La storia di Noè e dell’Arca è stata oggetto di numerosi arricchimenti ed arrangiamenti, di traduzioni e innovazioni figlie del molteplice materiali storico-mitologici esistente che ha tramandato nei secoli la trama biblica raccontata nella Genesi. Dopo questo primo sconvolgente evento mondiale, l’arca pare sia approdata ai piedi del Monte Ararat – il luogo di Dio – fra la Turchia e l’Armenia.
È probabile che in questo contesto naturale anche il patriarca Noè si fosse abbandonato al piacere del cognac, divina essenza che sgorga distillata dalle terre incontaminate di quella parte del territorio caucasico. Tanto che nel libro della Genesi 9, 20 – 21, ambientato proprio nella piana di Erevan dopo il diluvio, «Noè, coltivatore della terra, cominciò a piantare una vigna. Avendo bevuto il vino, si ubriacò e giacque scoperto all’interno della sua tenda».
Infatti, negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale si è combattuta una guerra di nomenclatura e brevetti, conclusasi quando la Distilleria Yerevan Brandy Company fu acquistata dai francesi i quali, per gentile concessione, circostanza assai rara nella storia, cedettero lasciando al liquore Ararat l’appellativo di cognac benchè prodotto fuori dall’omonima regione francese.
Eppure, mentre lasciavamo Winston Churchill a sorseggiare il suo cognac armeno durante la direzione delle operazioni belliche, non molto distante dalla vallata ai piedi del Monte Ararat, dove millenni or sono il patriarca esule Noè trovò accampamento, si è combattuta – ed è nei fatti ancora in corso – il conflitto fra Armenia e Azerbaigian per l’occupazione e la spartizione della regione del Nagorno-Karabakh, terra ricca di minerali e metalli preziosi.
Ragioni ben diverse dalle maliziose fantasie che accompagnarono l’ubriaco Noè fino a Churchill, coinvolgendo Charles Aznavour fino al mitico Alain Prost, alle spie russe della guerra fredda, personaggi spesso ritratti a godere del nettare armeno conosciuto nel mondo ed esportato come simbolo della tradizione di un popolo.
Gli analisti politici e militari, perlomeno in Occidente, ritenevano conclusa la “piccola” guerra del Nagorno Karabakh con il cessate il fuoco del 9 novembre 2020 dopo quarantaquattro giorni di combattimento. Eppure, negli ultimi tre anni sono riemerse refluenze che sembravano sopite, riaccese da spiriti esterni e spinte potenziali eccitate dai partner militari dei contedenti.
Nel libro Imperium il giornalista e scrittore Ryszard Kapuscinski, che ha visitato l’Armenia nel 1990, quando l’Urss era ancora ufficialmente un unico Paese ma il conflitto etnico in Karabakh era già scoppiato da due anni, racconta l’intero conflitto dalla sua genesi. Fino alle due guerre postmoderne, agli accordi di Minsk ed alla instabilità attuale in cui Russia e Turchia, gli imperi-eterni contendenti dell’area caucasica, faticano a garantire una ordinata uscita dal conflitto.
Alla fine di quella guerra fredda e con la dissoluzione dell’Urss, l’Armenia aveva il pieno controllo del Nagorno-Karabakh e di alcune enclavi circostanti nel territorio dell’Azerbaijan. Questa situazione ha creato una serie di sfide territoriali e politiche non risolte che hanno continuato a infiammare il conflitto per gli anni a venire. Nel 2020, dopo decenni di scontri sporadici, l’Azerbaigian ha lanciato una operazione militare nota come seconda guerra del Nagorno-Karabakh, riuscendo a riconquistare parte del territorio, seppur al prezzo di diverse atrocità. La Russia è intervenuta per negoziare una tregua, impendo la sua forza di peacekeeping nel cosiddetto corridoio di Lachin (che collega il Karabakh con l’Armenia vera e propria). La situazione rimane instabile, con molte questioni irrisolte e sospetti reciproci.
Il cuore del conflitto risiede certamente nella rivalità di lunga data tra Armenia e Azerbaijan per il controllo di questa regione contesa, con la popolazione principalmente armena del Nagorno-Karabakh che cerca l’indipendenza o l’unione con l’Armenia, mentre l’Azerbaijan, sempre più
Negli ultimi mesi la diplomazia occidentale, in particolare l’Unione Europea e gli Stati Uniti, si è limitata a pacati moniti all’Azerbaigian e messaggi preoccupati senza alcun effetto concreto. Tuttavia, se l’accordo di cessare il fuoco non dovesse reggere, potrebbe apririsi la strada ad un attacco terrestre azero per prendere i centri abitati dove staziona la resistenza separatista armena con uno scenario da grande pulizia etnica.
Affrontare il problema dell’area caucasica con visioni, regole e strumenti utilizzabili in epoca premoderna (dalla pace di Vestfalia fino alla guerra fredda) non consente di avviare a soluzione il conflitto.
Del resto, l’enclave armena non è l’unica area critica dell’Asia centrale, terra di mezzo tra gli appetiti russi (vecchi padroni e gestori in ambito Urss dei destini dei popoli indigeni), le reminiscenze turco-anatoliche e la moderna influenza cinese da est. L’intera regione (Georgia, Kirghizistan, Kazakistan, Ossezia, Abkhazia) è attraversata da faglie pronte ad esplodere tra proteste interne verso regimi solo formalmente democratici e legittime rivendicazioni tra confinanti dopo le linee di demarcazione territoriale disegnate di seguito alla dissoluzione sovietica.
L’UE con la politica di vicinato avviata nel 2004 dopo la decisione di avviare la fase di allargamento ad est immaginava un destino comune tra Europa e Asia minore in cui Turchia, Georgia, Armenia, Ucraina rappresentassero frontiere esterne del proprio limes. E proprio l’insorgenza negli ultimi anni di guerre territoriali rappresenta il fallimento della politica europea. L’area caucasica è terra di mezzo non solo in senso geografico e geopolitico, lo è per sua costituzione ontologica, per concezione di vita. Essenzialmente nomadi, erranti, cultori della propria libertà.
Equidistanti dall’Europa e neppure considerati asiatici, nei secoli il Caucaso è stato utile intersezione tra la cultura russa e quella turca – che si sono fuse in un ordito mitologico-sapienziale dando vita ad una creatura ontologicamente nuova – nonché passaggio necessario della storica via della seta cinese. Nelle sue terre, mirabilmente evocate dal Leopardi nel celebre Canto notturno di un pastore errante dell’Asia in cui si narra della consuetudine dei pastori nomadi Kirghisi di passare la notte seduti su una pietra a guardare la luna e a improvvisare canti, i grandi imperi della storia (macedone, romano, russo, ottomano, cinese) si sono avvicendati dando vita all’attuale configurazione politica di plurime entità divise e prive di direzione unanime. Di questo ha bisogno il Caucaso, prima ancora che di una sponda esterna, sia essa occidentale o orientale. Senza unità le singole monadi statali continuerebbero a subire forze centripete o centrifughe che imprimendo direzioni opposte agli interessi generali finiscono per rompere l’equilibrio politico frammentando l’unità nel molteplice.
Qui, infatti, sembra compiersi quella che Kant definisce linea di frattura della storia, ovvero una inversione direzionale del senso della storia come progressione inarrestabile di eventi, di evoluzione modale e ontologica di un destino a causa di forze agenti di differente natura, che alterano però il percorso ordinario di un popolo come soggettività politica.
Che il Caucaso sia attraversato, come altri versanti territoriali, da tensioni politiche non è sconvolgente in un’era di grandi cambiamenti mondiali. Che, però, soprattutto in questo grande spazio geografico-politico l’elemento etnico risulti eccessivamente dominante su altri fattori di rischio è certamente inusuale, soprattutto per l’omogeneità spirituale, linguistica e ontologico-costitutiva del popolo che vi abita.
In tale scenario, più che altrove, gli attori principali non possono che essere i singoli Stati esistenti, a ciascuno dei quali va demandata la reciproca capacità di azione nel mantenere l’equilibrio, che non è più semplicemente equilibrio di mera potenza ma equilibrio sostanzialmente politico, che supera il limite della forma istituzionale soggiacente al controllo dello Stato (suo riferimento giuridico) per farsi potere concreto, decidente, definitivo, attuale. Una rinnovata auctoritas che ha in sé la forza della autorità costruttiva o della potenza rifondativa a partire dalle radici spirituali, etiche e dalle sostanze prepolitiche che precedono le forme organizzative della convivenza e che si nutrono di convivenze, connessioni, relazioni umane.