e quella del partito dell’innovazione?
Mah, Sciascia e gli altri intellettuali non è che capissero molto di questo partito. Il nodo della sua esperienza, potremmo dire sinteticamente, è proprio che la Dc stava sulla linea di faglia tra due campi di forze: quegli insiemi di culture, di forze, di istanze che ho definito come «partito dell’evoluzione» e «partito dell’immobilismo». Cioè tra l’istanza di riforma delle condizioni sociali per via politica, secondo il modello programmatico di Stato democratico-sociale descritto nella prima parte della Costituzione e le tendenze a concepire la democrazia in continuità con il moderatismo conservatore che era stato la base di massa del fascismo e del vecchio Stato monoclasse. De Gasperi definì notoriamente ed efficacemente la Dc come «partito di centro che si muove verso sinistra». Il problema di questa impostazione fu che il partito poteva immaginare di fare qualche passo nella prima direzione, solo portandosi dietro tutto il mondo che rappresentava la seconda componente del paese. Quindi dominava e al tempo stesso era dominata dai propri referenti sociali. In un equilibrio in parte instabile ma in parte duraturo. Che nei momenti migliori produsse innovazione sociale, riformismo politico e capacità di inserire il paese nel mondo occidentale avanzato. Però via via dagli anni Settanta in poi entrò in progressiva crisi per la complessificazione degli elementi dell’equazione: la crisi dello Stato, lo sviluppo dell’individualismo e del soggettivismo post-sessantottino, la divaricazione geografica del paese. Tutti elementi che iniziarono a incubare una crisi profonda del ruolo centrale della Dc.
–Come vede il rapporto tra DC e i partiti laici e con i partiti degli opposti estremismi? Quale ruolo ebbe il confronto con i partiti laici nella affermazione della Democrazia Cristiana e nel suo ruolo di contenimento delle opposizioni?
La capacità di coalizione fu uno degli elementi forti della Dc, tra Cln, centrismo, centro-sinistra e solidarietà nazionale: non a caso anch’essa si indebolì nella seconda parte della parabola (il «pentapartito» più che una coalizione politica fu un incontro obbligato per garantirne la governabilità, come allora si diceva). Non so se sintesi e corruzione siano i due poli prevalenti di tale discorso: in ogni coalizione politica c’è chi guadagna e chi perde, ma quello che conta per far funzionare gli incontri è una certa lungimiranza, un senso inclusivo, che spesso i democristiani manifestarono. Rispetto agli estremismi, c’è da dire che non furono sullo stesso piano: i neofascisti vennero tollerati, ma a parte qualche sbandata tra 1957 e 1960 vennero tenuti al margine. Sull’antifascismo in fondo i dirigenti democristiani non cedettero mai. Il Pci, d’altro canto, escluso dal sistema di governo dopo il 1947, venne trattato in modo da non far venire meno del tutto gli effetti del legame costituente: certamente l’anticomunismo democristiano fu netto, ma fu una versione democratica dell’anticomunismo, condotto in modo da non rischiare la deriva violenta dello scontro che la guerra fredda avrebbe anche potuto portare con sé (l’ipotesi della messa fuorilegge del partito non mancava negli autorevoli interlocutori esterni del partito, come gli americani o anche il Vaticano, ma la Dc seppe contenere tali pressioni).
–Quanto nella formazione della DC ebbero un peso rispetto al popolarismo prefascista le componenti neoguelfe e cristiano sociali?
Il popolarismo raccolse anche il neoguelfismo, a parte alcune diversità nella fase fondativa e programmatica del partito, e fu fondamentale fino al 1953, con il ruolo-chiave di De Gasperi nella prima sintesi politica e nell’acquisizione di una centralità della Dc nel governo del paese. Poi crebbe il ruolo della seconda generazione, formatasi sotto il fascismo nelle organizzazioni cattoliche, che dominò a lungo il partito. Era una componente più consapevole del volto moderno dello Stato regolatore e imprenditore (che Dossetti aveva cercato di far valere prima di abbandonare la politica) e che investiva sul ruolo trainante del partito rispetto al governo. Fanfani e Moro espressero al meglio, in modi differenti, questa impostazione, con una sponda nelle correnti della sinistra interna (di origine sindacale o meno). La terza generazione fu più interna all’orizzonte-partito, anche più secolarizzata. Ma la complessità del rapporto della Dc con il retroterra cattolico fu tale che fino alla fine la risposta alla percezione di una crisi fu cercare linfa nuova nei dirigenti delle organizzazioni cattoliche, anche se ormai in quei mondi con i capi del partito non c’era più linguaggio comune.
–Come valuta il ruolo del Codice di Camaldoli nella formazione della storia del cristianesimo democratico? E quanto c’è ancora di attuale?
La novità del cosiddetto Codice di Camaldoli – che peraltro apparve nella sua forma definitiva quando la Dc era ormai formata (nel 1945) e quindi non fu mai un testo programmatico interno – fu soprattutto un approccio meno rigido e prevenuto nei confronti del ruolo economico dello Stato. In questo senso, fu un contributo della seconda generazione, che espresse una riflessione complementare alla impostazione dei popolari. Sturzo e De Gasperi, infatti, parlavano anche loro di giustizia sociale, ma non avevano dimestichezza con la cultura della crisi, che rispondeva esattamente al problema cruciale dell’apparente fallimento del capitalismo negli anni Trenta.
–Giorgio Balzoni definì Moro un “conservatore illuminato”, lei come lo definirebbe?
Non condivido molto: Moro fu essenzialmente un riformatore convinto. Egli però aveva ben presente le fragilità di ogni prospettiva di cambiamento in Italia, e quindi era portato a grande prudenza e lentezza nella gestione dei processi innovativi: secondo lui si poteva procedere solo dopo la maturazione del consenso, la convinzione dei riluttanti, il depotenziamento dei critici. Era un metodo che nel suo caso non coincideva con la mediazione paralizzante, ma che certamente era meno volontarista e attivista di quello di un Fanfani, giungendo a volte ad esasperare i suoi stessi sodali. Ma non va sottovalutata alla fine la sua determinazione e capacità realizzatrice: la svolta di centro-sinistra e la solidarietà nazionale furono prodotti di questo suo metodo. Di qui a considerarlo conservatore, mi pare ce ne passi. Sono ben consapevole che gli si rimprovera di tutto: dall’essere l’affossatore delle speranze del centro-sinistra, fino a voler cinicamente logorare il Pci in mezzo al guado tra opposizione e governo. Ma mi paiono caricature del suo ruolo storico reale…
–Chi furono all’interno della DC i più lungimiranti aruspici che ne compresero la fine, i limiti, le potenzialità e le scommesse vinte in anticipo sui tempi?
A me sembra che fossero ben pochi ad avvertire il rischio del crollo. Il che non vuol dire non percepire la crisi, anzi. La sensazione delle difficoltà e la ricerca di modi per uscirne furono al centro di un ampio dibattito, a partire almeno dagli anni Settanta. La «questione democristiana» riempiva le pagine dei giornali: il partito era ancora in sella nell’elettorato, ma era crescentemente delegittimato nella cultura e anche nella società. De Mita dopo il 1982 si mostrò ad esempio consapevole che il sistema non teneva più e che occorresse cambiare, ma a modo suo anche Cossiga dopo il 1989 (ma non riuscirono a definire efficacemente in che direzione andare). Nonostante questo, il punto è che la classe dirigente democristiana in sostanza si sentiva inamovibile, ancora poco prima della sua fine. Il fatto che il partito non fosse mai andato all’opposizione e che anche quando perdeva voti alla fine non crollasse, era ritenuto un segnale di solidità a tutta prova. Invece arrivarono improvvisamente le smentite. Certamente contarono anche eventi inediti e imprevisti: dal crollo del muro di Berlino che tolse improvvisamente la rendita di posizione dell’anticomunismo, a Tangentopoli che rivelò quanto fosse esteso il sistema di corruzione, ai successi dei referendum sulla legge elettorale che mutarono il quadro delle aspettative politiche spiazzando le posizioni centriste. Ma ognuno di questi eventi non avrebbe avuto l’impatto devastante che ebbe se non ci fosse stata prima la ricordata parabola di progressiva decadenza strutturale, risalente per lo meno agli anni Settanta. Il che fa pensare alle attenuanti generiche per quella classe dirigente: la complessità della società italiana, del mondo attorno all’Italia, dell’economia in via di globalizzazione, stavano diventando drammaticamente più alte che in passato. Ma non li solleva dalla considerazione della cecità dovuta alla propria convinzione di indefinita durata, che non li attrezzava ad affrontare seriamente le difficoltà: nella storia nulla è eterno.