L’avvio di una trattativa per stabilire, oltre che una tregua temporanea, una cessazione delle ostilità più duratura tra Israele e la Striscia di Gaza, affinché si interrompa il flusso persistente di morte e distruzione avviato in ragione della robusta risposta di Tel Aviv al massacro e alla mattanza del 7 ottobre 2023 per mano degli uomini di Hamas, insieme ad altri esterni, reclutati comunque dal movimento estremistico islamico e sapientemente indottrinati da questo sulle più feroci tecniche eliminazionistiche e terroristiche da impiegare in piena lucida coscienza operativa – ma anche perché si possa giungere a un’interlocuzione proficua tra le parti in causa, con carattere di maggiore auspicabile stabilità – passa principalmente attraverso la definizione urgente e il chiarimento indifferibile della relazione dei palestinesi di Gaza – nello specifico, e degli altri presenti nei Territori occupati, in generale – con lo stesso gruppo di Hamas. La commistione, soprattutto politica e fisico-materiale, ma, non di meno, religiosa (anche se con intensità diverse), tra gli uni e l’altro rende evidentemente oltremodo difficoltosa la separazione chirurgica tra questi, determinando, purtroppo e drammaticamente, non solo la loro indifferenziazione come bersagli militari, ma anche la loro percezione come un complesso unitario e omogeneo, con cui sembra risultare del tutto improbabile, se non impossibile, almeno nell’immediato, sedersi a un tavolo comune.
Da parte israeliana, a maggior ragione dopo le violenze tribali perpetrate a danno della popolazione civile degli insediamenti prossimi alla Striscia – in cui, per di più, abitavano anche attivisti per la promozione di una risoluzione condivisa dell’interminabile conflitto israelo-palestinese, ovvero per la costruzione di una qualche forma di accordo di pace – la sola idea che i palestinesi possano offrire ancora una sponda politico-legittimativa ad Hamas e che ne coprano, molto presumibilmente, coi loro corpi e le loro strutture urbanistico-architettoniche, le movimentazioni militari sotterranee – in alcuni casi perché in tal senso costretti proprio dai loro presunti difensori, ma in altri perché volontariamente orientati al supporto di una forza considerata ormai esclusiva nella lotta contro il nemico giudeo-israeliano – contribuisce certamente a dissuadere i militari dell’Israel Defence Forces (IDF) dal sospendere, in modo significativo, le operazioni belliche in corso. Che le forze armate dello Stato ebraico considerano, ufficialmente, rivolte ad Hamas, e non alla popolazione della Striscia, che vorrebbero prendesse molto più evidentemente e disambiguamente le distanze dai tagliagole con le bandiere verdi, semmai distraendosi anche materialmente da essi, lasciandone emergere l’ingombrante (?) presenza ed esponendo solo loro direttamente all’azione militare israeliana che essi stessi si sarebbero ‘meritati’ avendola innescata con la loro sbalorditiva barbarie.
A tal riguardo, però, sarebbe opportuno e gioverebbe non poco che anche Israele si rendesse conto e mettesse sul piatto che la pressione esercitata nel tempo su Gaza e sui palestinesi di altre aree di occupazione ha di fatto, sul campo, intrecciato e consolidato, in modi e forme politicamente e culturalmente ormai inestricabili e molto difficilmente decostruibili, il sodalizio tra il popolo palestinese e quella compagine che questo giudica, in buona parte, ‘portatrice sana’ della propria causa identitario-territoriale. Ma, certamente sull’onda irrefrenabile di una fortemente avvertita ‘necessità’ di una severa e tempestiva reazione esemplare – interna e internazionale – da parte di uno Stato sovrano a un attacco terroristico indegno e vile su soggetti inermi e indifesi, inconsapevoli di trovarsi all’interno di un conflitto armato in atto, tale consapevolezza israeliana stenta a prendere corpo, lasciando maggiore spazio alla convinzione che palestinesi e Hamas parlino, in fondo, un’unica lingua e perseguano gli stessi fini.
Cosa che, invero, non risulta essere poi una realtà, fattuale e/o percepita, del tutto peregrina. Soprattutto se si guarda, come hanno fatto direttamente da casa loro gli israeliani, alle manifestazioni, nemmeno poi così tanto pacate e moderate, ma, al contrario, del tutto ostentate ed eccedenti, di approvazione manifesta e gioiosa da parte dei palestinesi, principalmente del Libano, nei confronti delle efferatezze compiute da Hamas, ritenute, non a prescindere, ma proprio in virtù, dunque, della loro esecrabile violenza, legittime e degne di essere debitamente festeggiate e celebrate come un giustificato e giustificabile atto di resistenza attiva alla colonizzazione ebraico-israeliana. La discesa in piazza a Shatila dei palestinesi in corrispondenza dell’eccidio di Hamas, corredata dalla distribuzione di leccornie di ogni genere ai bambini lì presenti per l’occasione di quella inedita, appena generatasi ‘solennità politica’, da giudicare come primo atto di una nuova fase di liberazione palestinese dal giogo israeliano, non deve aver certo contribuito a sollecitare governo, apparati militari e gran parte della popolazione di Israele a giudicare come separabili, e quindi, meritevoli di azioni distinte, la dimensione civile palestinese, in generale e senza distinzioni territoriali di sorta, e quella terroristica di Hamas, comprese, quindi, in un unico blocco interpretativo, politico, culturale e identitario.
Il fatto, poi, che la realtà dell’appoggio ‘politico’ effettivo da parte palestinese ad Hamas possa essere attualmente configurabile in termini quantitativi non elevatissimi non toglie, però, per un verso, che i palestinesi di qualsiasi area, da Gaza alla Cisgiordania e al Libano, abbiano avvertito, nonostante la sua perversione crudele, l’operazione anti-israeliana di Hamas come una forma fenomenologica, al pari di qualsiasi altra, di liberazione e di opposizione, ‘doverosa’ e da plauso, al regime di Netanyahu, della quale, per di più, da tempo si avvertiva l’opportunità e l’urgenza, per un altro, che per molti palestinesi a essere riconosciuto e riconoscibile come autentico rappresentante del popolo debba essere il più risoluto e politicamente incidente Hamas piuttosto che la scialba e incolore Autorità Nazionale Palestinese (ANP), che sarebbe addirittura da giudicare colpevole di inabilità a condurre a fondo e a compimento il mandato e la delega politici a significare, a livello endogeno ed esogeno, la causa palestinese. Inoltre la preferenza per Hamas sarebbe anche da addebitare al pro-israelismo e al diplomatismo filo-occidentale del presidente dell’ANP, Abu Mazen, manifestato, secondo i palestinesi, soprattutto cisgiordani, dalle sue puntuali sollecite espressioni di condanna delle violenze di Hamas contro gli ebrei e non già di quelle dell’esercito regolare israeliano contro Gaza e altri obiettivi della Striscia, a conferma della percezione, ormai largamente diffusa tra i palestinesi, che Hamas, nonostante possa essere per certi versi incondivisibile nelle sue traiettorie ideologiche di massima e nelle sue prassi operative sul terreno, rappresenti, in definitiva, l’unico e ultimo bastione a difesa degli interessi territoriali e politici del popolo palestinese, anche quando, evidentemente, tale movimento politico-terroristico impieghi largamente, e sacrificalmente/strumentalmente, parte di quest’ultimo in funzione di tessuto integrante vivente di schermatura e di difesa del suo apparato bellico. A ciò si aggiunga che la compresenza nelle piazze palestinesi delle bandiere nazionali pluricolore e di quelle monocromatiche di Hamas, pur indicando un’indiscutibile distinzione endo-ideologica e un approccio politico alla causa palestinese diversamente soppesato, in pratica rivela la vicendevole non-elisione dei gruppi e delle fazioni da esse rappresentati, per dirla negativamente, ovvero una loro plausibile e incontraddittoria con-vivenza, se la si racconta positivamente, nel senso di una loro uni-continuità in grado di palesare la loro appartenenza, nella reciproca differenza, alla medesima idea nazionale e alla stessa battaglia territoriale.
E per quanto a taluni provetti specialisti del Medioriente paia risultare una bestemmia inqualificabile l’equiparazione tra popolo palestinese e movimento di Hamas – che, comunque, laddove la si accettasse sostanzialmente, a onor del vero pure direbbe di un’adesione della non totalità dei palestinesi, e dei gazawi in modo particolare, a tale gruppo terroristico e alle sue linee statutarie, ideologiche e operative – rimane il fatto che Hamas, a partire dalla vittoria nelle elezioni del 2006 per il rinnovo del Consiglio legislativo palestinese, ha ottenuto la maggioranza dei seggi proprio all’interno dei distretti di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme Est, per poi circoscrivere e consolidare la propria posizione, in ragione dell’intervento deterrente anti-terroristico della comunità internazionale, nella sola area di Gaza. Tutto ciò a conferma della capacità di tale gruppo estremistico di captare la svolta palestinese nella modalità di inquadramento e declinazione della propria causa territoriale-nazionale, non più legata, ormai, a improduttive trattative pseudo-dialogiche e para-diplomatiche pluri-laterali, nei confronti di cui si era spenta qualsiasi positiva aspettativa, ma a strategie, ragionate quanto estemporanee, collettive quanto individuali, improntate alla violenza estrema e a un radicalismo esasperato. Il che, contrariamente a quanto ritenuto da qualche autorevole studioso, non riferisce di una perdita di fiducia dei palestinesi, soprattutto giovani, nel valore di mediazione della politica, ma dello sviluppo di una nuova concezione ‘armata’ da parte di costoro della politica stessa, che essi non tardano a esaltare come legittima, ovvero giustificata dal pluriennale impaludamento della questione politico-nazionale che li riguarda e dagli insuccessi continui di più moderati processi negoziali.
Per questo non può e non deve stupire che, a fronte della percezione palestinese di un peggioramento progressivo della propria condizione esistenziale, di un arretramento e di un indebolimento della generale azione politica dell’ANP, dell’inconsistenza storica dell’intervento dell’ONU nell’orientare a più miti consigli l’azione greve dei governi israeliani, e in particolare di quello in carica, nei loro confronti, i palestinesi abbiano maturato la convinzione, divenuta, poi, orgoglio nazionalistico, di potere appartenere maggiormente a se stessi e alla propria causa solo attraverso la condivisione della posizione oltranzistica di Hamas. Cosa che, oggi, ai loro occhi – probabilmente miopi – sembrerebbe confermare la bontà di quella scelta, visto che le ragioni che animano la loro guerra anti-israelo-ebraica sono effettivamente tornate in auge e alla ribalta internazionale non certo grazie a un dibattito politico trasversale o a una serie di intense e continuative azioni diplomatiche, ma in virtù dell’impiego della più efferata violenza anti-umana. Che, quindi, teoricamente e praticamente, pagherebbe! Se non fosse, però, che il riconoscimento della positività di quell’adesione a principi e strategie operative intonate a violenza orrorifica sistematica di per se stesso è del tutto inidoneo a rappresentare la base da cui partire per tentare di ristabilire un minimo di accettabile dialogo tra le parti.
Mentre, in effetti e al contrario, costituisce solo un ostacolo enorme e, forse, insormontabile, all’interlocuzione tra israeliani e palestinesi, che andrebbe immediatamente dismesso grazie a una seria, quanto faticosa e problematica, rimozione dell’indirizzo benevolo di una buona parte di questi ultimi nei confronti di Hamas. In tal modo agevolando Israele e gli altri attori politici internazionali – interessati alla risoluzione (nei tempi più stretti possibili) di tale pericolosa e già pesante, in termini di vite umane spezzate, spirale di violenza – in quella operazione di distinzione chiara e trasparente dei veri nemici da combattere, che oggi risulta così complicata e difficoltosa a causa di quell’intersezione e commistione ideologica e fisica – di fatto e in molti casi voluta, oltre che, in altrettante circostanze, tragicamente forzata – tra palestinesi e Hamas.
Ambiguità, questa, che, se, da un lato, è capace di nuocere principalmente al popolo palestinese, anche per questo, in pratica, sotto duro attacco di riflesso israeliano alle stragi del 7 ottobre, dall’altro, deve, però, essere disinnescata anche grazie all’aiuto dello stesso Israele quale Stato democratico, chiamato a dimostrare un superiore e maturo spessore etico-politico rispetto al suo nemico, grazie, cioè, al suo ragionevole e strategico sforzo di non alimentare nei palestinesi, con la sua politica spesso intransigente e oppressiva nei loro confronti – che con il governo Netanyahu è passata a un livello di attività strutturata e ordinaria – quel senso di disagio, di afflizione e di disperazione che fa presto a trovare nella fiducia nella prassi terroristica, attuata dal gruppo estremistico di turno, il farmaco più idoneo e la via più immediata per affrontare e credere di poter così risolvere la situazione patologica, ormai quasi cronico-degenerativa, si direbbe addirittura cancerosa, in cui, a un certo punto, si ritiene di essere inesorabilmente incorsi e implicati.