OGGETTO: Addio, Bakhmut
DATA: 26 Maggio 2023
SEZIONE: Geopolitica
AREA: Asia
La “fortezza” è caduta: si conclude dopo quasi un anno la battaglia più feroce del conflitto russo-ucraino. Che adesso rischia di diventare un pantano senza uscita.
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Bakhmut è caduta. Lo ha annunciato sul suo canale Telegram Yevgheny Prighozin, fondatore, numero uno ed istrionico promotore del Gruppo Wagner: l’altro esercito del Cremlino, un sinistro miscuglio di veterani, ex galeotti e semplici civili in cerca di gloria a buon mercato, ha infine prevalso sugli imberbi coscritti delle ZSU. Tra le rovine della città martire, 77mila abitanti in tempo di pace, riecheggia ora il botto sordo non di un colpo di fucile, ma di una bottiglia di champagne, trafugata dai mercenari in una nota cantina dei sobborghi e stappata, quasi in segno di scherno, in quello che fino a pochissimi giorni fa era il punto più caldo dell’intero fronte. È con questo parallelismo surreale che dopo mesi di combattimenti senza quartiere pare debba concludersi lo scontro più feroce della guerra che da oltre un anno dilania l’Ucraina; mentre Putin celebra il primo, vero successo colto dalla scorsa estate, a Kiev glissano sull’accaduto, e anzi suggeriscono che la battaglia stia per entrare in una nuova fase.

Impossibile per il momento fare un bilancio dell’immane bagno di sangue consumatosi nel cuore del Donbas. Di certo c’è soltanto che il tritacarne, come l’hanno ribattezzato con macabro umorismo i soldati di entrambi gli schieramenti, ha inghiottito migliaia di uomini, insieme ad una quantità incalcolabile di munizioni, veicoli e materiale militare assortito; le cifre in circolazione (comunque aleatorie e non di rado riconducibili alla propaganda dell’una o dell’altra parte) superano le centomila perdite complessive. Tutto parte del piano, assicurano i rispettivi alti comandi: Bakhmut sarebbe stata un’ingegnosa trappola, le sue vie deserte delle kill zones studiate per decimare i reparti nemici fino al completo esaurimento. Da par nostro ci limitiamo a constatare l’impressionante livello di attrito, ammonendo però che esso non può che riflettersi in maniera nettamente diversa su contendenti tra i quali permane un sostanziale divario numerico e demografico: i russi sono in vantaggio.

Ridotta la roccaforte avversaria, gli invasori possono aggredire il vicino crinale di Chasiv Yar — voci non confermate lo danno già sotto il tiro dell’artiglieria — e da lì puntare alle linee difensive poste tra Kramatorsk e Slaviansk. Oltre si stende la valle pianeggiante del Dniepr: in teoria, una spinta sostenuta potrebbe costringere gli ucraini ad abbandonare la regione di Donetsk, se non addirittura a ripiegare aldilà del fiume. Nelle ultime due settimane le truppe gialloblu hanno eseguito ripetute manovre sui fianchi del principale vettore di avanzata russo riuscendo, sebbene al costo di pesanti perdite, a sbloccare una manciata di strade secondarie attraverso cui evacuare le unità impegnate nella disperata azione di retroguardia attorno ai palazzoni sovietici del quartiere ovest; taluni ipotizzano si tratti del preludio ad un’operazione di più ampia portata, volta ad isolare i reparti regolari sopraggiunti in zona per rincalzare gli esausti Wagner e riprendere l’insediamento.

Altri vi intravedono nientemeno che l’avvio della controffensiva di primavera a lungo caldeggiata da Zelensky e i suoi; tuttavia, l’esiguo numero di reparti impiegati e l’ampiezza dell’area operativa loro assegnata non danno motivo di credere che i movimenti fuori Bakhmut debbano aprire un attacco generale. La fuga di notizie dal Pentagono, la cronica penuria di risorse — molte delle quali dirottate proprio sulla città assediata — e una nuova, violentissima campagna aerea russa, che ha visto duramente colpite la capitale e una serie di importanti snodi logistici nelle retrovie, contribuiscono ad una situazione strategica sempre meno sostenibile. Con l’estate alle porte, la leadership militare di Kiev ha davanti a sé un dilemma di difficile soluzione: la scelta è tra agire adesso, sottraendosi così alla dinamica di logoramento che i russi cercano di imporre fin dallo scorso autunno ma andando incontro al serio rischio di fallire, o rinunciare a del tempo prezioso per rafforzarsi in vista dei prossimi sviluppi sul campo.

Frattanto, tocca al capo di Stato ucraino rimediare al crescente imbarazzo per i ritardi dell’assalto alla Crimea. Zelensky sa bene che, al netto delle continue promesse del contrario, il sostegno accordato al suo Paese dal blocco occidentale non è privo di limiti; Bruxelles e soprattutto Washington, alle prese con un default ormai dato pressoché per certo e divisa da una vigorosa fronda repubblicana contro la politica di “assegni in bianco” promossa dall’amministrazione Biden, si aspettano risultati. L’irriducibile presidente ha allora lanciato una sua personale offensiva (diplomatica) imbarcandosi in un tour de force che da Roma — dove ha seccamente rigettato la prospettiva di una mediazione vaticana per la pace — lo ha portato fino al summit G7 di Hiroshima. Un tentativo di rincuorare i partner stranieri, ma pure di temporeggiare nella speranza che dal prossimo vertice atlantico di luglio arrivino le garanzie di sicurezza da lui chieste a più riprese nonostante il cauto attendismo del Segretario Stoltenberg.

Che questo desiderio venga esaudito è assai improbabile, anche alla luce della possibile riconferma di Erdogan alla guida della Turchia, il cui atteggiamento rispetto alla crisi è stato in aperta discontinuità col resto della NATO. In ogni caso, Zelensky può dirsi soddisfatto: esclusa l’accoglienza piuttosto fredda riservatagli alla riunione della Lega Araba (alla quale ha presenziato, per la prima volta in dodici anni, la Siria di Bashar Al-Assad), l’intensa serie di visite di visite ufficiali ha dato frutto. Al recentissimo arrivo nel teatro bellico dei missili a lunga gittata Storm Shadow e SCALP fa seguito la notizia che un gruppo di nazioni europee intende donare a Kiev circa una dozzina di caccia F16. Una svolta tanto improvvisa — la querelle in merito si trascinava quasi dall’inizio delle ostilità — quanto significativa; aldilà del diffuso entusiasmo, il trasferimento dei velivoli restringe ulteriormente la già ristretta gamma di opzioni convenzionali a disposizione della coalizione filo-ucraina.

Restano inoltre da dirimere i nodi fondamentali delle infrastrutture e dell’addestramento. Le sofisticate piattaforme americane non si prestano a partire da campi d’aviazione improvvisati, tattica che ha finora permesso all’aeronautica ucraina di continuare a battersi; si pensa di impiegare basi aeree in Polonia e Romania, ma ciò le renderebbe verosimili bersagli per una verosimile risposta russa, con conseguenze (in)immaginabili. Quanto alla questione addestrativa, essa non riguarda i soli piloti — che avrebbero bisogno di almeno diciotto mesi di formazione — ma anche la pletora di tecnici e meccanici necessari per la manutenzione delle macchine: non è ancora chiaro in che modo verranno reperite queste figure altamente specializzate. Pochi e privi di capacità stealth con le quali eludere la fitta rete antiaerea avversaria, gli F16 possono al meglio fungere da sostituti per i mezzi andati persi nei mesi passati; sfuma immediatamente l’ennesimo miraggio di un’arma risolutiva.

Se c’è una lezione da trarre dalla carneficina di Bakhmut, è che nel contesto attuale non esistono strumenti o approcci in grado di condurre ad una vittoria rapida. Si tratta di una constatazione affatto scontata, ma che nondimeno mette in seria discussione le fondamenta del pensiero strategico occidentale come elaborato a partire dall’esperienza di Desert Storm, ormai tre decenni fa. La nozione per cui il ricorso allo strapotere aeronavale come sostegno di una fulminea avanzata terrestre può chiudere la partita nel giro di alcune settimane cozza con la realtà della contrapposizione con soggetti near peer capaci di influenzare o addirittura dettare la conduzione delle operazioni secondo i propri criteri: così l’Ucraina, le cui forze armate post-Maidan erano state strutturate per compiere colpi di mano veloci, profondi e devastanti, si è trovata ad avere a che fare con un nemico pervicacemente legato alla dottrina della guerra totale e metodica; l’insormontabile sproporzione tra le parti sembra star facendo sì che a prevalere sia quest’ultimo.

Non ci è dato di conoscere con certezza l’esito del conflitto. Ma possiamo affermare, questo sì con fiducia ed un sospiro, che durerà ancora per parecchio. Come fu per l’Europa del 1915, l’idea di un conflitto breve va tramontando in mezzo al fango delle trincee; al suo posto prende piede la grande illusione — non sono parole casuali — dell’offensiva chiave, lo sforzo estremo con cui cogliere l’agognato trionfo. Inutile dire che ad un’offensiva ne segue un’altra in direzione opposta, e avanti finché qualcuno non cede e si arrende. In Ucraina quel momento potrebbe non arrivare mai per davvero: se all’epoca mitragliatrici e cannoni aprirono le porte di Versailles, per noi contemporanei lo spettro dell’atomica implica la possibilità di una fine diversa e senza ritorno, per scongiurare la quale si potrebbe tacitamente scegliere di lasciare le cose come stanno. Né guerra, né pace: che è poi la condizione nostra. Limbo per limbo, forse è meglio questo qui.

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