Al portellone dell’aereo, socialismo a occhi chiusi: profumo di benzina raffinata male, ricordi di poliziotti sospettosi, telefoni controllati e mercato nero. Oltre, la solita miseria, sporco, ruggine e lavori in corso. Tiziano Terzani conosce bene Habarovsk, all’incrocio tra Amur e Ussuri, capitale e comando militare dell’estremo oriente sovietico; dove l’esploratore cosacco Erofej Pavlovič Habarov giunse verso metà Seicento e rimase poco, cacciato via dall’imperatore celeste.
Le presentazioni vanno al ristorante per stranieri. Giornalisti sovietici, cinesi, un corrispondente polacco da Pechino. Chi sarà la spia? Saŝa ha lavorato per l’agenzia Novosti che spesso copre gli agenti del Kgb. Il signor Ren è molto curioso dell’italiano che parla cinese: amici in Cina? Dopo l’espulsione, non è proprio il caso di comprometterli.
Comunque, una notte alla foresteria del Partito. Poi di nuovo in involo. Verso la confluenza e il fiume senza sorgente, il gorgo in cui Silka e Argun si fondono per creare l’Amur. Attende un battello bianco, la Propagandist.
Buonanotte signor Lenin (Longanesi, 1992) è il libro che racconta il viaggio, il grande fiume, l’Asia Centrale e il Caucaso, alla fine del comunismo. Rivelando corsi storici profondi, fondamentali per comprendere il presente e immaginare il futuro. Qui ne osserveremo alcuni, tra le pagine. Anche se all’inizio, manca il carburante della Propagandist. Autobus per la mitica Albazino.
Il museo imita l’antico forte cosacco con una palizzata di tronchi. Guida una ragazza giovane: nel 1685 i cinesi assediarono il forte; di ottocento cosacchi ne rimasero sessanta; seguì il trattato di Nerchinsk; le terre a nord dell’Amur divennero «neutrali». In realtà, «neutrali» è un eufemismo russo, quelle terre restarono tributarie della Cina. Farlo notare toglie due veli: «Non è forse vero che i cinesi sono stati qui secoli prima dei russi e che prima dei russi sono scesi lungo il corso dell’Amur, arrivando fino a Sakhalin?». La guida sorride ed esclama: «io sono patriottica». La signorina Liù invece attende e bisbiglia al collega italiano: «Per i russi la storia comincia solo tre secoli fa».
In ogni caso le barbe rosse tornarono. All’epoca dei trattati ineguali, Pechino cedette a Mosca 300.000 chilometri quadrati a nord del grande fiume. Compreso il territorio chiave, insinuato nei mari caldi, tra l’Ussuri e il Pacifico, dove sorse Vladivostok. In russo, Vladivostok significa Conquistatore dell’Est.
Secondo Terzani, la Russia è impero fluviale. Lungo il Don e il Dnepr, verso Bisanzio. Lungo il Volga, verso l’Asia Centrale e il mar Caspio. Al di là, i fiumi siberiani. Nel 1969, il conflitto sino-sovietico esplose con l’artiglieria, quando la corrente dell’Ussuri spostò un’isoletta. Allora l’Occidente discusse una controversia ideologica tra due interpretazioni di Marx. Vent’anni dopo, trapelò un avanzato carro sovietico, colpito e immobilizzato sull’isola. I cinesi desideravano trascinare il mezzo sulla propria sponda; i sovietici erano decisi ad impedirlo. Alla fine, il ghiaccio cedette sotto i cingoli e il fiume calmò la disputa.
All’alba, parte la Propagandist. In russo, Siberia significa la Terra che Dorme. Ed è proprio così. Una riva di filo spinato elettrificato, intervallato per le caserme della guardia di frontiera. Otto milioni di russi in tutto l’estremo oriente, ricchissimo. La riva cinese invece è ben sveglia, tronchi tagliati, deportati sempre a lavoro, insediamenti. Ottanta milioni di abitanti nella sola Manciuria, povera. L’amicizia senza limiti era lontana.
Neppure la storia agita troppo il sonno. Il 19 agosto, alle 13.42, la Propagadist attraversa due coste verdi di betulle. I giornalisti prendono il sole sul ponte. A Mosca è l’alba. Il capitano accende la radio: un colpo di Stato contro Gorbacëv. Il timore principale è che la spedizione venga fermata e gli stranieri espulsi. Ma la crociera continua. La base militare Markovo è troppo piccola e non riceve ordini. La città di Blagoveščensk, se ne infischia.
Per la maggior parte delle persone, Boris Eltsin è più russo dei comunisti, tanto basta. Uno strano cosacco appunta un’aquila zarista sulla divisa. Il monolite sovietico non esiste. L’Amur scorre in Russia. E gli eventi accadono a Mosca.
Per fortuna, la manutenzione della pista inizia all’ora stabilita, incurante dell’ultimo aereo in ritardo. Niente scalo. Così, Terzani manca il volo per la capitale e si ravvede: là è già pieno di giornalisti, non ci sono esclusive. Il colpo di Stato fallisce. Gorbacëv si dimette da segretario del Partito Comunista. È il risveglio da un sogno e da un incubo, durati settant’anni. È la fine.
Meglio attraversare l’Asia profonda, dalla foce dell’Amur alla Piazza Rossa. Sotto gli zar, l’Asia Centrale era stata il Turkestan. Kazakhi, kirghisi, tagiki, uzbeki, turkmeni vivevano a modo loro, professavano l’Islam, parlavano lingue turciche e scrivevano in caratteri arabi. I bolscevichi accelerarono una modernizzazione alla russa e insegnarono il principio di nazionalità. Confini arbitrari tagliarono cinque nuove repubbliche socialiste sovietiche. L’alfabeto cirillico sostituì l’arabo. L’Islam fu scoraggiato. L’immigrazione e la lingua russa furono incentivate con le deportazioni.
Adesso tutto cambia. Segretari vecchi sciolgono il Partito Comunista e diventano presidenti nuovi.
In Kirghisistan, Terzani intervista Askar Akaev: «Ma non è anche lei uno di questi? E come può la gente fidarsi di dirigenti come lei, che fino a ieri hanno detto una cosa, e oggi improvvisamente cambiano tono e dicono il contrario?», «Sì, sono stato comunista, ma, mi creda, in cuor mio ho sempre pensato che Adam Smith fosse meglio di Marx». Akaev desidera costruire una coscienza nazionale kirghisa e mantenere il legame con la Russia. I nazionalisti vorrebbero riservare il diritto di proprietà ai soli kirghisi etnici. Intanto, decine di migliaia di russi se ne sono già andati. A Osh la maggioranza degli abitanti è uzbeka. La decisione di costruire le case popolari per un gruppo di lavoratori kirghisi sul terreno di una comune agricola dell’altra etnia, bastata a scatenare due folle. Vittime ufficiali 297 e assalti contro le comunità uzbeke in varie regioni. Nella notte, un uomo misterioso raggiunge in albergo, ha molto da raccontare. Il Partito avrebbe fomentato i massacri, ritardando l’intervento della polizia per mantenersi al potere quale moderatore ed impedire il ritorno di un Turkestan mussulmano ostile alla Russia. Versione plausibile ma non c’è modo di verificare.
Miša invece è un ebreo bielorusso e guarda la statua di Lenin: «Per anni ho sognato che la buttassero giù. Ma ora? Ora voglio che Lenin resti al suo posto perché, se da qui se ne va via lui, allora me ne debbo andare anch’io. Nemmeno io sono kirghiso».
In Kazakhstan, quasi tre milioni di chilometri quadrati e sedici milioni di abitanti. Sette milioni kazakhi, altrettanti slavi europei e due milioni di minoranze. Come i tedeschi del Volga che ormai parlano russo ma sperano di tornare in Germania.
Al museo la guida è kazakha: il Kazakhstan ha una civiltà antica; i locali chiesero l’annessione alla Russia per difendersi dalle invasioni; i russi portarono l’agricoltura e la modernità. È solo l’ultima versione che gli è toccato imparare. E finalmente può aggiungere quel che pensa davvero: «Altro che modernizzazione! Quella russa è stata una vera e propria colonizzazione e questo museo presto dovrà essere tutto riorganizzato».
Una riorganizzazione sperata e temuta. Grigorij era produttore nella televisione pubblica ma è stato sollevato dal ruolo perché russo, occorreva aumentare la quota dei giornalisti kazakhi, evitare tensioni etniche: «Per anni sono vissuto nel Kazakhstan tranquillamente, ma da allora mi ci sento sempre più a disagio. Ho qui i miei figli, i miei nipoti. Le mie radici qui sono profonde, ma ormai sono come un albero che ha paura del vento». Eltsin ha già alluso a «problemi irrisolti» nelle regioni settentrionali a maggioranza russa, scontente del nuovo Kazakhstan; il che non ha aiutato quelli come Grigorij. Intanto, Nursultan Nazarbaev cambia nome al Partito e resta presidente. La continuità incoraggia gli slavi a trattenersi.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, molti russi hanno lasciato l’Asia ma la questione delle minoranze di origine europea resta aperta.
Il Tagikistan è di stirpe e cultura persiana. Il Turkestan non interessa proprio a nessuno. Nella Casa dei Poeti, i giovani discutono dell’emiro di Bukhara cacciato dai bolscevichi con l’aratro di legno e il chador; del cotone, del carbone e dell’oro portati via, in cambio di poco. Della cultura tradizionale cancellata dal cirillico. E della sciagura peggiore: «Considerarci una delle tante minoranze della regione e di abbassare la nostra cultura, vecchia di quattromila anni, ai livelli di quella dei kazakhi, dei kirghisi e degli uzbeki che non avevano neppure una scrittura loro». Oltre, le città tagiche di Bukhara e Samarcanda, assegnate all’Uzbekistan. Questione simile a quella già calda tra l’Armenia e l’Azerbaigian, con il Nagorno-Karabah. I bolscevichi sapevano davvero, come tracciare i confini del loro dominio.
Intanto a Dušambe, anche Rakhman Nabiyev celebra l’ultimo congresso e mantiene il potere, in giacca d’apparato. Protestano sparuti democratici. Mentre il Partito per la Rinascita Islamica che legalmente non esiste, riempie la piazza di sgargianti caftani da contadino e tuniche grige da mullah.
Il Partito Comunista diventa Socialista, ereditando sedi e proprietà. La folla medievale raggiunge la statua di Lenin che non vuole andarsene. Alla fine, arriva una gru più forte. Lenin cade: «Allah… Allah… Allah Akbar». Arabi e comunisti giunsero entrambi da invasori, dei primi resta una civiltà, dei secondi qualche opera pubblica, “alla lunga la gente ricorda le moschee e le cattedrali e non le centrali elettriche e le autostrade, ricorda le preghiere o i versi di un poeta più che gli slogan dei politici o i discorsi di un segretario”. Il risveglio dell’Islam è forza storica.
Altri lavorano senza urlare. Sull’aereo per Ašhabad, viaggiano due diplomatici. Sono turchi e non hanno bisogno d’interprete, le varianti locali non rompono quella grande area linguistica che dal cuore della terra giunge sul Bosforo. E si raccomandano perché gli occidentali accettino che ai popoli dell’Asia Centrale non interessa diventare liberal-democratici. Le divisioni vere sono tra clan, non politiche. L’abitudine a una guida forte precede il comunismo e continuerà. Suggeriranno ai vari governi di impegnarsi perché le minoranze russe continuino a vivere in Asia con le loro competenze tecniche, di adottare l’alfabeto latino anziché l’arabo, il turismo e l’industria tessile per superare la monocoltura del cotone; senza aggiungere la bandiera turca ad altre firme sfacciate sulle scatole degli aiuti; “ma ancor più interessante trovo l’orgoglio e la determinazione con cui questo signore turco lavora per ridare al suo paese un ruolo di protagonista in questa regione che un tempo gli apparteneva. Ho l’impressione di uno che si sente a casa sua, di uno che sta andando a un appuntamento mancato da decenni, sicuro di trovare ancora qualcuno ad aspettarlo”.
Con tanti nuovi stati, è facile incontrare delegazioni simili. I sauditi invitano i giovani religiosi a studiare l’Islam in Arabia. Gli iraniani portano i libri di Khomeyni. I cinesi che scrutano preoccupati.
Negli anni Trenta, il centro era debole. E Ma Chung Yin guidò la rivolta mussulmana della periferia, imperversando nello Xin-Jiang. In segreto, Stalin favorì Pechino. Il console sovietico a Kashgar invitò Ma Chung Yin nell’Urss e il ribelle cadde in trappola. Perfino l’isoletta sull’Ussuri non aveva impedito di spedire indietro i rispettivi dissidenti, quando i fiumi siberiani ghiacciavano e qualcuno provava ad attraversare. Come si sarebbero comportate le nuove repubbliche, con i loro connazionali mussulmani residenti in Cina?
L’ultima tappa del viaggio è Mosca. La bandiera dell’Unione Sovietica sventola ancora sulla Piazza Rossa. Lenin morì nel 1924, due anni dopo la scoperta della tomba di Tutankhamon. Si dice che Stalin rimase affascinato dalla mummia e volle lo stesso per il padre della rivoluzione.
Gli ingegneri adoperavano la conoscenza delle leggi della fisica per costruire ponti, strade e fabbriche. La sapienza religiosa era superstizione falsa. Marx aveva scoperto le leggi della società umana; Lenin intendeva utilizzarle con rigore scientifico per la sua opera di ingegneria sociale e ricostruire il mondo dell’uomo, come si fosse trattato di un’operazione matematica. Un giorno, la scienza avrebbe risuscitato i morti; il volto di Hiroshima restava ancora nascosto. Ma una volta morto lui, l’iconoclasta divenne icona, una statua in ogni città, dio guerriero, dio del progresso, dio della fertilità per gli sposi sovietici, matrimonio laico e poi innanzi alla mummia. Terzani visita il corpo, le guardie del Kgb prendono in custodia la macchina fotografica, controllano le tasche, intimano silenzio. Liturgia agli sgoccioli. Il dio rosso è morto.
Fuori, uomini d’affari, prostituzione occasionale, tassisti rapinatori e prezzi che mutano da rubli a dollari per truffare gli occidentali. La soluzione a tutto, sembra vendere ai giapponesi. Qualcuno rimpiange Stalin. Saŝa vive a Mosca e passa per i saluti all’aeroporto, «È terribile, ma noi russi reagiamo solo se ci sentiamo minacciati. Ci vorrebbe qualcuno che ci invadesse, ci mettesse contro il muro, allora forse ritroveremmo la nostra forza».