Doveva essere la grande svolta, l’ultimo, colossale sforzo prima della tanto attesa vittoria sull’invasore. Oltre centomila uomini aspettavano il via con palpabile entusiasmo, sicuri di battere il nemico e restituire infine la Crimea alla patria mutilata: «stiamo arrivando» era il messaggio, insieme una rassicurazione ed una minaccia, che la propaganda aveva rivolto alla gente della penisola e ai suoi occupanti. Ma a tre mesi esatti dall’inizio delle operazioni, sembra chiaro che la controffensiva ucraina non raggiungerà le coste del Mar Nero. Troppo intensa la resistenza dei russi, asserragliati dietro un labirinto di campi minati, trincee e bunker; troppo pochi i soldati, i mezzi e le munizioni a disposizione di Kiev. La fulminea avanzata promessa agli alleati occidentali si è presto ridotta ad un incedere lento ed agonizzante: solo nella prima settimana sarebbe andato perso il 20% dei veicoli schierati, mentre morti e feriti si contano nell’ordine delle decine di migliaia.
Con ancora qualche settimana prima dell’inizio della stagione piovosa, i comandi gialloblù tentano il tutto per tutto. I reparti finora rimasti in riserva muovono verso il fronte, e aumentano per numero e frequenza gli attacchi di droni contro Mosca; Il danno politico, però, è fatto. La scommessa di Zelensky, che aveva puntato sul successo dell’attacco generale per compattare i partner esteri del suo Paese, è fallita: apparentemente esaurita la presa della retorica, il presidente ucraino si ritrova senza nulla da offrire in cambio di un sostegno che appare di giorno in giorno meno scontato. La recente autorizzazione al trasferimento di una cinquantina di caccia F16 — comunque non utilizzabili prima della prossima estate — non basta a fugare appieno l’impressione che i rapporti tra Kiev e il blocco atlantico si stiano raffreddando; dopo il farisaico rifiuto incassato al summit di Vilnius, già teatro di alcuni scambi piuttosto tesi, nella nazione assediata monta la frustrazione.
Gli ucraini lamentano la scarsità del materiale arrivato (sovente in pessime condizioni) da Ovest; gli alti papaveri NATO replicano criticandone l’impiego, giudicato non in linea con la dottrina e dunque inefficace. Sono tuttavia le tempistiche del conflitto a rappresentare il vero pomo della discordia. Spronata dagli Stati Uniti, dove l’amministrazione democratica si prepara ad una campagna presidenziale incandescente, Bruxelles preme affinché le ZSU facciano progressi sostanziali entro la fine dell’anno: che ciò avvenga è d’altronde assai improbabile, come già sottolineano diversi analisti, e anzi serpeggia il timore che il Cremlino approfitti della situazione di relativo vantaggio per lanciare una propria manovra a nord delle aree attualmente contese. Sul campo di battaglia si profila lo spettro dell’incertezza; così, complice la crescente apatia degli elettori di entrambe le sponde dell’Atlantico, nelle stanze dei bottoni fa ancora una volta capolino l’ipotesi di una trattativa.
«Penso che la soluzione potrebbe essere che l’Ucraina rinunci al territorio e ottenga invece l’adesione alla NATO», ha detto in un’intervista al quotidiano norvegese NV il capo di gabinetto dell’alleanza Stian Jenssen. Una tacita confessione, prima che una proposta: il territorio cui si riferisce Jenssen non può che essere il Donbas, a riprova della sfiducia maturata in seno all’Organizzazione rispetto alla prospettiva di una futura riconquista della Crimea. Comunque, l’idea di cedere la martoriata porzione orientale dell’Ucraina in cambio di garanzie politiche non è affatto inedita. Nonostante il comprensibile sensazionalismo della stampa, la linea del compromesso gode sin dall’apertura delle ostilità di un sostegno sorprendentemente ampio; fazioni ideologiche e personaggi altrimenti agli antipodi — ricordiamo tra gli altri Edward Luttwak e Noam Chomsky — continuano a caldeggiare uno scambio, magari suggellato da un referendum sotto supervisione ONU, che chiuda la partita senza scontentare nessuno.
I fautori di un simile negoziato sposano cioè una lettura del conflitto russo-ucraino quale mera disputa etnico-territoriale in continuità con la pluriennale crisi del Donbas, il cui definitivo distacco dall’Ucraina dovrebbe secondo la loro logica condurre alla fine dello scontro. Ma un anno e mezzo di incessante spargimento di sangue ed il sempre maggior coinvolgimento di attori esterni hanno reso quello che nelle fasi d’avvio dell’invasione avrebbe potuto essere un approccio efficace — seppur basato su presupposti discutibili — una chimera anacronistica. In gioco c’è ben più degli oblast di Donetsk e Luhansk: dall’esito della guerra dipendono la sopravvivenza dei due contendenti, nonché la tenuta degli equilibri di potere globali in vigore dal crollo del Muro di Berlino. Tutte le parti in causa ne sono coscienti, e nessuna è pertanto disposta a cedere se non espressamente costretta dalle circostanze.
Non lo è anzitutto Kiev, per cui il ripristino dei confini nazionali stabiliti nel 1991 rappresenta un obiettivo irrinunciabile anche e soprattutto alla luce degli enormi sacrifici compiuti finora. Le perdite subite dalle forze armate ucraine ammonterebbero a non meno di 150mila uomini; per quanto gli apparati militari locali assicurino di poter ancora contare su un vasto bacino di riserve — fino a 500mila potenziali reclute, stando al viceministro della Difesa Hanna Malyar — diversi interrogativi, in primis rispetto a come questo notevole influsso di truppe verrebbe addestrato ed equipaggiato, restano privi di risposte certe. Preoccupa a tal proposito l’accennato scontento che serpeggia presso i pubblici europei e statunitensi: è significativo che per la prima volta dallo scorso febbraio, una (sottilissima) maggioranza degli americani, Congresso incluso, si dica sfavorevole all’invio di ulteriori aiuti, in barba alle insistenze della Casa Bianca e delle eminenze grigie di Capitol Hill.
Va a malapena meglio nel Vecchio Continente, dove la conclamata recessione tedesca rischia di far naufragare il controverso piano di sostegno elaborato dalla Commissione UE. Inquadrato in un budget comunitario rivisto (il precedente sarebbe dovuto durare fino al 2027), il programma dovrebbe destinare al dossier ucraino la cifra record di cinquanta miliardi di euro: approvare un simile esborso sarà però difficile senza il placet della Germania — il cui governo ha peraltro annunciato in questi giorni la sospensione del processo di adattamento allo standard di spesa NATO del 2% del PIL — e della Francia, già impegnata a contenere gli effetti dell’ondata di golpe che stanno sconvolgendo il suo ex impero africano. È insomma verosimile che per il momento dovrà essere perlopiù Washington ad occuparsi di tenere in piedi lo Stato ucraino: il Pentagono si appresta ad inviare armi ed attrezzature per trecento milioni di dollari, e sarebbero in cantiere nuovi pacchetti finanziari, in una dinamica che con ogni probabilità non potrà durare ancora a lungo.
E il Cremlino? Nonostante i segnali contrastanti dell’economia — l’output della Federazione dovrebbe crescere dell’1,5%; pesano nondimeno il netto calo degli export energetici e la conseguente ondata svalutativa che ha interessato il rublo nelle ultime settimane — e le evidenti tensioni interne al regime, culminate con il tentato putsch ed il successivo assassinio di Yevgheny Prigozhin, Mosca prosegue imperterrita la campagna in Ucraina, con la quale condivide la volontà di vedere compensati appieno i costi umani e materiali cui è andata incontro. In altre parole, Putin non è disposto ad accettare un accordo che non codifichi in diritto le pretese geografiche e politiche russe, il che nullifica qualsiasi possibilità di addivenire ad un’intesa informale analoga a quella del 2014. Eventuali concessioni dovranno essere legittimate de iure, non de facto: sarebbe un colpo micidiale per il sistema di sicurezza internazionale post-1945, già ampiamente screditato, e quanti se ne sono fatti (almeno a parole) promotori.
Da questa parte della barricata si corre ai ripari per cercare di assicurare all’Ucraina quanto più tempo possibile, dall’altra circolano voci su una nuova mobilitazione, preludio di una spinta volta a spezzare una volta per tutte la resistenza di Kiev; i civili, che siano intrappolati nella zona dei combattimenti o sfollati nelle retrovie, possono aspettarsi una seconda stagione di bombardamenti, gelo e miseria. Sperare in un armistizio alla coreana, figlio del reciproco sfinimento, è un esercizio inutile: si tratterebbe al meglio di una breve interruzione della carneficine, e senza le Nazioni Unite a mediarlo esso rimane in ogni caso una fantasia lontana. In ultima analisi, la guerra è destinata a continuare. Per dire in che modo bisognerà attendere; di certo c’è che il definitivo consolidarsi dei meccanismi dell’attrito promette di renderla ancora più sanguinosa, perpetuando la spirale (auto)distruttiva che pare aver inghiottito ambo gli schieramenti. E soffocando una pace che è ormai solo un miraggio.